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Set 21, 2016

 

A Betlemme, il Vangelo di pietra

di Alessandra Pellegrini De Luca

 

Seconda parte del reportage di un viaggio tra Palestina e Israele al seguito di una piccola Ong di Spilamberto. Si entra nel cuore della terra santa, nella città vecchia di Betlemme, dove la Basilica della Natività e la Moschea di Omar si guardano, una di fronte all’altra.

 

Betlemme è un cumulo aggraziato di pietra chiara: la città vecchia, dall’alto, è una sculturina di case, campanili e minareti. È la città santa, in Palestina tutte le città sono sante, senza più grotta né viandanti. È grande, Betlemme. Appena fuori dal centro storico è un’esplosione di strade, macchine e cartelli stradali. Ci vuole un po’ d’immaginazione per pensarla in silenzio in una notte di duemilasedici anni fa. A Betlemme, come gruppo in visita nella West Bank, siamo rimasti due giorni: tappe, la città vecchia e il Campo profughi di Aida. Quello del muro, dei disegni di Banksy. Quello visitato un paio d’anni fa da papa Francesco, e nel 2006 da papa Ratzinger: la popolarità del primo rispetto al secondo, forse, sta facendo breccia nella percezione che il mondo ha di questo conflitto e delle sue parti in causa.

Ad accompagnarci, il primo giorno, a spasso per la città vecchia di Betlemme, c’era Hazem. È un cristiano palestinese, fa la guida turistica e considera il suo lavoro come un atto politico. “È molto difficile riuscire a diventare una guida turistica, se sei palestinese: – ci spiega – di fatto, è un’arma potentissima – e non violenta, rivolta a chi viaggia per conoscere – per diffondere il nostro punto di vista e la storia di questo luogo”. Hazem è cristiano, e dice che i Vangeli del Cristianesimo sono sei. “Ci sono i quattro Vangeli che tutti conosciamo – dice – e poi c’è questa città: questa città è un Vangelo di pietra”. E poi, dice, c’è la cultura palestinese: “i nostri luoghi e la nostra cultura sono un altro Vangelo: Gesù Cristo era palestinese, e così i suoi dodici apostoli, e tutti i luoghi della nostra terra che ne raccontano la storia, ne recano il segno”. “Siamo noi – mi dice rispondendo a una domanda dentro la Basilica della Natività – che abbiamo scritto la Bibbia”. Ed è strano, pensandoci, capire che è vero, che Gesù era palestinese. Che la Palestina, oltre che la terra santa per gli ebrei e per i musulmani, la terra promessa degli ebrei e la casa degli arabi, è terra santa, e casa, anche e soprattutto per i cristiani. E non è strano perché è cosa nuova: lo sappiamo tutti. È strano perché uno dei minimi termini cui questo conflitto ha ridotto questa terra, in parte dell’immaginario collettivo, è l’equivalenza palestinese-arabo musulmano.

 

E aldilà del fatto che a Betlemme, come a Gerusalemme, le campane e i richiami dell’imam in un tramonto rosso e silenzioso fanno considerare anche al più strenuo razionalista la possibilità che davvero in quel luogo sia accaduto, sia successo qualcosa, aldilà di questo, Hazem, cristiano palestinese con un master in archeologia negli Stati Uniti e una passione per il trekking sulle colline di Battir, parla di Hamas. Gli chiedo cosa ne pensi, mentre indicandoci da un tetto di Betlemme gli insediamenti israeliani sulle colline all’orizzonte vede solo un problema politico, più che religioso. “E’ chiaro – dice – che la violenza cozza con tutti i miei valori, e non c’è bisogno di essere cristiani, ma qui la situazione è disperata”. “Come palestinesi – continua – siamo assolutamente isolati dal punto di vista politico: non riceviamo alcun tipo di ascolto o collaborazione esterna effettiva, e nel frattempo la situazione non cambia, anzi peggiora”. “Tendo la mano a chiunque, e con qualsiasi mezzo, mi permetta di tenermi la mia terra e di essere libero”. È lapidario. Quando gli chiedo se riconosca lo stato d’Israele, come palestinese cristiano, risponde che ormai Israele esiste, nessuno si sognerebbe di cancellarlo, ma “non può essere considerato uno stato vero e proprio un luogo in cui i suoi abitanti sono tutti diversi come provenienza e cultura”. E allora? “Parlare di una soluzione è quasi impossibile, se le cose continuano così: – risponde – la mia opinione è che debbano crollare tutte queste frontiere che ci impediscono di avere una vita normale e svolgere tranquillamente le nostre attività quotidiane. Ci vorrebbe uno stato unico, senza frontiere, permessi, check-point e conseguenti prevaricazioni, in cui palestinesi e israeliani abbiano pari diritti, dovremmo entrambi cambiare completamente le nostre classi dirigenti per arrivare a questo, gli insediamenti illegali dovrebbero sparire e bisognerebbe ridare una casa ai palestinesi che vivono nei campi profughi dal ‘48”. Secondo Hazem, è una soluzione che potrà vedere la luce solo fra tre o quattro generazioni.

