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Ott 5, 2016

 

Vivere a Hebron, essere di Hebron

di Alessandra Pellegrini De Luca

 

Terza parte del reportage di un viaggio tra Palestina e Israele al seguito di una piccola Ong di Spilamberto. Hebron è una città della Cisgiordania abitata da circa 200.000 palestinesi più qualche migliaio di ebrei che, come in un ghetto, vivono nell'antico quartiere ebraico. Passare da una parte all'altra della città è un'esperienza davvero particolare, che per noi rappresenta "un impossibile esercizio di comprensione".

 

Hebron è una città palestinese. Ancora prima della sua posizione geopolitica, Hebron è una città araba. Grande e caotica. Piena d’insegne, forni, venditori di scarpe, caramelle, taxi gialli, muri scrostati, frutta che scintilla in mezzo allo smog, donne velate, velate di tutti i colori, uomini grandi e grossi, ma anche piccoli. Grate, balconi, tappeti stesi e panni al vento. Clacson, suoni in disordine. Siamo arrivati a Hebron da Betlemme, su uno sherut, così si chiamano i taxi collettivi, che correva veloce. Eravamo stanchi, alcuni di noi dormivano. Altri, come me, assorbivano nelle pupille, come spugne, il viavai di deserti, tendopoli beduine e check-point che scivolavano nell’angolo del finestrino, prima di arrivare a destinazione. Lo sherut ci ha lasciati in una rotonda in mezzo alla città, una piazza forse, ma piena di macchine che correvano, suonavano, s’incrociavano. È capitato anche che nel traffico passasse un uomo su un cammello. Sarà stata la stanchezza, lo spaesamento, l’immaginario che a colpi di articoli di giornale (anzi, di blog: purtroppo Hebron non affolla le prima pagine di nessuna delle nostre maggiori testate) ha scolpito Hebron nella nostra testa, ma non ci si sentiva, fino in fondo, al sicuro. Mi domando ancora adesso se sia una questione d’immaginario. Hebron è fantascienza. Me lo domando perché quello che abbiamo visto è contrario a ogni logica con cui abbiamo sempre ragionato. Purtroppo, però, quello che abbiamo visto è vero. In carne, calce, grate e ossa. E purtroppo, siamo partiti proprio per distruggere ogni immaginario a colpi di esperienza.

Hebron, dicevo, è una città araba. Ci ospitava un amico. Si chiama Basel, ha una ventina d’anni come noi. Vive a Modena, dove studia chimica. Quest’estate è tornato a Hebron dopo tre anni. Ha trovato sua sorella cresciuta e i suoi genitori imbiancati. Basel è arrivato in Palestina passando per la Giordania, perché per lui, palestinese, è impossibile passare i controlli dell’aeroporto di Tel Aviv. Quando lo sherut ci ha sbattuti nel bel mezzo di quella rotonda piena di traffico, mentre col naso all’aria ridevamo per non farci prendere dall’ansia, è comparso scendendo da un taxi. Ci ha caricato su altre due macchine, ha spiegato l’indirizzo ai tassisti, e dieci minuti dopo eravamo in una stradina poco lontana dal centro. Una delle sue sorelle, Reham, ci aspettava dietro il vetro del portone di quel palazzo alto cinque piani, dove abita tutta la famiglia. Sono tantissimi, tra fratelli sorelle, consorti e genitori. Sua sorella ha due occhi neri e grandissimi che sembrano due bolle d’inchiostro nero, incorniciate di tristezza, su un foglio troppo bianco, troppo lungo, troppo uniforme. Quando si siede a gambe incrociate e tutto il suo corpo scompare sotto quel velo, Reham è un fantasmino che parla tanto. Parla di tutto e non sta ferma un secondo, e nel giro di dieci minuti ci aveva già accompagnato e fatto sedere in uno stanzone al piano terra del palazzo, che Basel e la sua famiglia ci avevano messo a disposizione per la notte e la giornata successiva. Come a Wadi Fukin, a Hebron abbiamo ricevuto quell’ospitalità calorosa e immediata che, per la sua assoluta gratuità, quasi ci ha messo in imbarazzo. Ma come al solito, come a Wadi Fukin, non c’è niente di più semplice che mangiare insieme. In quel caso, riuniti attorno a una tavola imbandita di verdure ripiene, foglie di vite, riso, pane arabo e makhlouba che la madre di Basel aveva preparato per noi. Poco dopo, il tempo di complimentarsi, goffi e a bocca piena, eravamo sul tetto del palazzo. I genitori e fratelli di Basel avevano disposto le sedie, più di una ventina, in un grande cerchio. Al centro, narghilè, cesti di frutta e ciotole di semi e salatini.

