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Apr 07, 2016

 

Hillary Clinton Regina del caos

di  Diana Johnstone

Nota introduttiva di Jean Toschi Marazzani Visconti

 

Siamo lontani da un instant book scandalistico su Hillary Clinton nell’anno delle elezioni del 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Questo è un testo rivolto a tutti quelli che hanno un interesse costante per la politica estera e interna americana, scritto da qualcuno che le conosce molto bene

Bugiarda, ambigua, camaleontica, fredda, maldestra, manipolatrice, guerrafondaia, sono tanti gli epiteti che circolano per qualificare Hillary Clinton (HC), specie adesso che è la principale front runner Dem per le presidenziali usa del prossimo novembre. Nel suo libro, la reporter di lungo corso Diana Johnstone aggiunge le caustiche definizioni di “regina del caos” e “bisbetica doma…trice”.

 

L’astio non le arriva soltanto dagli elettori Repubblicani ma anche dal suo stesso potenziale bacino di consenso, dal momento che Mrs Clinton non riesce a far breccia su moltissimi liberal incalliti, una buona parte dei quali costituita da donne, quelle donne americane dalle quali lei cerca, invece, un appoggio massiccio, impetuoso e trascinante.

Hillary Rodham Clinton non piace perché non è quello che vuole sembrare. Dietro la patina di paladina della democrazia e dietro una presunta autorevolezza derivatale da una carriera politica di indubbio peso – prima First Lady a fianco del marito Bill Clinton, 42° presidente degli Stati Uniti, in seguito senatrice, poi primo segretario di Stato dell’amministrazione Obama, e adesso tra i protagonisti della corsa alla conquista della Casa Bianca –, c’è una delle figure di spicco dell’élite politica globale dell’ultimo quarto di secolo, “prodotto politico” di un’epoca passata, perfettamente a suo agio tra i meccanismi del potere, che ben conosce e utilizza con disinvoltura per rafforzare la sua leadership. HC può contare su un saldo rapporto con le più importanti lobby economiche, determinanti nel finanziare le sue campagne elettorali e ogni altro tipo di iniziativa che la riguardi. L’establishment politico, cui HC appartiene, gode, infatti, di contributi illimitati da parte dei grandi interessi privati, convalidando così una versione della democrazia adattata ai miliardari. Non è un caso che le linee di politica economica di HC siano di impronta spietatamente liberista.

In un’America di trasformazioni strutturali rilevanti, dove si muove una società sempre più fluida e indecifrabile, dove si sgretola il mito dell’American Dream e dove si allargano le disparità di classe, HC mostra tutta la sua inadeguatezza nel fornire delle risposte a livello sociale, mancandole una chiara strategia in tal senso, a partire da un piano di riforma della giustizia penale.

La marginalizzazione delle istanze sociali da parte del sistema politico dominante, del resto, non è un fenomeno nuovo in usa, ma può farsi risalire già a oltre un cinquantennio fa, quando il generale Dwight Eisenhower – nel discorso d’addio del 17 gennaio 1961, al termine del suo mandato presidenziale – dava l’avvio al mic (military-industrial complex), un nuovo sistema militare-industriale che di fatto accantonava i programmi sociali del New Deal rooselveltiano in favore di una politica di consolidamento militare infinito, che trovava la sua legittimazione in una minaccia comunista grossolanamente esagerata. Dall’amministrazione Johnson a ora nessun presidente è stato capace di mettere veramente in discussione tale modulo e oggi spadroneggia un partito della Guerra assolutamente trasversale ai due schieramenti, protetto sia dal sistema bipartitico vigente sia da un’opinione pubblica tenacemente militarista, nonché sponsorizzato dall’industria degli armamenti. Attualmente «gli Stati Uniti possiedono un numero di basi o installazioni militari compreso tra 662 e oltre mille, sparse in qualcosa come 148 Paesi stranieri, e controllano di fatto le forze armate di molte di queste nazioni attraverso “aiuti” e “programmi congiunti di addestramento”».

L’immensa potenza militare del Pentagono ha generato una comunità di “intellettuali della Difesa” sempre a caccia di “minacce” e sempre pronta a ideare “missioni”. A infondere nuova linfa e ispirazione ci ha pensato il Project for the New American Century (pnac) – espressione di quell’intellighenzia neocon sostenitrice della “dottrina della guerra preventiva” – che, malgrado la sua durata limitata (1997-2006), esercita una perdurante influenza sulla politica estera di segno democratico, in specie sul segretario di Stato della prima metà della presidenza Obama.

HC spende tutte le sue energie nell’incrementare l’incubo del nemico esterno sfruttando tale ossessione in modo demagogico, come farebbe un qualsiasi repubblicano dell’ala più reazionaria. Ecco che «ogni governo straniero alle prese con una minoranza riottosa» viene considerato un regime corrotto e sospettato di tramare un genocidio ai danni di tale minoranza (l’arma ideologica del genocidio), da qui la giustificazione di un intervento militare da parte degli usa in nome dell’“autodeterminazione dei popoli” e nella convinzione che i valori nordamericani siano ispirati a principî universali. Così Johnstone:

«Hillary Clinton è l’incarnazione della hybris dell’Eccezionalismo americano. Appare incapace di dubitare che l’America sia “l’ultima speranza dell’umanità”. Soprattutto, è indubbiamente convinta che anche il popolo americano creda nell’Eccezionalismo americano e desideri vederlo confermato e celebrato. Se è questo ciò che il popolo americano vuole sentirsi dire, Hillary Clinton non rappresenta l’unico problema, nemmeno il problema principale. Il problema principale è la nostra cortina di fumo ideologica».

