doppiozero

2 agosto 2016

 

East London Mosque

di Gianluca Didino

 

Non è semplice capire cosa rende la East London Mosque tanto affascinante agli occhi di chi, camminando su Whitechapel Road verso Aldgate East o il Tower Bridge, le passa davanti: non è la consapevolezza che si tratti della moschea più grande del Regno Unito, né il fatto, come mi ha detto un amico italiano convertitosi all'Islam, che sia dai tempi della seconda intifada uno dei siti a più alto rischio di radicalizzazione nel paese, tra le pareti del quale si gioca un gioco misterioso di spie e agenti della CIA sotto copertura. Non sapevo nulla di tutto questo la prima volta che l'ho vista durante un viaggio a Londra da ragazzino, eppure ho ancora vivida l'impressione provata in quel momento: il senso di un luogo enigmatico e capace di incutere timore, enfatizzato dal contrasto vertiginoso delle architetture della City che si stagliano sullo sfondo degli uomini in jubbahi (la versione asiatica del thawb, il lungo abito bianco) e taqiyah (lo zucchetto).

 

Negli anni 80 la East London Mosque è stata tra le prime moschee del Regno Unito ad ammettere l'adhan, la chiamata alla preghiera fatta da uno dei suoi minareti alti quasi trenta metri. Il venerdì pomeriggio la voce del muezzin celebra il giorno più importante per la religione islamica a poche centinaia di metri dai luoghi in cui il capitalismo celebra la fine della settimana lavorativa e l'arrivo del weekend: due riti che si sovrappongono, radicalmente inconciliabili eppure stranamente compresenti. Come in un'immagine di dualità non ancora scissa in coppie di opposti, alla chiamata di Jumu'ah che risuona dai minareti i broker del distretto finanziario si riversano nei pub. C'è una bellezza strana, in questo, che le parole faticano a cogliere in pieno.

 

Invece nei giorni qualunque passando davanti alla moschea non vedi nulla: tutto il mistero del luogo è custodito dietro le pareti di mattoni rossi, inaccessibile ai non credenti. Ma il senso di contaminazione profonda si trasmette all'area circostante, come nel piccolo parco su Adler Street dove all'ora di pranzo si raccoglie un'umanità eterogenea fatta di impiegati degli uffici della zona, intellettuali in visita alla vicina Whitechapel Gallery, giovani hipster arrivati da Brick Lane e famiglie di origine bangladese che formano la maggioranza della popolazione tra Aldgate East e Mile End. Il parco, che fino al 1998 si chiamava St. Mary's Park, ora si chiama Altab Ali Park in commemorazione di un ragazzo ucciso nel 1978 nel corso di un attacco razzista. In un angolo del parco c'è un monumento ai martiri del Bengali Language Movement che riproduce quello di Dhaka: i muratori che lavorano oltre Commercial Road al cantiere dei nuovi appartamenti di lusso ci si siedono sopra mangiando panini di Subway e cinese take-away, evidentemente inconsapevoli della storia che racconta.

 

Adesso però che è periodo di Ramadan tutta quest'area di Whitechapel Road brulica di una vita che a me, che ho dovuto trasferirsi a Londra per conoscere le seduzioni di un oriente che non ho mai visitato, affascina e a volte intimorisce un po'. Ad esempio non avevo apprezzato quando i ragazzi della Islamic Society, durante il periodo di esami invernali, avevano disseminato i banchi della biblioteca in cui lavoro di piccoli sacchetti contenenti confetti e una frase del Corano: noi occidentali che viviamo nello stato più laico d'Europa dobbiamo considerare accettabili queste forme distillate di propaganda religiosa? Gli attentati di Parigi erano appena capitati, ed era forte il ricordo delle pagine di Sottomissione di Houellebecq. Allora non era difficile cedere alla sindrome da accerchiamento: Je suis Charlie è uno slogan a doppio taglio, significa anche che siamo tutti paranoici e incattiviti come Charlie, pronti a reagire prima di comprendere.

 

Anche perché, proprio poco dopo la strage di Charlie Hebdo, la East London Mosque era finita sotto i riflettori dei media mondiali quando tre ragazze adolescenti di Bethanl Green erano partite da Londra per unirsi all'ISIS in Siria: i video che la BBC continuava a trasmettere mi facevano tenerezza, perché riconoscevo quegli sguardi, quell'abbigliamento, potevo quasi sentirne l'accento inglese-asiatico anche nel silenzio dei filmati scaricati dalle CCTV di Gatwick o dell'aeroporto Atatürk di Istanbul: erano le stesse ragazze che tra qualche anno si sarebbero iscritte all'università dove lavoro, sarebbero venute nella mia biblioteca. In quei giorni gli amministratori fiduciari della moschea avevano avuto il loro da fare nello smentire che le ragazze si fossero radicalizzate su Whitechapel Road, visto che frequentavano la East London Mosque come i loro padri e le loro sorelle.

 

Ma adesso da quel giorno sono passati quasi due anni, ed è Ramadan: sui negozi di articoli religiosi e di abiti tradizionali bangladesi e pakistani ci sono addobbi e grandi scritte che dicono Ramadan Kareem, felice Ramadan. La rete capillare delle associazioni caritatevoli musulmane è emersa dalle strade secondarie che non incrociano mai la mia e ha occupato la via principale: chiedono offerte, regalano penne e borracce, distribuiscono opuscoli fianco a fianco con gli attivisti di Britain Stronger in Europe che cercano di tirare dalla propria parte la popolazione musulmana della capitale, forti dell'appoggio del nuovo sindaco Sadiq Kahn. Gli uomini si radunano a gruppi come sempre, ma ora senza fumare e senza bere tè. Eppure il clima è festoso: noi che non siamo abituati a saltare nemmeno un pasto non possiamo capire cosa ci sia di tanto entusiasmante nel digiunare per un mese intero.

 

Alla sera, quando il sole tramonta e il digiuno viene interrotto, si fanno banchetti. I ragazzi della security al mio posto di lavoro sono tutti pakistani, invitano me e i miei colleghi insieme alla donna delle pulizie somala a mangiare con loro chapati e pollo biryani; io e i miei colleghi rifiutiamo, perché è tardi, a casa c'è qualcuno che ci aspetta e il nostro tempo è calcolabile, monetizzabile, non può essere sprecato. Questa mattina fuori dalla moschea c'erano donne che facevano l'elemosina ripetendo «allahu akbar, allahu akbar» senza sosta, perché la carità è uno dei pilastri dell'Islam e quello di Ramadan è un mese sacro: ora mi chiedo se sono tanto diverse dalla donna con l'accento irlandese che siede davanti alla stazione di Mile End ripetendo «spare me a change please, spare me a change please», e che ignoro sempre, anche quando le lascio cadere in mano una sterlina con un sorriso che non mi ha mai lasciato del tutto convinto. 

 

Mi viene in mente una cosa che ho visto quel febbraio del 2015 alla BBC, poco dopo che le ragazze di Bethanl Green sono partite per la Siria: durante una manifestazione di protesta davanti alla grande moschea un uomo reggeva un cartello con scritto «Io sono schiavo dell'Islam, tu sei schiavo del denaro». In questi momenti è difficile dargli torto. 

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