Dall’alto, si vedeva tutta Hebron di notte, dalla città vecchia al Monte di Abramo, ai minareti, alle case basse e grigie illuminate dalla luna. Basel, che parla perfettamente sia l’arabo che l’italiano, traduceva quel poco che serviva per continuare a non capirsi, a cantare canzoni in arabo e poi in italiano, giusto per sentirsi un po’ sullo stesso tetto, per approfittare di uno di quei tanti incroci di percorsi assurdi e lontanissimi che hanno disegnato le linee del nostro viaggio. Un po’ come a Wadi Fukin, quella sera ogni causa di forza maggiore, ogni idea di popolo, torto, diaspora o ragione, ogni meccanismo storico, ogni geopolica, ogni Storia abbassava la guardia per un attimo. Il nostro desiderio di capire, il nostro guardare, a nostra volta, questo o quello prima di tutto come arabo o come israeliano. Più nulla. È la magia che accade ogni tanto, quando entri nella casa di qualcuno, quando la sua cucina è solo una cucina, come la tua. Quando stai seduto sotto un albero a fare due chiacchiere, come fossi al parco. O quando dopocena canti due canzoni, come quando c’è l’amico che alla fine tira sempre fuori la chitarra e non hai voglia di andare a dormire. Loro cantavano in arabo, e noi battevamo le mani. Noi cantavamo in italiano, quelle tre canzoni in croce che tutti si ricordano quando tutti vogliono cantare, e loro battevano le mani.

La mattina dopo, alle otto, noi sbadigliavamo e Basel aveva già pregato e fatto la spesa. E ci accompagnava, insieme a suo fratello e sua sorella, davanti al check-point d’entrata della colonia israeliana, che come un ghetto in piena seconda guerra mondiale si difende dalla minaccia del mondo esterno. Ci raggiunge Muhanned: è palestinese e ha una ventina d’anni. Studia giornalismo alla Hebron University e fa parte di Youth Against Settlements, un’associazione palestinese che fa attivismo politico contro l’occupazione israeliana in modo non violento. Organizzazione di eventi, visite guidate, newsletter, media e social usati per rompere la barriera dell’isolamento politico e far sapere al mondo cosa significa vivere in uno dei punti più caldi dell’occupazione israeliana illegale (Hebron non fa parte dello Stato d’Israele), tentativo di connessione tra enti locali e internazionali. Muhanned collabora con diverse testate internazionali: vivere a Hebron, essere di Hebron, guardare ogni giorno in faccia i soldati, anche quando hanno diciotto anni e non sanno perché sono lì, ascoltare ogni giorno storie attorcigliate al filo spinato di un confine assurdo, riprendere gli omicidi che quasi quotidianamente insanguinano mura israeliane da un lato e palestinesi dall’altro. Per Muhanned, vivere a Hebron è una ragione di vita. Attorno a Youth Against Settlements gravitano ragazzi di ogni provenienza. Insieme a lui, ora che la questione palestinese sta varcando le soglie della Palestina e per arrivare agli occhi del mondo, c’era una ragazza svedese, bionda e sottilissima, che ha accompagnato alcuni di noi in una visita nel cuore assurdo di quella sovrapposizione. Hebron, prima di tutto, è sovrapposizione.

 

