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25 Giugno 2016

 

Fenomenologia del Leave

di Andrea Muratore

 

La vittoria del Leave mette in ogni caso l’Unione Europea dinnanzi alle sue grandi responsabilità: questa struttura tecnocratica, priva di una guida morale e di alcun presupposto ideologico che non fosse la cieca adesione ai precetti del neoliberismo più estremo, miope e incapace di rappresentare la storia e la cultura del continente ha ricevuto un fortissimo segnale dal voto britannico; il responso democratico del referendum del 23 giugno colpisce un’Europa da tempo in confusione, che ora più che mai si trova dinnanzi alla scelta tra cambiamento ed estinzione, dato che l’insostenibilità di un progetto condotto in maniera contraddittoria e cinica al tempo stesso si sta progressivamente rivelando come un dato di fatto.

 

L’esito del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea ha scatenato una ridda di discussioni, polemiche, elucubrazioni circa i futuri sviluppi delle politiche interne britanniche e dei rapporti tra Londra e i paesi della comunità destinata a ridursi a 27 stati membri; l’accavallarsi di notizie parziali, palesi allarmismi e previsioni altamente aleatorie sui principali mezzi d’informazione non aiuta a fare chiarezza sulle reali dinamiche del decisivo referendum britannico del 23 giugno e sugli scenari più plausibili che potrebbero svilupparsi a seguito del risultato favorevole al Leave. Fare il punto è ora più che mai necessario per poter studiare in maniera ottimale i cambiamenti che saranno apportati dalla vittoria del Leave alla Gran Bretagna, all’Unione Europea e alla geopolitica internazionale.

Anzitutto, è importante ricordare il carattere ambivalente che la questione referendaria stessa ha assunto nei mesi precedenti il suo svolgimento: convocato a seguito dell’approvazione dell’European Union Referendum Act del 2015, esso è stato innanzitutto concepito dal premier Cameron come strumento di contrappeso alla sempre maggiore influenza assunta dallo UKIP di Nigel Farage nello scenario politico britannico, con l’obiettivo di erodere parte consenso elettorale del partito vincitore delle Europee 2014, che ha visto centinaia di migliaia dei propri voti drenati verso il Partito Conservatore vittorioso alle elezioni politiche dello scorso anno anche a causa delle posizioni maggiormente critiche assunte dai Tories nei confronti dell’Europa. Solo in seguito, col passare dei mesi, la permanenza dell’Unione Europea è divenuta oggetto di un dibattito pubblico radicale e polarizzato all’interno del panorama politico britannico, che ha visto il primo ministro assumere le difese del Remain e l’opposizione interna ai Tories guidata da Boris Johnson acquisire influenza preponderante nella guida del fronte del Leave. L’aspra contrapposizione tra i due schieramenti si è riflessa nell’ampio coinvolgimento nel procedimento referendario della popolazione britannica, che ha risposto alla chiamata alle urne con una partecipazione del 72,2%, risultato incredibile alla luce degli sconfortanti dati che fanno periodicamente registrare i processi elettorali occidentali. Cameron è finito insomma travolto dal suo stesso azzardo, ha pagato in prima persona gli errori di gestione del partito e del governo da lui compiuti nell’ultimo anno e, soprattutto, è risultato la principale e consapevole vittima di un doppio gioco da lui stesso congegnato al fine di mettere in scacco gli antieuropeisti.

