Agosto 2016

Raccontando la Palestina
di Valerio Arletti

Sono già passate due settimane dal ritorno dalla Palestina ed è capitato spesso che parenti e amici si siano rivolti a me per cercare di strappare qualche impressione sul mio viaggio di conoscenza.

Devo ammettere che questo tipo di domande mi mettono abbastanza in difficoltà perché partono da un presupposto difficilmente realizzabile, ovvero l’avere già nella propria testa un’idea abbastanza limpida della propria esperienza. Effettivamente, ripercorrere tre settimane così piene e cercare di trasmettere l’intensità delle emozioni provate non è un’operazione facile.

Quello che forse è più difficile raccontare è come la quotidianità nel villaggio di Wadi Fukin possa essere non solo possibile, ma anche ricca e capace di stimolare nell’osservatore straniero tantissimi spunti di riflessione a partire da cose in apparenza insignificanti.
Sarà per una strana e grave deformazione ideologica, ma il concetto che con più forza ha popolato i miei pensieri è un’idea per me nuova di Resistenza.

Come tanti altri coetanei italiani, sono abituato a sentire parlare di Resistenza in circostanze diverse. Nelle nostre scuole a questa parola associamo discorsi dall’alta sacralità civile, che fanno riferimento a uomini e donne che in passato lottarono per la nostra libertà dalla dittatura e dall’occupazione nazifascista. I nostri partigiani, i cui cippi commemorativi popolano le nostre campagne ignorati dai più, nel racconto sfocato dei libri di storia, nei discorsi istituzionali e sulle nostre reti televisive diventano personaggi slegati da un presente che troppo spesso non abbiamo la forza o la volontà di comprendere e, ancora meno, di migliorare.

Sono rimasto colpito da come, al contrario, in Palestina, fare Resistenza indichi qualcosa di vivo e attuale che le persone - che qui trovano la loro terra e in essa la propria identità - hanno completamente interiorizzato e che possiamo ritrovare nelle loro narrazioni e nei gesti che le accompagnano.

Lo si coglie nei discorsi delle persone che abbiamo incontrato, ognuna delle quali ha la propria storia di vita da raccontare e per ognuna delle quali ogni metro quadrato rievoca un episodio del passato. In effetti, quello terminato due settimane fa è stato molto più di un viaggio: si è trattato di un’immersione nella memoria di uomini e donne in carrne e ossa, che, fra una tazza di tè e una di caffè, ci hanno narrato di come la loro vita o quella dei loro genitori e nonni sia condizionata da una serie di rapporti di forza che la condotta dei governi che hanno voce in capitolo si ostina a volere normalizzare.

Di queste giornate trascorse a cercare di conoscere questa realtà complessa e talvolta impossibile da comprendere mi sono rimaste impresse due cose in apparenza banali, ma a cui vorrei restituire tutto il loro valore.

La prima riguarda i silenzi, che spesso intervallavano narrazioni spesso segnate da momenti in cui non si trovava nulla da dire, perché ogni commento sarebbe stato superfluo per definire le aberrazioni con cui un popolo deve fare i conti quando si confronta con una storia di occupazioni: quella ottomana dal 1517 al 1918, quella britannica dal 1918 al 1948 e infine quella israeliana. Nei momenti meno difficili questo stato di ingiustizia si esprime con una costante trasformazione del paesaggio determinata dalla continua costruzione degli insediamenti colonici israeliani. Ed è in questo contesto che i lunghi silenzi accompagnano l’osservazione dell’entità del disasto che si compie all’orizzonte, violati dal rumore dei mezzi di costruzione che continuano il loro progressivo soffocamento del villaggio.

La seconda cosa che non posso dimenticare è l’ironia di molti Palestinesi. Una caratteristica che accomuna tanti Palestinesi è quella di riuscire in certi momenti a prendere le distanze dalla loro stessa situazione e di alleggerire in questo modo l’indigeribilità di ciò che stavano raccontando. È il caso di I., che dopo averci fatti entrare nel centro storico di Nablus ci ha dato il benvenuto in quella che ha definito ironicamente la “roccaforte dei terroristi palestinesi”, mettendoci in guardia per la pericolosità dei bambini che vedevamo giocare per strada. Del resto, si è trattato di una spettacolare inversione del senso logico troppo spesso realizzata in modo ben più subdolo da parecchie agenzie stampa. La reazione di I. alla situazione in cui si trova è sintetizzabile con una sua frase: “Uccidono la mia città, ma sono ancora vivo. Non piango, ma sorrido. Sorrido per confondere il mondo”. E ancora, nei racconti di Wadi Fukin, capitava spesso di sentire le risate di persone che ti stavano raccontando le loro storie di vita, segnate dalla violenza psicologica e fisica e da mesi di detenzione amministrativa, pratica di cui le autorità israeliane abusano a tal punto da renderla un’esperienza condivisa da un numero elevatissimo di Palestinesi.

Il fatto che una persona riesca a mostrare la propria serenità nel raccontare i soprusi cui è stata sottoposta denota la grandissima dignità e il rifiuto dell’umiliazione. Allo stesso tempo, questo limita le cadute in sterili dichiarazioni di odio. Ho pensato che questa sia una fantastica forma di Resistenza, di quelle che non ti insegnano a scuola, ma che rende bene l’idea del desiderio di riscatto e di attaccamento alla propria integrità psicologica messa alla prova dall’esperienza della disumanità.

A chi mi chiede le mie impressioni sulla Palestina voglio riferire il senso di Resistenza espresso da questi silenzi e dall’ironia che accompagnano una quotidianità che riesce ancora ad essere l’impronta di una comunità che si prende cura del proprio habitat, come la chiocciola si prende cura del proprio guscio.
Mi piace immaginare che il segreto dei danzatori di Dabka, che col loro movimento ritmico e armonioso realizzano un fantastico cerchio umano, sia proprio questa consapevolezza di essere, malgrado tutto, una Comunità Resistente che conosce la terra su cui poggia i propri piedi.

 

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