Tra la città araba, immensa e caotica, e la colonia israeliana nel mezzo, si estende un grande suq, un mercato. L’inizio del mercato coincide con un’asfissiante subordinazione di piani che finisce sbattendo la faccia contro il check-point d’entrata della colonia. Nel suq, israeliani e palestinesi vivono letteralmente gli uni sopra gli altri. Tutto il mercato è una serpentina di strane piene di mercanzia e ricoperte da una rete fitta e continua. Oltre la rete, basta alzare poco gli occhi, perchè la rete è tanto bassa che i venditori ci appendono i vestiti in vendita, si intravedono finestre di palazzi costruiti su quelle stesse fondamenta. Sui balconi, bandiere israeliane e finestre chiusissime. Sulla rete, oggetti di tutti i tipi. Gli israeliani, abitualmente, buttano oggetti e spazzatura sui palestinesi di sotto, che per proteggersi hanno ricoperto il mercato di quella fitta rete di ferro. Camminando, alziamo gli occhi: sopra a un venditore di olive, oltre la rete, vediamo una vecchia bicicletta arrugginita buttata da una finestra. Poco più in là, una sedia. Poco più in là ancora, qualcuno ha svuotato un grosso bidone della spazzatura, buttando di sotto anche quello. Ci sono un paio di punti in cui la serpentina di strade del mercato va a sbattere contro reti altissime e fitte, coperte da giri e giri di un filo spinato grosso e spesso, zeppo di stelle di ferro con punte aguzze dove qualcuno ha attaccato brandelli di bandiere palestinesi, sacchetti, oggetti. Oltre, intere strade vuote e case disabitate, dove un tempo vivevano palestinesi. Sono state sgomberate, ma non ci vive nessuno. Il sole, quando filtra in quelle strade vuote, è un colpo di tosse pieno di polvere. In altri punti, la serpentina di strade del mercato si apre come il respiro al limite di un’apnea. Sono piccole piazze in cui rovine di città vecchia portano lo sguardo verso il cielo, per poi andare a sbattere contro torrette di controllo israeliane, dove qualche soldato è armato fino ai denti e guarda in basso, in un dedalo che, ti chiedi, chissà che forma prenda nei suoi occhi. In uno di questi spiazzi, c’è anche un cartello turistico, a mo’ di legenda, sulla città vecchia di Hebron, e sembra uno scherzo.

Continua così, la zona d’intersezione tra la città araba e la colonia israeliana che, chissà perché, si ostina a vivere in quel modo, lì in mezzo. “Vivere qui è come vivere all’inferno”, senti dire da Muhanned mentre cerchi di contenere quello che vedi in uno scheletro di logica che trabocca di vuoto. Racconta delle tante liti che finiscono con spari a sangue freddo, da parte dei soldati israeliani, senza che dall’altra parte ci sia, la maggior parte delle volte, altra offesa che quella verbale. Muhanned si fa largo tra le stoffe, i pennuti e l’odore fortissimo di olive vendute a cesti per le strade, fino al check-point che arriva come un ceffone alla fine di quell’intestino assurdo, in cui guardarsi intorno è un continuo esercizio per accorgersi che quell’accozzaglia di sbarre, ferro e pezzi di case non è una partita di lavori in corso, ma una sovrapposizione di due diaspore.

Al check-point, bisogna passare attraverso una porta girevole di pali di ferro e un metal detector. Subito dopo, un soldato armato di giubbotto antiproiettile, elmetto e fucile chiede i documenti da dentro un gabbiotto, mentre un altro decide chi entra e chi no.

Nel cuore di Hebron, dopo il primo check-point e prima della colonia israeliana, c’è la moschea di Abramo. O la Tomba dei Patriarchi. Dipende dalla porta d’entrata che scegli, se come noi, occidentali né musulmani né ebrei, puoi fare quello che vuoi. Entriamo con Basel, che ci accompagna, musulmano, dentro la Moschea. Al centro, c’è la Tomba di Abramo, che è riconosciuto dall’Islam come profeta, dall’ebraismo come patriarca. La tomba divide in due il luogo di culto. All’altezza dell’ombelico di Abramo, la moschea diventa sinagoga. Sono divise da una parete interna di ferro dipinto. Mentre ci guardiamo intorno, sentiamo sbattere dei pugni contro il muro: un turista all’interno della Moschea ha appena infilato lo smartphone in un’intercapedine del muro per scattare una foto alla parte della sinagoga. Chi se ne è accorto, dall’altra parte, ha subito reagito. E per quanto la Tomba di Abramo sia uno di quei denominatori comuni di spiritualità diverse, come i muezzin di Gerusalemme che tacciono dopo il richiamo per far spazio alle campane, Hebron continua a sembrarci un impossibile esercizio di comprensione.

