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15 Settembre 2016

 

L’Unione non è più riformabile. Va fermata la circolazione indiscriminata dei capitali

G. Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio

 

“Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di cambiamento. La sostanza delle politiche economiche non è cambiata. L’eurozona resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il continente. Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile”. L’economista Emiliano Brancaccio non ha mai aderito allo storytelling renziano sulle possibilità di rilancio del progetto di unificazione europea. Anzi, nel commentare le recenti decisioni di politica monetaria e le proposte di gestione del post-Brexit, Brancaccio mette in luce l’affiorare di crepe sempre più profonde nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione.

 

Professore, la settimana scorsa Mario Draghi ha dichiarato che per i prossimi mesi la BCE non immetterà ulteriori dosi di liquidità nell’economia europea. Possiamo affermare che nel direttorio di Francoforte questa volta Draghi ha perso, e che hanno vinto i “falchi” dell’austerity guidati dal tedesco Weidmann?

Il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti maggiormente in difficoltà. Le regole attuali impongono alla BCE di acquistare titoli secondo quote pressoché fisse tra i vari Paesi, il che significa che larga parte delle erogazioni della banca centrale finisce in Germania anziché nelle economie che ne avrebbero più bisogno. Per iniziare ad affrontare i problemi di solvibilità dei Paesi più fragili bisognerebbe almeno superare questi aspetti così regressivi della politica monetaria europea. Ma i conservatori, tedeschi e non solo, ormai bloccano anche le più modeste istanze di rinnovamento.

 

Questo significa che la BCE non riuscirà a perseguire l’obiettivo d’inflazione che si era data?

Le banche centrali non hanno mai avuto il potere di controllare l’inflazione. Il loro vero compito è di definire le condizioni generali di solvibilità delle unità economiche. Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri Paesi del Sud Europa.

 

Nella conferenza stampa di giovedì scorso, però, Draghi ha auspicato che il governo tedesco si attivi per aumentare la domanda interna e stimolare le importazioni di merci estere, in modo da ridurre gli squilibri che derivano dall’eccessivo surplus commerciale della Germania. È un modo per richiamare la Merkel alle sue responsabilità?

Un modo molto timido, direi. In conferenza stampa Draghi ha anche aggiunto che l’Unione europea non è un’economia pianificata, e che quindi non esistono modi semplici per ridurre il surplus di paesi competitivi come la Germania. Questa affermazione descrive abbastanza correttamente lo stato dei fatti, ma lasciarla in sospeso significa creare un gigantesco alibi al governo tedesco. Se il Presidente della BCE volesse affrontare davvero il problema, dovrebbe trarre le conseguenze del ragionamento e riconoscere che l’eurozona sta implodendo anche a causa di un deficit di “pianificazione”, per usare il suo stesso gergo.

 

Lei è stato l’ideatore dello “standard retributivo europeo”, una proposta di riforma che mirava a sanzionare la politica di schiacciamento dei salari praticata dalla Germania. Tra gli esempi di “deficit di pianificazione” dell’Unione possiamo contemplare anche la mancanza di questo tipo di coordinamento europeo della contrattazione salariale?

In senso lato sì, certo. Nessuna unione monetaria alla lunga può sopravvivere se il paese più forte si ostina ad attuare una politica di competizione al ribasso sui salari relativi. Oggi si dice che in Germania le retribuzioni hanno cambiato passo, che hanno cominciato finalmente a crescere. In effetti negli ultimi anni il costo unitario del lavoro tedesco è cresciuto di cinque punti in più rispetto alla media europea. Ma in questo modo è stato eliminato solo un terzo del vantaggio competitivo che la Germania aveva accumulato nello scorso decennio, anche grazie a una ferrea politica di controllo dei salari. Oltretutto, la forbice tra i costi si sta riducendo molto più attraverso la deflazione salariale nei paesi periferici che tramite la ripresa delle retribuzioni in Germania. Ma la deflazione distrugge capacità produttiva e cancella altri posti di lavoro nel Sud Europa. Lungo questo tracciato la fragilità dell’eurozona viene accentuata, non risolta.