La scelta di Cameron, concepita come detto per finalità contingenti di tattica politica, ha infatti causato l’accensione di un inaudito dibattito sul reale significato dell’Unione Europea e sulla reale incidenza della struttura comunitaria nelle dinamiche interne al paese, innescando inoltre all’interno del Regno Unito una serie di riflessioni riguardante l’auspicabilità degli scenari futuri a cui il paese andava incontro. Nell’economia finale del voto hanno sicuramente inciso altri fattori, che analizzando la situazione presente del Regno Unito non possono essere dimenticati: innanzitutto, è bene precisare la difficile situazione economica che si trovano ad affrontare i cittadini britannici ed una società soggetta alla progressiva e inesorabile dilatazione delle disuguaglianze e della povertà. Vittime della repentina accelerazione della globalizzazione dell’economia di cui la stessa Europa è stata sponsor preminente a partire da metà anni Novanta, una percentuale non irrilevante della popolazione britannica ha infatti assimilato entrambi i problemi come parte di una questione più grande, e punendo l’Europa ha voluto al contempo punire scelte economiche deleterie per milioni di cittadini britannici prese negli ultimi due decenni dagli esecutivi guidati da Tony Blair e da David Cameron. All’ultima fase della parentesi di governo del New Labour e all’epoca della riscossa conservatrice guidata dall’ex pupillo di John Major vanno infatti ascritte le più grandi responsabilità riguardanti l’accelerazione dei processi di smantellamento delle istituzioni di welfare state e liberalizzazione dei mercati finanziari che hanno aperto scissioni profonde nella società britannica. Anthony B. Atkinson, fellow del Nuffield College dell’Università di Oxford, nel suo libro Disuguaglianza e Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’Economia nel 2001, nel suo più recente lavoro La grande frattura hanno posto l’accento sul sempre più endemico problema delle disuguaglianze economiche vissute dalla Gran Bretagna, paragonabili oramai a quelle macroscopiche che caratterizzano lo scenario statunitense.

In un contesto che vede la città di Londra e pochi altri centri urbani costituire una realtà totalmente avulsa da quella che caratterizza il resto del paese, è dunque comprensibile la polarizzazione elettorale che ha contraddistinto il referendum del 23 giugno: la vittoria del Leave, infatti, è stata propiziata innanzitutto dal voto delle zone rurali, largamente favorevole all’uscita dall’Unione Europea, che è riuscito a prevalere sui consensi espressi a favore del Remain da parte delle grandi città, in primis Londra. Questo risultato denota la spaccatura interna a uno Stato progressivamente disunitosi e scissosi trasversalmente: alla tradizionale divisione tra le quattro Home Nations il Regno Unito aggiunge ora lo scisma verificatosi tra le zone economicamente più avvantaggiate, depositare della maggior quantità di servizi, produzione, istruzione, e le aree globalmente più depresse, popolate dagli “sconfitti della globalizzazione” che tra disoccupazione, malessere sociale e assenza di vere opportunità temono di rivivere lo scenario da incubo in cui era precipitata la società britannica ai tempi del governo Thatcher e dell’avvio della dominazione neoliberista sul piano economico, politico sociale. Analogamente, non è un caso che coloro che negli Anni Ottanta si trovarono a vivere in prima persona le tribolazioni connesse a una deflagrazione di disuguaglianza, disoccupazione e povertà ancora più consistente di quella odierna oggi si siano schierati compatti per il Leave, non vedendo nulla di positivo nella situazione attualmente in evoluzione. Con buona pace di Severgnini e degli altri commentatori nostrani, lesti a sparare a zero sulla “vecchia Britannia” che avrebbe tradito la gioventù e operato una sorta di colpo di mano reazionario, l’aver vissuto sulla propria pelle le difficoltà del passato e l’essere oggi lasciati impotente dinnanzi alla loro riproposizione rappresentano forse una giustificazione più plausibile circa lo schieramento a favore dell’uscita dall’Unione Europea e, più in generale, la critica di un sistema che ha dimostrato a più riprese la propria aridità e una sconsolante refrattarietà a qualsiasi anelito di umanità.