 

Il giorno prima di visitarlo, uno di quei campi profughi, Hazem ci ha portato nella città vecchia di Betlemme. Nella piazza centrale, la Basilica della Natività e la Moschea di Omar si guardano, una di fronte all’altra. Nella stessa piazza, musulmane velate e cristiane coi capelli al vento passeggiano senza neanche guardarsi. C’è confusione, in centro a Betlemme, e una marea di negozi che vendono di tutto: tè, spezie, stoffe, sandali, palle di vetro, portachiavi di cuoio, banane, pennuti e calzini. Negli angoli, baracchini friggono falafel e vendono kefieh fatte a mano. Quel giorno c’era il sole, e a Betlemme si stava come in vacanza. Betlemme è bella, è piena di vita. È varia e piena di coesistenze. Guardandoci intorno, pensiamo a come gli stessi civili israeliani abbiano un’idea distorta della Palestina, a come quanto è accaduto in passato abbia trasformato questa terra, nell’immaginario di chi ha attaccato, e si è anche difeso, in una terra di terroristi. Qualche giorno prima passeggiavamo per Gerusalemme. Abbiamo chiesto a una signora israeliana di indicarci la strada per Damascus Gate, il luogo da cui partono gli sherut – taxi condivisi – per Betlemme. Quando le abbiamo detto dove eravamo diretti, nei suoi occhi è apparso lo sgomento. “Ma perché? Ma cosa fate? Siete così giovani, è pericoloso! Come vi viene in mente!”, gesticolava. Le abbiamo detto che eravamo pellegrini cristiani, che non potevamo non vedere Betlemme. “Ma è pericolosa! Non dovete correre questi rischi, restate in Israele!”, era seriamente preoccupata per noi, a modo suo. Ma a lei, come in aeroporto, non è il caso di dire che vuoi andare a visitare la West Bank. Il viaggio di conoscenza non esiste: si tratta di qualcosa che solleva subito sospetto. Se vai in West Bank, è molto probabile che tu vada a sostenere qualche manifestazione armata, qualche pericolosissimo arabo. A volte basta il nome, arabo. Una nostra compagna di viaggio è di famiglia tunisina. Nata e cresciuta a Modena, più modenese di me. All’arrivo, è stata interrogata per due ore, solo per il nome. E c’è chi dice che sono pazzi, gli israeliani. Io credo semplicemente che siano in guerra, e che una guerra come questa, così come il modo in cui loro stessi sono finiti qui, non può partorire altro che paura, su cui si può far leva senza troppa difficoltà. Non è in alcun modo possibile, per come stanno le cose adesso, che un israeliano sappia davvero cosa sia un palestinese, e viceversa.

La Basilica della Natività, nel cuore della Città Vecchia, è un gioiello di lampadari d’argento e pizzi d’oro. Questo, come tutti gli altri luoghi palestinesi in cui Sant’Elena ha scritto la storia di Cristo, è stato identificato come il luogo della sua nascita. Nella cripta, dove non si può sostare più di una decina di minuti per il grande afflusso di persone, c’è un piccolo altare addobbato e affrescato. Sotto il drappo, un buco cerchiato con una stella d’argento, su cui tutti si chinano pregando velocemente ma con grande fervore, strofinandovi i palmi delle mani. È il punto in cui sarebbe nato Gesù, a qualche centimetro da un angolo di legno scuro che odora di miliardi di sguardi, passaggi e devozioni: la famosa capanna col bue e l’asinello, l’archetipo di tutti i presepi. La Palestina è anche una terra di collettiva, massiva e fervente devozione di ogni monoteismo: il sacro come il feticcio, in città come Betlemme o Gerusalemme, sembrano concentrare lì tutta la portata che, in modo molto più blando, si sparge per il mondo. È un cuore pulsante di spiritualità, dalle sue forme più ardenti a quelle più commerciali, in giro per i suq.

