Originale: Counterpunch

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21 giugno 2016

 

Il vicolo cieco dell’Europa

di Jean Bricmont

traduzione di Giuseppe Volpe

 

La costruzione dell’Europa è iniziata come il sogno delle èlite europee ed è divenuta l’incubo dei popoli europei. Per un certo numero di intellettuali e politici europei il sogno consisteva nel trasformare l’Europa in una specie di super-stato, in grado di rivaleggiare con gli Stati Uniti. Per altri l’idea era di liberarsi dello stato-nazione una volta per tutte, poiché era considerato prevalentemente responsabile dei mali del ventesimo secolo.

Tuttavia, a parte il fatto che questo sogno ha sempre goduto del forte sostegno degli Stati Uniti, il che getta dubbi sulla sua affermazione di costituire un’alternativa al dominio statunitense, esso soffre di un difetto fatale: l’inesistenza di un popolo europeo. Cioè una maggioranza schiacciante dei cittadini europei si sente parte dei propri rispettivi stati-nazione o addirittura di entità ancora più piccole (Scozia, Catalogna, Fiandre, ecc.) molto più di quanto si senta “europea”.

I sostenitori della costruzione europea hanno due risposte a tale obiezione: o che il senso di appartenenza è una costruzione storica (nel caso degli stati-nazione moderni) ed è in corso di trasformazione in un senso di appartenenza “europeo”, oppure che il senso di appartenenza in realtà non conta, poiché le decisioni politiche devono essere assunte sulla base della razionalità economica (l’idea liberale) o degli interessi di classe (l’idea marxista) anziché sulla base di sentimenti.

Quanto alla sensazione di essere europei è perfettamente possibile che possa svilupparsi nel corso dei prossimi secoli, proprio come hanno fatto i vari sentimenti nazionali nel passato. Ma non si dovrebbero nutrire illusioni circa la scala temporale. Tali processi impiegano secoli e l’esempio scozzese mostra che persino all’interno di uno stato democratico quale la Gran Bretagna, con uguali diritti per tutti e condividendo la stessa lingua, secoli possono non essere sufficienti per sradicare il sentimento nazionale.

E’ sufficiente seguire gli eventi sportivi, come l’attuale Coppa Europea, per vedere come i sentimenti nazionali siano lungi dallo scomparire. Non stanno scomparendo neppure tra le “élite”: a Bruxelles, con rare eccezioni, i rappresentanti dei vari stati membri difendono quelli che considerano essere i loro interessi nazionali anziché gli interessi “europei”.

Quanto all’idea che il sentimento nazionale non conti, si confrontino le monete nazionali che esistevano prima dell’euro e lo stesso euro. Prima dell’euro le parità di cambio tra le monete erano gestite tra gli stati membri per compensare le differenze della forza economica tra, diciamo, Germania e Francia o Italia. Ma in seno a ciascuno stato l’unità della moneta nazionale era mantenuta tra regioni ricche e povere da un’intera serie di misure ridistributive: pensioni e sussidi sociali identici, pubblici investimenti, eccetera. Queste misure erano politicamente possibili perché i cittadini di questi stati “sentivano” di essere tutti francesi, o tutti italiani o tutti tedeschi.

Con l’euro non possono esserci aggiustamenti di cambio tra economie deboli ed economie forti. Inoltre l’eurozona è priva dei meccanismi di ridistribuzione che esistevano tra regioni ricche e povere di un singolo stato. E’ chiaro dal seguire la tragedia greca che i tedeschi non si sentono sufficientemente greci – o persino sufficientemente europei – per accettare i trasferimenti di ricchezza necessari per “salvare la Grecia”. In breve, i sentimenti nazionali hanno un’importanza enorme, contrariamente alle idee dei liberali e dei marxisti che ignorano o minimizzano entrambi l’importanza di sentimenti “irrazionali” nella realtà sociale.

O si paragoni l’Europa con l’America Latina. In quest’ultimo continente tutti i paesi, eccetto il Brasile, hanno origine nello stesso impero coloniale, parlano la stessa lingua, praticano la stessa religione, hanno persino più o meno lo stesso nemico (gli Stati Uniti) e non si sono massacrati a vicenda in grandi guerre recenti.

