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1 febbraio 2016

 

Schengen è morto, viva Schengen!

di Giuseppe Campesi

 

L’annuncio che il Consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione europea avesse richiesto di estendere immediatamente i controlli di polizia anche ai cittadini che attraversano le frontiere esterne è stato da molti salutato come la “morte di Schengen”. Tale misura, inclusa nelle conclusioni adottate dal Consiglio il 20 novembre 2015 in occasione dell’incontro straordinario seguito ai recenti attentati di Parigi, non deve tuttavia essere letta alla luce dell’emergenza nel cui quadro viene proposta. In realtà si tratta di una misura che si inserisce in un trend di generalizzazione ed estensione della sorveglianza dei movimenti attraverso le frontiere che era in atto da tempo e che, più che contraddire lo spirito di Schengen, incarna alla perfezione la sua anima profondamente securitaria.

La stipula degli accordi sulla libera circolazione ha com’è noto prodotto un complessivo rafforzamento degli strumenti di controllo alle frontiere esterne, tra questi strumenti le banche dati sono state tra le prime ad essere sviluppate. La genesi del Sistema Informativo Schengen (Sis) e della banca dati Eurodac risale infatti alla seconda metà degli anni Novanta, mentre il Sistema informativo visti (Vis) è stato implementato qualche anno dopo. La logica di questi primi strumenti di sorveglianza era quella del controllo dei movimenti sospetti dei cittadini di paesi terzi. Le banche dati raccoglievano infatti informazioni personali e biometriche di alcune specifiche categorie di stranieri, concentrandosi in particolare sulle persone sospette di voler violare le norme sull’ingresso o sul soggiorno nell’Unione (Sis, Vis), o di voler abusare delle procedure di protezione internazionale (Eurodac).

La guerra al terrorismo ha prodotto una rivoluzione nella logica di funzionamento delle banche dati, spingendo verso una progressiva estensione della sorveglianza. Seguendo l’esempio statunitense, all’indomani degli attentati di Madrid (2004) e Londra (2005) l’Unione europea ha cercato di sviluppare un complesso sistema di controllo che servisse a monitorare tutti i movimenti attraverso le frontiere, non solo quelli degli stranieri sospetti di voler violare le norme sull’immigrazione e l’asilo. Tale obiettivo è stato perseguito attraverso due strade principali: da un lato tentando di moltiplicare le banche dati a disposizione delle forze di polizia, con la creazione di un sistema di raccolta dei dati sui viaggiatori conservati dai vettori (Advance Passenger Informations e Passenger Name Records) e di registrazione di tutte le persone in ingresso e in uscita dallo spazio Schengen (Entry-Exit Registration System); dall’altro alimentando la loro “interoperatività”, vale a dire la possibilità di incrociare ed utilizzare ad altri fini le informazioni raccolte nelle singole banche dati. La logica di queste misure era appunto quella di generalizzare la sorveglianza dato che, a differenza dei primi database in materia di immigrazione, i nuovi strumenti erano concepiti per raccogliere informazioni su tutti gli stranieri in movimento al fine di costruire profili di rischio che sarebbero stati utilizzati dalla polizia di frontiera per discriminare tra soggetti “affidabili” e soggetti “meno affidabili” da sottoporre ad ulteriori controlli.

Tali proposte hanno tuttavia incontrato numerosi ostacoli ed, in particolare, sono state fortemente criticate dall’European Data Protection Supervisor che ha denunziato la sproporzione delle misure immaginate dalla Commissione. Per quanto si trattasse di misure che venivano presentate come strumenti di prevenzione del terrorismo o di altre “gravi” forme di criminalità, esse si basavano sulla schedatura di milioni di stranieri senza alcun criterio di selezione. Con l’obiettivo di creare profili di rischio per indirizzare l’attività delle forze di polizia, l’Unione europea finiva per legittimare la raccolta delle informazioni personali e dei dati biometrici di persone la cui unica “colpa” era quella di aver attraversato la frontiera Schengen. Si trattava di una raccolta sistematica e generalizzata di dati non giustificata da alcun sospetto, o meglio fondata sulla presunzione che la mobilità degli stranieri attraverso le frontiere fosse di per sé un’attività sospetta da monitorare.

Sia la proposta sul Passenger Name Records che quella sull’Entry-Exit Registration System, le due misure senza dubbio più controverse, erano in una fase di stallo che solo gli attentati del gennaio 2015 alla sede del giornale Charlie Hebdo erano sembrati sbloccare, dato che il Consiglio aveva invocato una rapida approvazione delle proposte della Commissione. Nella sua dichiarazione del febbraio 2015 il Consiglio dei ministri dell’interno abbatteva tuttavia anche l’ultimo argine, dando il via ad una potenziale estensione della sorveglianza a tutte le persone in movimento attraverso le frontiere esterne indipendentemente dalla loro cittadinanza. Il Consiglio auspicava infatti che anche i cittadini dei paesi membri fossero soggetti ai controlli e, possibilmente, registrati nella nuova banca dati che si candidava a raccogliere le informazioni personali delle centinaia di milioni di persone che attraversano ogni anno le frontiere Schengen. Una misura che anche in passato era stata ripetutamente ventilata dalla Commissione nelle sue proposte sull’Entry-Exit Registration System, ma che incontrava un ostacolo apparentemente insormontabile nel codice delle frontiere Schengen, il quale stabilisce che solo i cittadini dei paesi terzi debbano andare incontro a controlli approfonditi all’atto dell’attraversamento della frontiera. Le conclusioni dello scorso 20 novembre danno appunto mandato alla Commissione per la proposta di una riforma del codice Schengen che elimini anche quest’ultimo ostacolo verso una generalizzazione della sorveglianza.

La gestazione dello spazio di libera circolazione Schengen è stato un processo lungo e complesso, un processo che sin dal principio è stato dominato da pulsioni securitarie. L’eliminazione dei controlli alle frontiere nazionali è stata percepita come un esercizio altamente rischioso, che avrebbe lasciato gli Stati membri esposti a dei pericoli incontrollabili. Per tali ragioni, la questione dello sviluppo di poteri di polizia e di sorveglianza idonei a “compensare” l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne fu posta sin dal principio in cima all’agenda politica, facendo di Schengen un progetto chiaramente securitario. I recenti attentati di Parigi non hanno rivoluzionato l’agenda europea in materia di sicurezza e controllo delle frontiere, ma piuttosto agevolato la rottura dell’ultimo argine che frenava l’adozione di misure di sorveglianza generalizzata cui i tecnici di Bruxelles lavoravano da tempo.

 

Vedi anche

 

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