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4 luglio 2016

 

Nuit Debout (pardon) mon amour!

di Alice

 

Le autorità hanno reso l'occupazione di piazza della Commune precaria: sembrano restare soltanto rabbia e gas lacrimogeni. In realtà migliaia di persone hanno alimentato nuove maniere di lottare. Presto i frutti saranno copiosi

 

Non ero lì il primo giorno, il 31 marzo. Forse sarò lì gli ultimi giorni, se qualcuno riuscisse a inventare una fine a Nuit Debout. Sono due mesi e mezzo che sono andata incontro a questo movimento, che mi è piaciuto, dove mi sono fiondata per prima. Ho dato gli esami alla bell’e meglio, ho trascurato la mia famiglia, i miei amici più stretti, ho dimenticato di dormire, di mangiare. Mi sono nutrita di sogni e di speranza, fino a fare un’overdose di passioni e di lacrime: fino ad esserne malata.

L’idillio dei primi tempi alla fine ha lasciato posto a una frustrazione e ad un’ansia probabilmente tanto dannosa per me che per il movimento. Ho mentito un po’ dicendo che era la stanchezza. Credo di essere abbastanza dotata per mentire. Alla fine, soprattutto per mentire a me stessa.

L’altro giorno, come una parte dei media mainstream, le Parisien, annunciava la fine di Nuit Debout. Ho sorvolato l’articolo. Sono talmente abituata a sorvolare gli articoli, ora. Ne ho riso, così come dell’infografica che sta assumendo dei bei colori rossi col passar dei giorni e ho riso di questo colore, simboleggiante il sangue? Il comunismo? La violenza? Ho riso dei pittogrammi, della visione un po’ meschina degli abitanti, del disprezzo del farmacista che dimentica che dei senza tetto verranno sempre a far a botte e a pisciare su place de la Republique, anche senza Nuit Debout. Ho riso del mio proprio disprezzo. Ho avuto un pensiero per la giornalista, certamente della mia stessa età, che ha battagliato per trattare l’argomento come meglio poteva, malgrado il tempo limitato che le è stato accordato.

 

E poi ho pensato al primo giornalista a cui ho parlato in piazza. Era sabato 40 marzo, e lui evocava la difficoltà di dare conto di un movimento che si manifestava sia in modo assolutamente diffuso, sia attraverso una molteplicità di piccole azioni concrete.

L’altra sera, questo stesso giornalista ha ritweetato Odezenne, un gruppo françese che ha pubblicato una clip dal titolo «Novembre , realizzata da Jérôme Clément-Wilz. Io non conosco davvero Odezenne, né il realizzatore della clip. Quest’ultimo ha girato durante le manifestazioni, gli scontri, durante Nuit Debout.

Sigarette, sorrisi, mascherine. Nero. Pioggia di granate lacrimogene. Militari e nuvole di gas lacrimogeno. Gas lacrimogeno. Fumo. Pioggia, Kway, Assemblea Nazionale. Forze dell’ordine e Assemblea Nazionale. Mascherine e foulard… Alla fine della clip di tre minuti, i grossi mezzi della nettezza urbana di Parigi distruggono il campo di migranti di Stalingrad.

Il 42 marzo di mattina, avevo smesso di piangere quando quegli stessi mezzi avevano distrutto il giardino e tutte le installazioni che avevamo montato sulla piazza della Comune. Ma avevo trattenuto le lacrime. Con la rabbia nel cuore, avevo morso il freno tutta la giornata per precipitarmi in piazza la sera stessa. Ho continuato ad essere arrabbiata e, poco a poco, nel corso delle settimane, poiché non potevamo più costruire sulla piazza, anche io ho comprato della soluzione salina, delle mascherine, un paio di occhiali.

L’altra sera, mi sono sciolta in lacrime dinnanzi a quei tre minuti di immagini che mi hanno rivelato tutto ciò che tenevo dentro da settimane, tutto ciò che non osavo affrontare: la mia mancanza di distacco di fronte alla violenza, la mia mancanza di distanza sul mio investimento e la mia salute, la mia angoscia perché questo sarebbe la fine, la fine del movimento, la fine della contestazione. La mia frustrazione poiché non costruisco più.

Le immagini di quella clip hanno brutalmente riportato a galla i miei ricordi di inizio aprile. Mi sono ricordata che qualche tempo fa (può sembrare un’eternità) muovevo i miei primi passi sulla piazza della Commune. Era ricoperta di stand, ci si camminava quasi sopra, era il 38 marzo, era bel tempo, quasi caldo, si toglievano le lastre da terra per fare un orto, le Belle Arti costruivano un castello verso il café Fluctuat. Parlavamo di ripari/capanne negli alberi, si registravano delle nuove Commissioni. Era bello, era un sogno. Nell’effervescenza, avevamo costruito una nuova maniera di lottare, una bolla di serenità, una vera utopia.

Ora che tutte le installazioni sono state distrutte, ora che le autorità hanno imposto e reso il nostro modo di occupazione precario, quando non è stato più possibile costruire fisicamente, mi sono costruita un palazzo di collera, di lotte e di passioni. Il tempo passa molto in fretta, sono riuscita a dimenticare ciò che mi aveva attirato, travolto, ciò che faceva sì che mi sentissi meglio qui che altrove. Questa nuova maniera di fare che mi aveva attirato al principio, che sublimava l’azione.

Pardon di aver dimenticato ciò che era Nuit Debout, al di là delle manifestazioni, del gas lacrimogeno e delle violenze della polizia. Non lo dimenticherò più.

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