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Lunedì 25 gennaio 2016

 

Le mani su Schengen

di Carlo Musilli

 

Non c'è “nessuna sospensione di Schengen sul tavolo” della Commissione europea, dicono da Bruxelles, ma non sarebbe la prima volta che l’Unione finge di non vedere una catastrofe mentre si consuma sotto i suoi occhi. Germania, Austria, Croazia, Francia, Svezia e Danimarca hanno già ripristinato i controlli alle frontiere. Si tratta di operazioni che potranno durare soltanto fino a maggio - a meno di una revisione del Trattato sulla libera circolazione -, ma la dicono lunga sul clima politico che si respira in Europa nelle ultime settimane.

 

In gioco c’è l’accordo del 1993 che abolisce i controlli doganali sulle persone alle frontiere fra (quasi) tutti i Paesi dell’Unione europea. E’ una conquista culturale ancor prima che economica e probabilmente rappresenta l’esito migliore di ciò che ha fin qui partorito il progetto europeo. Privarsene vuol dire ridurre l’Europa all’Eurozona, ossia alla valuta unica e alle politiche monetarie. Vuol dire insomma rinunciare all’ultima ragione di orgoglio.

 

Eppure, le voci contro Schengen si moltiplicano nelle destre di tutta l’Unione. Lo scopo finale è chiaramente l’abolizione del Trattato, ma per il momento si punta a un obiettivo intermedio, ovvero l'attivazione di quell'articolo 26 che autorizza a reintrodurre le frontiere in tutta l'area per un periodo di due anni.

 

Gli alfieri di questa battaglia di retroguardia fanno leva come sempre sulle paure più elementari, sull’attitudine ancestrale e irrazionale al razzismo e alla xenofobia. Il flusso di migranti in arrivo dall’Africa e dal Medio Oriente (profughi siriani, ma non solo) e la paura di nuovi attentati terroristici aumentata dopo i fatti di Parigi, sono il carburante di cui si nutre questa campagna reazionaria e retrograda, che si diffonde in Europa come un tumore. Non solo: i due fenomeni vengono mescolati, confusi ad arte, infilando nello stesso pentolone populista assassini e disperati, tanto che alla fine parlare di migrazioni e di terrorismo sembra la stessa cosa.

 

Chi rimane nella sfera della razionalità si rende conto che - se escludiamo il ritorno elettorale di cui certamente beneficeranno i partiti di destra - non esiste alcun motivo sensato per chiedere la sospensione di Schengen. Partiamo dalle considerazioni materiali: innanzitutto, l’addio al Trattato comporterebbe un costo inaudito. Quando furono aboliti i controlli alle frontiere interne dei Paesi europei, il Fondo monetario internazionale calcolò che il ritorno positivo in termini di interscambio comunitario sarebbe stato dell’1-3%.

Secondo una stima per difetto, quella percentuale oggi vale almeno 28 miliardi di euro, ma la somma potrebbe anche superare quota 50. E’ in quest’ordine di numeri che si posiziona il surplus di affari permesso dalla libera circolazione. Se mettessimo Schengen nel cassetto, rinunceremmo di punto in bianco a queste risorse, affossando definitivamente ogni velleità di ripresa dopo la recessione passata e la stagnazione presente. E per cosa?

 

La sicurezza, si dice. Ma davvero? Peccato che i terroristi con cui l’Isis ha colpito fossero quasi sempre europei, in molti casi già noti alle forze di polizia e ai servizi segreti per la loro radicalizzazione. Erano noti anche i loro spostamenti in Siria e i loro successivi viaggi di ritorno in Europa. Poliziotti e 007 non hanno alcun bisogno dell’aiuto dei doganieri per trovare queste informazioni: le hanno già.

D’altra parte, qualcuno può pensare che le frontiere sarebbero utili da un punto di vista strettamente operativo, ossia nella cattura dei terroristi. Per credere questo bisogna immaginare che, dopo essersi sottoposte a un addestramento militare, queste persone attraversino le frontiere con i kalashnikov nello zaino.

 

Anche per quanto riguarda i migranti, pensare che l’addio a Schengen migliorerebbe la situazione è quanto mai illusorio. Al contrario, significherebbe dare ragioni a personaggi come il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, che per primo ha rilanciato la politica dei muri quali barriere fisiche sui confini. Iniziative del genere, oltre a evocare periodi bui che credevamo superati, sono del tutto inutili, perché non funzionano come deterrente agli occhi di chi fugge con la famiglia da bombe e pallottole. E se non funzionano i muri o i reticolati, che speranza hanno le pattuglie di doganieri?

 

Gli agenti potranno anche fermare i migranti con la forza, ma cambieranno il volto del problema invece di risolverlo. A quel punto dovremo inventare una soluzione per le migliaia di persone ammassate alle frontiere, e nel frattempo - senza dubbio - ne continueranno ad arrivare altre. Lasciarsi trascinare nella spirale degli egoismi nazionali, in cui ciascuno pensa al proprio giardinetto qui ed ora, è il modo migliore per perdere di vista il quadro generale e la visione prospettica richiesta per approcciare fenomeni così ampi complessi.

 

Parafrasando un film di qualche anno fa, chiudere le frontiere ci aiuterebbe ad affrontare i problemi del terrorismo e delle migrazioni come masticare una gomma a risolvere un’equazione di terzo grado.

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