Fonte: la Jornada

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8 gennaio 2016

 

I movimenti e la fine delle democrazie

di Raúl Zibechi

 

Il sistema politico in cui viviamo esprime ormai una sola e trita liturgia, quella elettorale. La campagna presidenziale Usa è un buon esempio di come il simulacro della democrazia finisca nelle mani di un'oligarchia miliardaria

 

Lassù in alto è tutto marcio. La politica è ridotta a una competizione elettorale che simula valori democratici e copre un potere malato e asservito ai privilegi e al denaro. Lo dicono autorevoli esponenti di un mondo dominato da un sistema che non sembra più in grado di correggersi. La metà dei finanziamenti alla campagna presidenziale degli Stati Uniti arriva per ora da meno di 200 famiglie molto ricche. Come straricco è Donald Trump, ad oggi massimo e discusso pretendente alla candidatura per i Repubblicani. Negli Stati Uniti il potere politico sembra finito nelle mani di un’oligarchia miliardaria. Tra le conseguenze di scelte patologiche (la definizione è del Nobel per l’economia, Paul Krugman), che privilegiano l’accumulazione di denaro alla tutela della vita, ci sono una politica interna dominata dalla deregulation e il ritorno di prospettive belliche nucleari. Per chi sta in basso, per i movimenti popolari, uno dei problemi è cosa fare di un sistema elettorale che è da tempo la sola liturgia del sistema politico. Ci sono possibilità diverse? L’ormai ventennale esperienza zapatista fornisce forse non un modello ma una possibile linea di ricerca per uscire dalla trappola in cui ci conduce la cultura egemonica e cercare la convinzione per potersi autogovernare

 

Nel primo articolo scritto nel 2016, il Premio Nobel dell’Economia Paul Krugman analizza le conseguenze del dominio dell’oligarchia del denaro nel sistema politico del suo paese (gli Stati Uniti, ndt). Dopo aver titolato “Privilegi, patologia e potere” (The New York Times, 1 gennaio 2015), sostiene che “i ricchi sono, in media, meno propensi a mostrare empatia e a rispettare le norme e le leggi, ma più propensi all’infedeltà, di coloro che occupano i gradini più bassi della scala economica”. Non si tratta solo di una condizione sociale e culturale, e meno ancora di una tendenza spirituale, visto che Krugman centra la sua analisi nella risposta a una domanda chiave: “Che accade a una nazione che assegna sempre più potere politico ai super ricchi?”.

 

La risposta viene impreziosita dagli esempi. Nella prima parte della campagna elettorale per il voto del 2016, la metà delle contribuzioni a tutti i candidati vengono da meno di 200 famiglie facoltose. Quel tipo di famiglie ha figli il cui comportamento Krugman definisce “egocentrico e maleducato”. L’esempio migliore è il candidato che è in testa per il partito repubblicano, Donald Trump. Secondo la sua opinione, Trump sarebbe stato “un fanfarone e un prepotente” in qualsiasi posto avesse occupato, perché “i suoi miliardi gli permettono di eludere i controlli che impediscono alla maggior parte delle persone di liberare le proprie tendenze narcisistiche”.

 

Un altro esempio: Sheldon Adelson, un magnate del gioco d’azzardo di Las Vegas, è accusato di legami con il crimine organizzato e il business della prostituzione. Per fermare il processo che lo vedeva come imputato, ha comprato il maggior giornale del Nevada, ha rimosso la tendenza seguita e messo i giornalisti a monitorare tutta l’attività dei tre giudici della corte incaricati del suo processo. Poi ha cominciato a diffondere rapporti negativi su quei giudici. Dal suo bastione di Las Vegas, che utilizza come trampolino elettorale, il multimilionario Adelson ha cominciato a giocare un ruolo importante nella competizione interna dei repubblicani.

Krugman dice che un’oligarchia si è impadronita della politica. Si può tranquillamente sostenere che questa constatazione non sia affatto nuova e che siano parecchi gli analisti concordi in questa valutazione. Paul Craig Roberts, ex segretario aggiunto del Tesoro durante il governo di Ronald Reagan, sostiene che il collasso dell’Unione Sovietica, nel 1991, ha provocato un’esplosione di arroganza nelle élites statunitensi che ha portato i neoconservatori a controllare la politica estera e quella interna del paese. La deregulation, all’interno, e la tendenza a spingere il mondo verso la guerra nucleare, sul piano internazionale, sono alcune delle conseguenze più nefaste di questa svolta sistemica.

 

Per i movimenti popolari, il problema non sta solo nel constatare che lassù in alto hanno smarrito la rotta, che non hanno più contatto con la società né il minimo interesse nel fatto che questa società sopravviva. A loro interessa solo il denaro, l’accumulazione infinita di ricchezze, anche a costo della distruzione della vita. Il nostro problema è cosa fare di un sistema elettorale che si è trasformato nell’unica liturgia realmente esistente del sistema politico. Malgrado la maggior parte delle persone sappia che le elezioni sono truccate, che la frode è sistematica (prima, durante e dopo l’espressione del voto), che se anche si riuscisse a eleggere il candidato meno peggiore (ammesso che esista) nulla di fondamentale potrebbe cambiare, sono molti quelli che stanno in basso ancora convinti che il voto sia il miglior cammino per superare la situazione attuale.

 

Il comunicato dell’EZLN del 1° gennaio fornisce alcune piste per uscire dalla trappola in cui ci conduce la cultura politica egemonica. Il testo letto dal subcomandante Moisés a Oventic precisa che il livello di vita delle comunità zapatiste è molto superiore a quello che tenevano 22 anni fa, quando è iniziata la ribellione aperta, ed è migliore di quello delle comunità affini al governo. “Il fatto di essersi vendute al malgoverno non solo non ha risolto i loro bisogni, ma ha aggiunto altri orrori. Dove prima c’erano fame e povertà, oggi ci sono ancora ma adesso c’è pure disperazione”.

Mentre i sostenitori dei partiti sono diventati “gruppi di mendicanti che non lavorano ma aspettano solo il prossimo programma governativo di aiuti”, gli zapatisti non si riconoscono più solo per l’uso del paliacate (il tipico fazzoletto rosso dell’Ezln, ndt) ma perché sanno lavorare la terra e prendersi cura della loro cultura, perché studiano e rispettano le donne, per la loro dignità. Gli zapatisti hanno “lo sguardo pulito e diretto verso l’alto”, considerano il governo autonomo come un servizio e si governano in modo collettivo. Non aspettano che le soluzioni arrivino dall’alto; per 22 anni, dice il comunicato, “abbiamo continuato a costruire un altro modo di vita” che comprende l’autogoverno. Qui c’è la chiave. Perfino i più stimati esponenti del sistema, come Krugman, riconoscono che lassù in alto è tutto marcio. Questo lo sappiamo ed è bene ricordarlo.

Ci manca ancora, però, di costruire quell’altro modo di vita; di essere capaci di governarci da soli. Ci manca ancora, soprattutto, di riuscire a credere che siamo capaci di farlo e, pertanto, di cominciare a farlo. La nuova cultura politica non uscirà dai libri né dalle dichiarazioni: viene fuori dal lavoro collettivo, con gli altri e le altre.

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