In Europa è il contrario. Le “memorie” dei vari popoli sono molto diverse, persino contraddittorie, avendo vissuto alcuni attraverso il comunismo, altri attraverso il fascismo, per non citare tutte le varie guerre tra loro. Le loro varie leggende e anche le lingue preservano queste diversità.

E tuttavia l’integrazione del continente latinoamericano sta progredendo nel pieno rispetto della sovranità di ciascuno stato. Nessuno insiste che Cile e Bolivia adottino la stessa moneta né che tutti i loro corsi universitari quadriennali siano portati a cinque anni per “armonizzare” gli studi, come nel caso di Bologna in Europa. Se la Bolivia o l’Ecuador decidono di controllare le loro risorse naturali non devono chiedere l’autorizzazione a “Bruxelles”.

Tale integrazione rispettosa delle sovranità nazionali avrebbe potuto essere intrapresa in Europa. Quella era l’idea dell’”Europa dei popoli” proposta da Charles de Gaulle ed esclusa dall’esistente costruzione europea.

La sinistra condanna la politica dell’Unione Europea perché è “neoliberista”, ma il problema è molto più profondo. Il difetto fatale è che, in assenza di un popolo europeo, la costruzione europea può solo essere non democratica e burocratica. Un potere burocratico o autocratico inevitabilmente suscita ostilità e finisce per produrre effetti politici contrari a quelli perseguiti. Se le politiche della UE fossero “socialiste” susciterebbero ostilità simili.

Dal punto di vista della destra liberale privare i popoli europei della loro sovranità, e dunque della democrazia, era naturale perché quei popoli, lasciati a sé stessi, avrebbero votato a favore di troppe misure ridistributive.

A sinistra la costruzione europea è stata promossa perché quegli stessi popoli erano presunti sciovinisti, nazionalisti, razzisti e, lasciati a sé stessi, sicuramente avrebbero finito per farsi l’un l’altro la guerra. Questo atteggiamento suicida nei confronti della stessa propria popolazione è stato suicida per la sinistra, la cui sola base deve essere il “popolo”.

La sinistra europeista ha commesso un errore simile a quello dei comunisti del passato; ha pensato di agire nell’interesse del popolo ma quest’ultimo, essendo incapace di capire, doveva essere guidato da una élite non eletta.

Questo è particolarmente plateale e tragico a proposito dell’immigrazione e dei profughi. Gli europeisti di sinistra vogliono imporre una politica di “apertura” senza chiedere alla propria gente che cosa pensa, poiché parte di essa è certamente contraria. Ma non comprende che imporre una politica impopolare può solo renderla più impopolare e che nessuno ama essere costretto da altri a essere altruista.

I comunisti avevano le loro Democrazie Popolari, con la democrazia semplicemente come facciata.

Gli europeisti hanno il loro parlamento, che è un’altra: non ha alcun potere reale e se ce l’avesse non sarebbe in grado di esercitarlo a causa della molteplicità delle lingue e delle origini nazionali.

I comunisti ritenevano che i sentimenti nazionali sarebbero scomparsi grazie al progresso economico. Gli europeisti hanno fatto la stessa scommessa ma entrambi devono riconoscere che i sentimenti nazionali “irrazionali” non sono scomparsi, meno che mai quando non c’è alcun segno del progresso promesso.

Per molto tempo i comunisti hanno usato l’arma dell’antifascismo per mettere a tacere la loro opposizione. Gli europeisti di sinistra fanno esattamente lo stesso. Nel momento in cui i popoli europei si mostrano recalcitranti alle politiche imposte loro, sono ignorati e accusati di essere populisti e razzisti.

In entrambi i casi quel genere di intimidazione funziona per un po’, ma alla fine si rivela un boomerang. E quando accade, quelli che traggono maggiore vantaggio dalla rivolta popolare sono quelli che non hanno mai ceduto all’intimidazione, comunista o europeista, e cioè i nazionalisti e la destra religiosa.

Indubbiamente tutto questo presagisce “tempi bui” per il nostro continente, come lamentano gli europeisti. Ma di chi la colpa? Non delle Cassandre che tentano di avvertire circa ciò che sta avvenendo, ma di quelli che hanno “costruito l’Europa” sulle fondamenta traballanti dell’arroganza intellettuale, del disprezzo per il popolo e di illusioni riguardo alla natura umana.

 


JEAN BRICMONT insegna fisica all’Università di Louvain in Belgio.


Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/the-european-dead-end/

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