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Nov 29, 2016

 

I Karen tra identità ed estinzione

 

Sul confine birmano, nella sconfinata foresta tra la Thailandia e il Myanmar, c’è un popolo in armi che combatte la guerra più lunga del mondo. Sono i Karen della resistenza patriottica, i guerriglieri della Kndo la forza di difesa agli ordini del generale Nerdah Mya. Difendono, dalla fine della seconda guerra mondiale, le loro colline e i loro villaggi dall’avanzata dei plotoni di Rangoon dove la giunta militare salita al potere con un colpo di Stato gestisce da sempre una spietata, efficiente e inarrestabile pulizia etnica.

 

I Karen sono un popolo antico, disceso dalle gelide sedi ancestrali del Tibet migliaia di anni fa e stanziatosi nell’attuale Birmania dove si dedica all’agricoltura, sono cristiani, buddisti e animisti, rispettano ogni vita dal pregiato albero di Tek al possente elefante che guidano sapientemente nella giungla o nei lavori pesanti.

 

Sono un popolo semplice, un popolo di contadini che il destino ha voluto soldati, un popolo che ha giurato al mondo che non si arrenderà all’estinzione. Perché è di questo che stiamo parlando, di uno dei più tragici casi di estinzione etnica programmata, una sorta di corsa all’ovest inversa dove a fare la parte di Custer ci sono i militari capital-marxisti di Rangoon e nelle riserve finiscono i gruppi etnici invisi al regime.

 

Oggi nella terra dei Karen che loro chiamano Kawtoolei, cioè la terra senza male, la buona terra o terra dei giusti, è arrivato un nuovo nemico: il progresso. Non veste le ruvide uniformi gravide di medaglie dei colonnelli ma comodi abiti firmati, al Kalashnikov preferisce la 24 ore ma mira comunque alle sconfinate risorse del popolo Karen. Terra fertile, giacimenti aurei incontaminati, foreste vergini di legno pregiato sono solo alcuni dei business che fanno gola alle multinazionali asiatiche e non che vorrebbero installarsi nello stato Karen per dare il via allo sfruttamento. Ci sono poi le dighe, immense barriere di cemento da costruire sui possenti fiumi che attraversano il territorio e che garantirebbero energia a buon mercato a molte imprese ma, allo stesso tempo causerebbero l’allagamento di intere vallate dove ad oggi sorgono una dozzina di villaggi e centinaia di famiglie Karen.

 

Da qualche mese il regime nella capitale si è dato un nuovo volto, ben consigliato dalle numerose visite della signora Clinton, che da segretario di stato Usa ha diretto il restyling democratico del Paese commissionando la liberazione della Lady Aung San Suu Kyi, eroina democratica (pro Usa), e patrocinando nuove elezioni dove però, una larga fetta di seggi è stata cooptata per legge dai militari.

In Occidente si era parlato di “svolta democratica” e di “vento di cambiamento” a Rangoon ma intanto alla periferia del paese, nei territori delle etnie, quel vento si era tramutato in tempesta e le zone abitate dalle minoranze erano state classificate come “Black areas”, zone nere in cui cioè i diritti umani non sono garantiti e vige la legge marziale permanetene. Caso eclatante appunto i Karen, che si erano visti recapitare un blando accordo di cessate il fuoco da firmare in calce senza poter avanzare pretese di sorta mentre affluivano intere brigate birmane negli avamposti d’occupazione pronte a sbranare qualsiasi oppositore.

 

Però oggi come ieri la battaglia per l’identità del popolo Karen non si arresta, con l’aiuto di tenaci onlus europee, tra cui le italiane “Popoli” e “Sol.Id.” si animano cliniche, scuole e villaggi nuovi dove i profughi Karen possono stabilirsi e provare a sperare in un futuro migliore, riuscendo finalmente a costruirsi una alternativa di dignità rispetto alla vita da rifugiati che un certo destino, e il mondialismo, sembrava avessero disegnato per loro.

 

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