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Sabato 25 Giugno 2016

 

Le soddisfazioni non vengono mai da sole: Brexit e dintorni

 

La disarticolazione, non solo embrionale a questo punto, dell’Europa così come l’abbiamo conosciuta non è più un trend ma oramai un dato di fatto che produce effetti a livello simbolico e politico. Gli scricchiolii evidenti ma finora scongiurati hanno sortito con la Brexit il primo grosso smottamento. E, ancora più significativo, non a livello di mere dinamiche economiche e geopolitiche - che pure riserveranno tra non molto altre sorpresine- ma sul piano delle reazioni e degli umori profondi a livello sociale del “common people”. E questo nonostante il terrorismo mediatico della campagna europeista, nonostante le minacce di tracolli di tutti i tipi, nonostante il paternalismo (via via divenuto sempre più sprezzante verso le “folle irrazionali”) di quel ceto “intellettuale” e accademico liberal legato a doppio filo all’èlite globali e al circo mediatico. Gli amanti degli eventi sono accontentati, solo che questa volta i consumatori hanno presentato loro il conto e… la City non brinda.

Assistiamo così, ben oltre il voto britannico, alla crisi profondissima dell’establishment europeista e globalista, della sua capacità di costruire consenso intorno alle promesse neoliberiste, sempre smentite dalla realtà ma sempre rilanciate con protervia e autoreferenzialità. È il segno del distacco abissale di chi governa dalla realtà sociale di base nel mentre tende a perdere il controllo sui processi che innesca. Ma è, in generale, anche l’inizio della nemesi storica per l’inetta e arrogante èlite europea post-Muro incapace di scuotersi dal giogo dell’impero a stelle e strisce.

Questo voto, piaccia o non piaccia, ha una chiara connotazione “di classe”. Si dirà, lo è al massimo per composizione sociologica, non per capacità di esprimere una propria prospettiva politica.

Illusoria consolazione, questa di non voler vedere il significato intrinsecamente politico di umori, istanze e reazioni proletarie e popolari in senso lato solo perché non conformi al senso comune di “sinistra”.

Reazioni che tralaltro sono l’analogo, con le debite differenze di contesto e di forme, di quanto si è visto emergere un po’ dappertutto in Europa, dalla Grecia alla Spagna, alla Francia e altrove, su su fino alle spinte che stanno dietro la vittoria elettorale dei cinque stelle qui da noi (al di là del corso di “normalizzazione” di Podemos e del M5s che il Brexit probabilmente accentuerà).

Si tratta - a sintetizzare in una battuta nodi che avrebbero bisogno di ben altra analisi - di quell’intreccio, contraddittorio e ambivalente, di sovranismo e nazionalismo, condito con le rappresentazioni le più confuse e “sporche” (come sull’immigrazione, peraltro condivise da molti immigrati), che per composizioni sociali iperproletarie sempre più ampie, trasversali a destra e sinistra tradizionali, viene a rappresentare una trincea contro l’austerity, contro gli effetti della

crisi scaricati sempre e solo in basso, contro le banche, contro le “caste” di ogni tipo, e in positivo un’istanza di tornare a contare. Ad una scala percepita come l’unica ancora in grado di tenere rispetto a problemi globali e strutturali, il che spiega lo strano ritorno del “nazionalismo” di contro a ricette “leghiste” e federaliste. Si guardi alla campagna presidenziale statunitense di Trump e Sanders, per restare in Occidente, e se ne avrà una conferma.

Non c’è qui bisogno di ribadire con quali contraddizioni tutto ciò si dà e ancor più si darà, senza processi lineari ed esiti scontati. A chi pensa sinceramente che non siamo affatto di fronte a spinte di “sinistra”, ed è vero, ma solo al rischio di reloading di vieti discorsi nazionalisti e razzisti se non fascisti – rispondiamo con un invito a considerare i fasti attuali della Grecia nell’era del “sinistro” Tsipras per capire perché date spinte di resistenza prendono certe direzioni, ma soprattutto a non “fotografare” le situazioni per quelle che sono al momento, con gli attuali protagonisti, o apparenti tali. Ma, più in generale, l’invito è a iniziare a prendere le misure di un problema con cui dovremo fare i conti di qui in avanti: come stare dentro la disarticolazione sistemica? Come affrontare passaggi “brutti e sporchi” tipici di ogni destrutturazione? Non siamo noi a essere no-euro, è la realtà delle contraddizioni europee e globali che probabilmente lo farà saltare; men che meno tifiamo per il ritorno a pseudosoluzioni come lo stato-nazione, è la crisi globale che farà saltare le costruzioni sovranazionali che non reggono e che già sta scomponendo la globalizzazione in un una serie di blocchi economici che vanno a scontrarsi. Potremmo continuare (già solo il terreno referendario è di per sé scivoloso).

Il punto politico cruciale del futuro un altro: non attardarsi su posizioni “a prescindere” (come l’europeismo in salsa socialdemocratica) aspettando di essere messi fuori corso dagli eventi, senza per questo nulla concedere a nostalgie retrò di alcun tipo. Con lucido realismo, con il realismo della trasformazione.

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