 

Renzi e Padoan però affermano che grazie al Jobs Act l’occupazione in Italia è ripartita e anche oggi l’Istat parla di 439mila occupati in più nel secondo trimestre…

Magari Renzi crede davvero al suo storytelling ma Padoan la verità la conosce. Dall’approvazione del Jobs Act i posti di lavoro in Italia sono aumentati meno della metà rispetto alla crescita media europea, che già di per sé è stata molto modesta. La ricerca accademica ha ripetutamente provato che la precarizzazione dei contratti non crea occupazione, serve solo a indebolire i lavoratori e a ridurre ulteriormente i salari.

 

È notizia recente che l’Italia è diventata nuovamente un Paese ad emigrazione netta: i concittadini che lasciano i confini nazionali sono più degli immigrati che arrivano. La persistenza dei divari occupazionali tra l’Italia e la media europea può spiegare anche le nuove tendenze all’emigrazione?

Non è un fenomeno solo italiano. Si fa un gran parlare dell’immigrazione che proviene dall’Africa e dall’Asia, ma dovremmo ricordare che almeno metà delle attuali migrazioni è interna al continente, e riguarda cittadini dell’Unione europea. Fin dai suoi primordi, si sapeva che l’assetto dell’Unione avrebbe determinato andamenti sbilanciati dell’occupazione nei diversi Paesi, e quindi avrebbe indotto imponenti migrazioni di lavoratori dalle aree più deboli a quelle più forti. Rispetto al 2007, in Germania ci sono oggi circa tre milioni di occupati in più mentre in Spagna registriamo 2 milioni e trecentomila occupati in meno, in Italia un milione di occupati in meno e in tutto il Sud Europa sono stati distrutti circa cinque milioni di posti di lavoro. Nell’Unione questi squilibri non possono essere affrontati con le politiche economiche: non solo non c’è un coordinamento salariale, ma non sussistono nemmeno trasferimenti fiscali dalle economie forti a quelle più deboli. In questo contesto, l’unico meccanismo che può mitigare gli effetti della forbice occupazionale in atto è dunque soltanto la migrazione di milioni di lavoratori dal Sud al Nord Europa. Ma quella migratoria è una valvola di sfogo delicata, complessa, dolorosa, che richiederebbe un minimo di organizzazione preventiva della direzione e della velocità dei flussi.

 

Secondo lei, anche sul campo delle migrazioni, si è registrato un “deficit di pianificazione”?

L’esigenza di regolare la crescita dei flussi migratori era nota da tempo, ma le istituzioni europee non sono riuscite nemmeno a elaborare una parvenza di controllo “a valle” degli squilibri che esse stesse creavano. Come al solito, hanno scelto di affidarsi a rozzi meccanismi di mercato, e così hanno finito per cospargere altra benzina sul fuoco del risentimento sociale e della xenofobia. Basti ricordare che oggi la propaganda delle forze reazionarie, in Gran Bretagna come in Germania, cattura consensi anche lamentando che “ci sono troppi italiani in giro”. Con buona pace per gli ideali di fratellanza tra i popoli europei.

 

In un’intervista a l’Espresso lei ha sostenuto che queste tendenze potrebbero sfociare in una sorta di “xenofobia liberista”, una sintesi perversa tra vecchia e nuova prassi politica. Vede questo sbocco anche nei possibili esiti della trattativa sulla Brexit?

Purtroppo sì. La proposta di gestione della Brexit attualmente in voga è quella suggerita dall’influente Istituto Bruegel di Bruxelles: promuovere un nuovo accordo tra UE e Regno Unito che si basi da un lato sulla riaffermazione della indiscriminata circolazione internazionale dei capitali tra le due aree, e dall’altro sulla concessione ai britannici di bloccare a piacimento i flussi di immigrati dal continente. Se questo è il meglio che gli illuminati think tank europei sono in grado di proporre, la sintesi che ho definito “xenofobia liberista” non è più semplicemente un’ipotesi sul futuro, ma deve già esser considerata un’orrida realtà di fatto.

