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ottobre 13, 2016

 

Da un mondo all’altro

 

-Conosci qualche canzone araba?- mi chiede un giorno la giovane S. mentre leviamo le pietre dal campo per renderlo meglio coltivabile.

– Certo che ne conosco.- Le rispondo, guardandoci sorridendo e immerse nella polvere sotto un caldo sole e il cielo azzurro.

– Io conosco “Bella, ciao”! La conosci? –

– Certo che la conosco.-

-Cantala!-

“Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor” dice la prima frase.

 

E qui, in Palestina come altrove e come sempre da quando l’uomo ha memoria, arrivò l’invasore, e qui si portò le sue colonie, colonie che crescono, si espandono. E ci diranno infatti che “quella parte lì è recente” nella colonia di Ma’on, a pochi metri dal campo, vicino ad at-Twani. Colonia e avamposto di fronte, Avat Ma’on immerso nel verde. Una collina verde che quando la osservi da lontano, fra le altre color ocra, capisci che è un qualcosa di artificiale, che a questa terra non appartiene.

Colonia e avamposto, e in mezzo una stradina che tutti i giorni viene percorsa dai bambini del villaggio di Tuba per raggiungere la scuola di at-Twani. Ma con la scorta militare. Bambini scortati dai militari dell’occupazione affinché non vengano attaccati dai coloni.

Non sempre si riesce a descrivere sensazioni e momenti. Questo è uno di quei casi; si può usare la parola “assurdo”, dire che si prova amarezza, rabbia, o non sapere neanche dire che cosa si provi.

Ad at-Twani, dove riecheggiano le voci dei bambini e i versi dei vari animali, trascorriamo una settimana, fra terra che viene difesa e coltivata, piccoli ulivi e altri alberelli da annaffiare. E poi di nuovo a Ramallah, da un mondo all’altro. Ramallah, dove sediamo a un tavolo di un bar a bere birra Taybeh, fumando narghilè e ascoltando musica contemporanea, francese o di altri paesi. E tutto sembra così lontano…

Dalla tranquillità del villaggio, anche se costantemente sotto minaccia, alla caotica città.

Ed eccole le molte facce della Palestina, fatta di tradizioni e assurdità imposte – quelle dell’occupazione israeliana. Come quella del muro, che viene costruito per difendersi dalla minaccia terroristica, una minaccia che deve stare di là, dall’altra parte; ma in quella parte, poi, ci vanno ad abitare (a insediarsi) quelle stesse persone che vorresti difendere… E poi i coloni: mi fermo un attimo a pensare a questo termine, non tanto a quel che questa parola trasmette con tutto ciò che vi gira intorno, bensì a un’altra forma di de-umanizzazione; non una persona, non un uomo o una donna quella che può capitare di vedere, bensì è solo “il colono”, l’occupante, il problema, il nemico. Così come il ragazzo palestinese è “il terrorista”, e quindi lo si de-umanizza, così dall’altra parte.

Mosaico e dedalo di situazioni. Occupazione e resistenza .

Siedo a un tavolino di un bar e penso a tutto questo e alle parole di chi ci ha offerto ospitalità nella sua casa: “At-Twani vi mancherà”. E penso a tutti i bambini e a quell’ultimo momento che ho avuto per stare seduta con loro sotto un albero, giocando con Jabr fino all’arrivo della camionetta e poi vederli andar via. Per l’ultima volta.

Sì, ci mancherai, cara at-Twani.

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