Passato il check-point, Hebron smette di essere sovrapposizione e diventa fantascienza. Dopo il secondo controllo, la vista si apre in una gradinata alta, chiara e spaziosa che scende dal Complesso della Grotta dei Patriarchi. Niente più reti né filo spinato. Niente più brandelli di bandiere o biciclette arrugginite. Niente più respiro che inciampa a metà della gola. Oltre il check-point, Hebron è uno spazio assolato e silenzioso. Civilissimo e di pietra chiara. All’interno, passeggiano uomini avvolti in lunghi cappotti neri, con grandi cappelli in testa e coppie di riccioli che scendono dalle tempie, come se niente fosse. Come se fuori non ci fosse nessun dedalo di odio, filo spinato e biciclette arrugginite buttate dalla finestra. Né torrette di controllo, soldati armati, diverbi che finiscono nel sangue, odio esponenzialmente accresciuto dalla miopia di chi crede che tutto questo possa continuare, che prima o poi qualcuno possa vincere. Vivono lì, in un ghetto come quelli dell’Europa nazista, come a Cracovia o a Varsavia, prima della terra promessa. Stavolta, però, il ghetto è in casa d’altri. E quindi, mentre uomini e donne ebraiche si muovono come fantasmi in quello spazio che non è una città, non è un borgo, non è un villaggio, non è neanche un quartiere, ma sembra un’interzona di un qualche film di fantascienza, a sorvegliare è pieno di soldati. Hebron, piazzata lì come il tassello sbagliato di un puzzle, si difende con bidoni arrugginiti, fucili e pezzi di mura più alti di un uomo. Le strade, oltre lo spiazzo delle scale, sono deserti militarizzati. Ci sono soldati ovunque. Si avvicinano armati chiedendo da dove veniamo, cosa facciamo, vogliono vedere i documenti. Uno di loro, quando gli diciamo che siamo italiani, avrà vent’anni, si sgonfia e sorride. Si volta, per mostrarci che il suo zainetto ha la targhetta dei Carabinieri. Lo guardiamo inebetiti: non abbiamo saputo sembrare altro che una decina di ebeti in silenzio, quel giorno. Continuiamo a camminare, e Hebron ha sempre meno senso. La strada continua, assolata e vuota, in mezzo a sbarre posticce, grate su finestre di pietra che un tempo erano belle, muri innalzati con bidoni di benzina, pareti dipinte con disegni e didascalie sulla storia ebraica. Sulla parete di uno stabile si legge che Hebron è una “pia comunità, dal decimo al diciannovesimo secolo una delle quattro città sacre d’Israele. Una comunità di Torah, carità e bontà”.

L’assurdo di Hebron finisce a Shuhada Street, dove tutto quello che hai nel cervello va a sbattere in uno stupore sordo. A Shuhada street sono rimaste un paio di famiglie palestinesi, che non se ne sono volute andare. I loro balconi sono gabbie, inscatolate in grate fittissime, che spuntano dai muri come cubi grigi pieni di polvere. Non si riesce a guardare dentro, c’è troppo sole e troppo poco spazio in quei buchi. Ogni tanto, qualcuno si ribella, ma finisce nel sangue. Mentre camminiamo, vediamo stelle di David bombolettate sui loro portoni, porte di ferro di acciaio smaltato e scrostato, e da lontano una donna che tiene per mano un bambino. Poco dopo, si alza davanti a noi il check point d’uscita. Ancora ferro, ancora sbarre, e silenzio. Nell’interzona ebraica Hebron c’è silenzio. Il check-point ci vomita fuori, e torniamo nel traffico di clacson, folla, smog, verdure scintillanti e tendoni per proteggere la merce dal sole.

Ci perdiamo ancora un po’ in quel delirio di suoni, cambiamo strada mille volte cercando quella giusta per raggiungere questo o quel fratello di Basel. Seguiamo, come in un gregge, lasciando che ci entri nelle narici l’odore di olive e quello di narghilè, quello di frutta matura misto allo smog. Mi chiedo, mentre torniamo, da dove partire per cercare di capire. Un altro libro di storia, forse. Magari un libro di storia ebraica. Poi torno sui miei passi e penso che non c’è ragione che contenga quel modulo costante di assurdo, perché è sbagliato e basta.

Qualche ora dopo, a casa di Basel, sua sorella Reham mi chiede dove siamo stati nei giorni precedenti. Le racconto del campo profughi di Betlemme. Ha diciotto anni e studia all’università, è palestinese di Hebron. Eppure, Reham spalanca i suoi occhi d’inchiostro incorniciati di tristezza e mi chiede cosa sia il campo profughi di Betlemme. Glielo spiego, e mentre glielo spiego mi chiedo se davvero sia possibile che una studentessa universitaria palestinese non conosca il campo profughi di Betlemme. Forse Reham, coi suoi occhi d’inchiostro incorniciati di tristezza, ha mille sogni più grandi di questo racconto soffocato. Studia lingue, vuole viaggiare e vuole tingersi i capelli di rosa “perché così li vedono tutti”. Ma comunque sia, normalizzazione significa anche questo.

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