In questo filone si inserisce una delle principali conseguenze che la Brexit potrebbe avere nei prossimi mesi sugli sviluppi geopolitici: le dimissioni dalla carica di premier di David Cameron e il marasma suscitato nei palazzi di Bruxelles dalla vittoria degli antieuropeisti sul suolo britannico potrebbero assestare un colpo durissimo al proseguimento delle negoziazioni sul TTIP e il CETA, gli accordi di libero scambio tra l’Unione Europea e, rispettivamente, gli Stati Uniti e il Canada, già colpiti da pesantissime accuse per il loro contenuto smaccatamente favorevole allo strapotere dei grandi gruppi multinazionali e potenzialmente deleterio per la salute e la sicurezza di centinaia di milioni di persone. La defezione di Londra e la fine del governo Cameron privano infatti il fronte negoziale di due importantissimi punti di riferimento. I 17 milioni di voti a favore del Leave potrebbero in tal senso aver rappresentato l’occasione per porre indirettamente un freno allo strapotere del neoliberismo economico attraverso l’ostacolo alla conclusione di accordi iniqui come quelli attualmente in discussione. Infine, è bene sfatare gli allarmismi con cui i filo-europeisti e numerosi commentatori continentali hanno accolto l’esito del referendum britannico: a quanto risulta, la distanza tra le bianche scogliere di Dover e le falesie del passo di Calais non è destinata a dilatarsi sino a raggiungere le dimensioni dell’Oceano Atlantico e, al tempo stesso, nessuna Apocalisse finanziaria appare all’orizzonte. La verità è che la complessa fenomenologia del Leave è simmetrica all’intricata rete di motivazioni che ha portato milioni di cittadini britannici ad opporre una decisa contrapposizione all’Europa della tecnocrazia, del rigore e dell’austerità, e dunque di conseguenza è impossibile prevedere scenari lineari e conseguenze certe. A maggior ragione, l’assenza di precedenti storici di uscita di paesi dall’Unione Europea impedisce, a patto di rinnegare nella maniera più assoluta le tesi di Popper, di giungere a conclusioni categoriche circa gli sviluppi futuri del Regno Unito e dell’Europa. Il deplorevole allarmismo dei mezzi di informazione stride con la gradualità del processo di uscita dall’Unione Europea previsto dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona, destinato a essere a breve attivato dal Regno Unito, secondo il quale la procedura di sganciamento del paese non sarà repentino ma durerà almeno due anni, seguendo una road map predefinita che dunque impedisce di pensare all’uscita della Gran Bretagna come a un salto nel buio gravido di incognite.

La vittoria del Leave mette in ogni caso l’Unione Europea dinnanzi alle sue grandi responsabilità: questa struttura tecnocratica, priva di una guida morale e di alcun presupposto ideologico che non fosse la cieca adesione ai precetti del neoliberismo più estremo, miope e incapace di rappresentare la storia e la cultura del continente ha ricevuto un fortissimo segnale dal voto britannico; il responso democratico del referendum del 23 giugno colpisce un’Europa da tempo in confusione, che ora più che mai si trova dinnanzi alla scelta tra cambiamento ed estinzione, dato che l’insostenibilità di un progetto condotto in maniera contraddittoria e cinica al tempo stesso si sta progressivamente rivelando come un dato di fatto. A conclusione, è doveroso riportare il commento di Enrico Mentana, rivelatosi una volta di più uno degli osservatori maggiormente equilibrati e lucidi sul panorama nazionale, che in poche parole ha saputo dare un’analisi brillante e concreta dello scenario svelato dalla vittoria del Brexit: “Una cosa deve essere chiara: si può criticare anche aspramente Cameron che usando l’arma del referendum ha finito per esserne travolto. Ma è proprio fuori dall’idea di democrazia criticare la scelta dell’elettorato britannico: quando si dà la parola al popolo sovrano se ne accetta il responso, e si riflette. Vista dal Regno Unito evidentemente l’Unione Europea non è così seducente. A Bruxelles e nelle altre capitali bisogna per prima cosa prendere atto. E sapere che l’Europa o cambia o sarà archiviata da altri responsi popolari”.

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