 

Il giorno dopo, era il turno dell’altro volto di Betlemme, quello del muro di divisione e del campo profughi. Rispetto al Vangelo di pietra e a un cristianesimo che, in Palestina, è una religione d’amore tra due fuochi in guerra, il campo profughi di Aida è tutt’altro. Il cancello è alla fine di una lunga strada che comincia con una torre di controllo israeliana e matasse di filo spinato: è una porta alta e scura che sembra di cartone, con un’enorme chiave in cima. È una chiave di ferro, con disegni e graffiti sopra: sembra un enorme giocattolo di cartongesso, una decorazione pacchiana di un qualche parco divertimenti dimenticato. Appena prima della porta e subito dopo, su ogni muro, parete, cancello, bidone e rifiuto, il campo profughi di Aida è un concentrato di nomi di vittime e graffiti. Simboli di chiavi e scritte che recitano “return” sono una nota costante e incessante, in ogni forma, colore, carattere. Pensiamo, mentre guardiamo, al fatto che una delle assurdità di questo conflitto sia proprio questa del ritorno: non c’è mai stata, dopo un’invasione e una guerra persa, questa martellante idea del ritorno. Ma d’altronde una tendopoli in piedi dal 1948 e ancora lì settant’anni dopo, in pietra ammassata e sporca, non può essere considerata una terra, una casa, foss’anche per chi ha perso la guerra. Oltre al fatto che l’arrivo massivo degli ebrei in Palestina è stata un’invasione vera e propria dal punto di vista degli arabi, ma anche una fuga dalle persecuzioni dal punto di vista degli ebrei. Quello del ritorno alla terra promessa, in fondo, è stato solo l’appiglio per trovare la terra che gli ebrei, già molto prima, cominciarono attivamente a tentare di formare. E si potrebbe continuare per ore, sul fatto che la risoluzione ONU del 1947 è stato solo l’ultimo anello di una lunga catena terminata con la Shoah, e su come questa, dopo essersi abbattuta sugli ebrei, continui a distribuire conseguenze anche in Palestina. Una catena di male.

 

Al campo profughi di Aida ci accolgono Mohammed e Mustafah, volontari di Aida Youth Center, che si occupa di progetti ricreativi e didattici con i bambini cresciuti tra quelle mura. Sulla trentina, tutti e due. Due ragazzi giovani, vestiti alla moda, sorridenti. Uno di loro è stato in carcere per una manifestazione, l’altro ha terminato l’università pagandola il doppio in termini di soldi e fatica. La costruzione del muro, racconta, ha reso impossibile una vita normale. “Capitava che finissi di studiare e non riuscissi a tornare a casa perché i check point erano chiusi, che facessi tre volte il biglietto dell’autobus sulla stessa tratta: – racconta – tutto questo ha accresciuto un costante senso di rabbia e frustrazione, da parte nostra”. Anche lui, come Hazem, ritiene che i palestinesi non ricevano alcun tipo di ascolto o aiuto effettivo. Anche secondo lui, “la lotta armata delle intifada è stata sempre una risposta alle condizioni inaccettabili in cui Israele ha costretto la Palestina”. “Bisogna rivalutare cosa significa attaccare: – dice – secondo noi, l’azione di Israele nella nostra vita quotidiana è, oggi come prima delle altre intifada, un attacco da cui difendersi”. Fa paura pensare che, nell’ottica dei civili palestinesi, si stia vivendo la stessa condizione di oppressione che ha portato agli eventi dell’87 e del 2000. “La violenza dei soldati israeliani, anche dopo gli accordi del 2012, – dice – è cresciuta sempre di più: dopo una prima intifada al 90 per cento portata avanti con le pietre, i palestinesi hanno imbracciato i kalashnikov durante la seconda, ma erano nulla di fronte a tutto quello che c’era dall’altra parte”. Lo ascoltiamo parlare, contrariamente a quanto ci si possa aspettare da parte di chi parla di oppressioni e ribellioni, senza retorica. Senza neanche accenti apocalittici o volontà di trascinare l’interlocutore da una parte o dall’altra della barricata. Mustafah tiene un basso profilo. Semplicemente, mette in fila la storia recente dal punto di vista di un civile palestinese. Come la maggior parte delle persone che abbiamo incontrato, è rassegnato e chiede di essere ascoltato. Vuole che tutto questo esca dai confini palestinesi e arrivi alle orecchie di un’opinione pubblica cui il conflitto arabo-israeliano esce dalle orecchie. Ma è sempre a partire dall’isolamento politico che i palestinesi finiscono per parlare di lotta armata.