 

A questo proposito, lei insiste spesso sull’idea che proprio il caos creato dalle ricette del liberismo economico sia stato il detonatore delle suggestioni razziste e xenofobe che oggi attraversano il continente…

Alcuni storici revisionisti hanno sostenuto che l’avvento dei fascismi in Europa fu una reazione alla rivoluzione bolscevica e all’affermarsi del “grande altro” sovietico. Quel che sta avvenendo in questi anni sembra suggerire che l’ascesa di forme più o meno surrettizie di fascismo può anche verificarsi come effetto diretto del meccanismo capitalistico e delle sue crisi, pur nella totale assenza di una minaccia di tipo comunista o anche solo vagamente tradeunionista.

 

In effetti, dopo la cosiddetta resa di Alexis Tsipras, con la Grecia costretta a ingoiare la cicuta, la sinistra sembra essere finita di nuovo ai margini del dibattito politico. I reduci del sogno di “un’altra Europa” sono oggi divisi: Varoufakis, che insiste su un rilancio delle lotte per cambiare l’Unione dall’interno, attacca i propugnatori della “Lexit”, che invocano un’uscita da sinistra dall’euro per ripristinare forme di sovranità nazionale sulle leve dell’economia. Come giudica la polemica in corso?

La peggiore discussione possibile, chi la alimenta si diletta a dividere l’atomo anziché cimentarsi nella fatica della sintesi. Coloro i quali oggi sostengono di voler lottare per cambiare l’Unione dall’interno dovrebbero occuparsi di miracolistica, non di politica. Al tempo stesso, chi parla di “sovranità nazionale” adopera pigramente un linguaggio banale, ambiguo, oltretutto estraneo alla tradizione del movimento operaio, che era internazionalista per ragioni materiali e non semplicemente ideali.

 

Il vertice dei Paesi euro-mediterranei voluto da Tsipras potrebbe costituire una base internazionale di rilancio dei progetti di riforma in senso progressista dell’Unione?

L’Unione non è più riformabile in senso progressista. Le condizioni politiche, se ci sono state, ora non si intravedono nemmeno all’orizzonte. Forme di coordinamento dei Paesi euro-mediterranei potrebbero avere un senso, ma lo scopo dovrebbe andare oltre le attuali agende politiche.

 

Cosa pensa della proposta del premio Nobel Joseph Stiglitz di dividere in due l’eurozona con una moneta per i paesi del Sud e una per quelli del Nord?

In linea di principio non è sbagliata, le economie del Sud Europa sono più complementari di quanto si pensi. Ma al momento credo sia più realistico lo scetticismo di Paul De Grauwe: se l’Unione salta, ogni paese tornerà alla moneta nazionale. Poi si vedrà.

 

In questo scenario, quale proposta si sentirebbe di avanzare?

I partiti xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo proponendo il blocco dei movimenti migratori di persone. Bisognerebbe fronteggiare l’intraprendenza di queste forze reazionarie avanzando chiare proposte alternative. Per esempio, bisognerebbe spiegare ai cittadini che la crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei capitali. L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro tempo. In un contesto in cui i capitali possono muoversi da un Paese all’altro alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e blandi vincoli ambientali e contrattuali, ogni istanza di progresso sociale e civile viene presto o tardi soffocata. Per questo, penso che sarebbe utile lavorare collettivamente intorno all’idea di un “labour standard sulla moneta”, vale a dire un sistema di gestione delle relazioni internazionali finalizzato al controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale.

 

In Italia vede al momento forze politiche disposte a fare della proposta di controllo dei movimenti di capitale una vera e propria bandiera?

Dalle nostre parti il dibattito politico è dominato dal nulla. Eppure, quando ai prossimi appuntamenti elettorali si tratterà di giudicare i programmi dei partiti, poche cose saranno importanti quanto la posizione che le varie forze assumeranno sul tema della circolazione indiscriminata dei capitali.

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