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29 aprile 2016

 

Nuit Debout e i limiti del gauchismo

 

La sinistra di classe deve fare i conti con il populismo. Questo il giudizio – a dire il vero l’unico interessante nella marea di commenti preconfezionati letti in questi giorni – espresso da Carlo Formenti riguardo alle proteste francesi contro la riforma del lavoro predisposta dalla legge El Khomri. Interessante perché problematizza l’interpretazione di un movimento, altrimenti raccontato unicamente nei termini enfatici tipici di certe “analisi” interessate. Le mobilitazioni “spontanee”, “orizzontali”, e (ovviamente) “giovanili” generano sempre entusiasmi trasversali pari solo alla rapidità del riflusso che le caratterizza e al vuoto che lasciano dietro di sé. Formenti non si ferma però a rilevare i limiti di uno schema ormai caratteristico delle sinistre europee. Dice anche che con tali venature populiste bisogna farci i conti, sporcandosi le mani, senza banalizzazioni libresche, cogliendone non solo i limiti ma, forse soprattutto, le potenzialità di “rigenerazione” della sinistra. In ogni caso questo ventennio ci sta consegnando una modalità di partecipazione politica che non è solo il frutto distorto di certo populismo progressista, ma anche il prodotto specifico dello scenario politico contemporaneo. Prima di affrontare la questione bisognerebbe chiedersi se la mobilitazione francese in corso ricalchi davvero forme di populismo.

Populismo è concetto sviante per descrivere bene un movimento di protesta. E’ un’astrazione generica, trasversale, disorientante, che si presta poco alla comprensione effettiva di un fenomeno politico. Vale sicuramente in alcune circostanze (ad esempio, il “peronismo” corrisponde bene al concetto di populismo, così come certi movimenti qualunquisti europei, vedi il M5S), ma non basta ritrovare alcuni elementi in questa o quella mobilitazione per marchiare politicamente un movimento come “populista” (che ha, sempre, una valenza negativa e mai tecnica). Il movimento francese in questione, più che populista, ci sembra ricalcare piuttosto le modalità organizzative e gli orizzonti politici della sinistra movimentista europea dell’ultimo ventennio. Le differenze, che pure ci sono a leggere certe analisi, soprattutto di Frederic Lordon, sono più il riflesso della contingenza particolare e dell’esperienza accumulata, che date dalla natura politica del movimento, mentre le aderenze agli altri movimenti di protesta di riferimento (Occupy Wall Street o Indignados) ci sembrano maggiori. Il problema strutturale che invece si può rilevare è d’altro tipo.

La particolare situazione francese non consente più movimenti di protesta che partano o stabiliscano il proprio campo ideale e logistico nel centro della metropoli. In Francia la frattura di classe passa dalla segregazione geografica, razziale, economica e culturale delle banlieue contro la città integrata, inclusa, ricca, turistica. Non c’è movimento di classe se non parte e se non coinvolge le classi subalterne migranti delle periferie. La riproposizione di mobilitazioni per diritti, anche sociali, da cui sin dal principio sono esclusi gli emarginati della società francese – non farà che approfondire il solco traumatico tra classi integrate nello Stato e classi escluse e disintegrate dalla partecipazione politica.

Sono rappresentati i bisogni, i problemi, la condizioni di vita e di lavoro delle periferie francesi nella lotta alla legge El Khomri oggi in Francia? I dubbi sono molti, conoscendo l’incomunicabilità radicale tra centro e periferia attualmente esistente, nonchè la composizione sociale di queste proteste. Certo gauchismo, se un tempo aveva la forza della mobilitazione a scapito della propria innata trasversalità sociale, oggi può essere più un problema che una soluzione. Evidentemente è meglio mobilitarsi contro la deriva neoliberista che anche in Francia sta trovando disposizione giuridica, ma se l’obiettivo della mobilitazione stessa non assume subito i contorni dello scontro tra periferia e centro, questo è destinato non tanto alla sconfitta, ma al repentino assorbimento nel campo del dissenso compatibile, fisiologico e in qualche maniera utile all’autonarrazione delle possibilità democratiche del liberalismo occidentale. Insomma, qui il problema non è tanto quel che si dice o si pensa, che può essere più o meno condivisibile, quanto il pezzo di società che si vuole o si può rappresentare. Ed è un problema maledettamente complesso, perché se per tutto il Novecento lo schema era più “intuibile” e legato ad automatismi virtuosi, oggi lo sfaldamento sociale e politico impone una scelta di campo e un cambio di paradigma. Frederic Lordon dice cose condivisibili: la critica dei limiti dei movimenti simili precedenti (appunto OWS e Indignados) va nella direzione giusta (critica però maimetabolizzata dai suoi epigoni: chi si entusiasma per Nuit Debout è lo stesso che si entusiasmava per il 15M o i vari Occupy, senza rilevare differenze, senza sollevare dubbi, procedendo per esaltazione allogena, e in nessun caso avanzando per autocritica), soprattutto nel rimettere al centro la natura politica dello scontro in atto, il suo posizionarsi inequivocabilmente nella frattura destra-sinistra, nella sua radice nel rapporto tra capitale e lavoro. Dice anche cose meno condivisibili, a partire dalla retorica costituente che caratterizza certo pensiero tardo-post-operaista onanistico. Non è questo, davvero, il problema. Piuttosto, ecco: l’ennesima lezione del professorino in carriera che spiega la necessità di ribellarsi, prima ancora che ai comunisti in via d’estinzione, ha stancato e disilluso quel proletariato migrante e autoctono escluso dai processi d’integrazione sociale, processi ai quali invece aspirano quei più o meno giovani mobilitati nel centro della metropoli occidentale.

Carlo Formenti dice però una cosa decisiva nel suo invito a non banalizzare quello che lui chiama “populismo di sinistra”. L’attuale forma della politica, la sua natura intrinsecamente distante e opposta ai bisogni e agli istinti della popolazione subalterna, nonché la stagnazione economica che non consente redistribuzioni di reddito capaci di suscitare consenso, impongono il populismo come forma tipica delle istanze politiche antagoniste di questi anni. La mobilitazione trasversale contro il ceto politico è sbagliata in termini politici, ma riveste una natura sociale che è importante cogliere e che è il prodotto della particolare dinamica capitalistica di questi ultimi decenni, che genera reddito per élite sociali e impoverimento per il resto della popolazione. E’ in atto una polarizzazione sociale che si esprime politicamente attraverso istanze confusionarie, parzialmente trasversali, assolutamente spurie, in una parola: populiste, come le definisce Formenti con un termine che condividiamo poco.  E una sinistra degna di questo nome tale problema non può nasconderlo, ma farci i conti, pena la sua scomparsa. Siamo d’accordo. Sporcarsi le mani significa d’altronde esattamente questo, saper stare dentro certe proteste, colme di contraddizioni e altrettanto foriere di potenzialità. In ogni caso, starne completamente fuori non aprirebbe spazi concorrenti ma al contrario chiuderebbe ulteriori possibilità di influenza sociale e politica, relegherebbe certa sinistra non solo all’irrilevanza, ma definitivamente nel campo della nemicità popolare. E’ una dialettica mai stabile per definizione, ma che va perseguita in maniera militante, questo si, e insediata socialmente laddove ci interessa stare. Non è la confusione politica oggi il freno, ma la natura di classe dei soggetti mobilitati. E in Francia questo limite ci sembra presente non da oggi, ma da un ventennio abbondante.

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