 

All’inizio del campo profughi, proprio fuori dalla sede di Aida Youth Center, c’è un trenino con disegnate mappe e nomi di luoghi all’esterno. “Fa parte dei progetti che facciamo con i bambini: – ci dicono – che ormai nascono qui nel campo profughi. Questo è un non luogo, che viviamo in una condizione di eterna provvisorietà: oggi, i bambini non sano da dove vengono, non conoscono le loro terre d’origine, quindi ogni tanto facciamo un tour del campo con il trenino, in modo che sappiano cosa c’è fuori da qui, da dove vengono le loro famiglie”. Oltre a questo, Aida Youth Centre fa corsi di musica, teatro, danza e disegno. “Cerchiamo di fare in modo che i bambini qua dentro portino avanti i loro talenti e le loro passioni, che coltivino la loro cultura, che, per quanto possibile, vivano questo luogo con gli occhi della loro età”, dicono. Per questo, un paio di strade e porte sono state colorate e decorate insieme a loro. Per il resto, il campo profughi di Aida è un dedalo di mura alte e sporche, di case asfissianti impilate una sopra l’altra. Un borgo negato, alto e sottile come le strisce di cielo che s’intravedono tra i fili elettrici. Per terra ci sono fumogeni e proiettili di gomma, bambini che scorrazzano fuori dalla scuola cui hanno tolto le finestre per evitare proiettili letali. Accade spesso, era accaduto anche due giorni prima che arrivassimo, che nei campi profughi la lite con un soldato si trasformi in una sparatoria. Camminiamo nel mezzo di quelle strade strette come dita e lentamente guardiamo i muri. Ci sono i “martiri”, così i palestinesi chiamano chiunque muoia in uno scontro con i soldati israeliani. Ci sono donne combattenti, c’è Vik che tiene per mano Handala. E poi, come al solito, ci sono gli sciacalli delle battaglie. Gli italiani che si accollano la causa palestinese per bombolettare di antifascismo o di val Susa. Quelli che ti dicono che l’antifascismo è il paradigma di ogni resistenza, e che così facendo s’intrufolano tra i muri di Aida, e non c’entrano nulla. E colorano della stessa patina opaca qualsiasi battaglia, anche giusta, costringendola a vivere nel chiacchiericcio di un centro sociale, senza mai uscirne. Ma questa è un’altra storia, e col campo profughi di Aida, appunto, non c’entra niente.

 

Nel respiro soffocato, sottile e verticale che s’incastra a metà della gola tra quei muri, Mohammed e Mustafah ricostruiscono la tendopoli che l’ONU metteva in piedi dopo la spartizione del ’47: “venne creata con l’idea di una sistemazione provvisoria, c’erano fino a dodici persone in una tenda, quelle cui di casa loro erano rimaste solo le chiavi: – quelle disegnate ovunque -ancora oggi, elettricità e acqua sono un problema”. Ci guardiamo intorno, vediamo donne passare coi sacchi della spesa, uomini camminare verso un caffè: sono la personificazione della seconda grande diaspora in quella terra.

Poco dopo, i ragazzi ci accompagnano fuori dal campo, di fronte al muro divisorio. È altissimo e grigio, pieno di murales, manifesti, pagine di giornale immaginarie in cui si annuncia il crollo delle barriere, o il rilascio consistente di visti per passare da una parte all’altra del confine per andare a lavorare. Ci sono riproduzioni dei murales di Banksy e il sole brucia tantissimo guardando in su, dove il muro finisce con un groviglio di filo spinato e una fila di telecamere. Quando usciamo, dalla cima del muretto di un caffè, sentiamo tintinnare qualcosa. È un pendaglio di fumogeni usati che luccicano al sole del tramonto, che qualcuno ha trasformato in uno strumento musicale.

 

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