Una spinta propulsiva alla teoria dell’“Eccezionalismo americano” proviene anche da alcuni segmenti delle grandi ong internazionali, che dichiarano di battersi per il rispetto dei diritti umani e che, invece, capita si ritrovino a svolgere, volontariamente o meno, il ruolo di “fiancheggiatori” degli interventi armati della nato, sotto l’egida usa.

La sottovalutazione dei bisogni reali del corpo sociale nella sua complessità da parte di HC e del grosso della leadership politico-economica del suo Paese è direttamente proporzionale all’attenzione per il multiculturalismo – l’interazione in un medesimo spazio pubblico statale di diverse identità culturali.

Johnstone identifica gli anni Novanta delle presidenze di Bill Clinton come il decennio dello smantellamento definitivo del New Deal in favore del multiculturalismo quale nuovo ideale collettivo da esportare nel mondo, un modello talmente proteso verso le identità culturali da trascurare gli obiettivi condivisi dei gruppi sociali.

E tuttavia, le classi economiche continuano a esistere, così come il fossato tra i ricchi e i poveri continua ad allargarsi drasticamente nella maggior parte dell’Occidente, Stati Uniti compresi. La salvaguardia esasperata delle dimensioni identitarie è diventato il politicamente corretto delle élites politiche, in specie progressiste, incarnate dai coniugi Clinton, a discapito dei bisogni primari della maggioranza.

In quest’ottica HC ha utilizzato la sua identità di donna per far presa sull’elettorato femminile statunitense, soggetto imprevedibile e molto decisivo, non solo numericamente.

Ma l’usurato quanto opportunistico appello alla solidarietà di genere della vecchia Hillary non ottiene un gran successo sulle sue connazionali, specie più giovani. Angela Davis, in un’intervista rilasciata al quotidiano “il manifesto” in occasione del suo recente viaggio in Italia, ne spiega bene il motivo: «HC non ha capito che il femminismo è cambiato: la questione dell’identità non è oggi la più importante, conta la politica di genere, non il genere in sé ormai scontato. C’è oggi un femminismo più radicale che capisce che la questione va contestualizzata, posta in rapporto al sistema dominante in cui si vive».

Appare quindi piuttosto patetico il sostegno di HC alle ucraine Femen e alle russe Pussy Riot, che equiparano femminismo a esibizionismo sessuale, dando vita a un messaggio alquanto confuso e limitato contro lo sfruttamento sessuale delle donne all’interno di performance dove corpi nudi statuari vengono messi in mostra per attirare l’attenzione mediatica, alla stregua di una qualsiasi pubblicità sessista. Fenomeni a uso e consumo delI’establishment occidentale, in primis a stelle a strisce, e strumentali alla propaganda antirussa.

Straordinariamente incisivo nelle argomentazioni che rovesciano parecchi luoghi comuni e si affrancano dalle interpretazioni dominanti, il libro di Diana Johnstone è una sferzante summa di attualità geopolitica. L’acume dell’analisi si dipana con la vivacità del reportage giornalistico e il piglio di un’inchiesta ricchissima di dati, informazioni, rimandi di carattere storico puntuali e talvolta poco noti, delucidazioni, aneddoti e retroscena. Una lettura imperdibile e coinvolgente per saperne di più non solo su HC ma sugli Stati Uniti contemporanei.

Hanno detto:

La giornalista veterana Diana Johnstone coglie la Weltanschauung imperiale di Hillary Clinton – “il Falco” sia come senatrice degli Stati Uniti sia come segretario di Stato – in maniera memorabile. Non si ricordano sistemi d’armamento e pratiche di guerra che la signora non abbia appoggiato – basti pensare alla sua promozione iper-aggressiva della guerra in Libia (in opposizione al collega Robert Gates, allora segretario della Difesa) e al caos che ne è derivato, con l’utilizzo di armi ben oltre il dilaniato Stato libico fino alle più ampie regioni dell’Africa centrale. Per Johnstone, Hillary Clinton è “la massima esponente dell’oligarchia al potere” e “il candidato favorito del partito della Guerra”.

Questo è ciò che è in gioco nel mese di novembre 2016.

Ralph Nader, candidato alla presidenza degli Stati Uniti dal 1996 al 2008, prima per il Green Party e poi come indipendente

Hillary Clinton. Regina del caos di Diana Johnstone è molto più che un’eccellente fonte di informazioni per i rivali politici di Mrs Rodham Clinton. Offre resoconti puntuali sulla politica estera americana degli ultimi 25 anni, in particolare sui complessi e altamente controversi casi di Libia, Jugoslavia, Honduras e Russia, così come affronta la questione delle donne al potere. «C’è qualcosa che non va nelle donne americane al punto che per sentirsi meglio hanno bisogno che Hillary Clinton diventi presidente?» Si chiede l’autrice a un certo punto. La sua risposta è naturalmente negativa: «Non c’è nulla che non vada nelle donne americane, che, anzi, stanno dando vita a molti modi nuovi per condurre esistenze fruttuose, utili e gratificanti. […]». Perciò speriamo che se il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America sarà una donna, essa sia – con le parole di Johnstone – «una persona che si distingua per la sua approfondita comprensione del mondo e per la sua genuina compassione umana, invece che per la sua insaziabile ambizione personale».

William Blum, storico, giornalista e autore di Con la scusa della libertà. Si può parlare di Impero Americano

Diana Johnstone giornalista, analista politica e studiosa di geopolitica. Nasce a Saint Paul, nello Stato del Minnesota, nel 1931 ma cresce a Washington in un ambiente progressista, dato che i suoi genitori facevano entrambi del Brain Trust del New Deal del presidente Franklin D. Roosevelt: sua madre contribuirà alla nascita del Social Security Act del 1935, mentre suo padre sarà al fianco del segretario all’Agricoltura, Henry Wallace, futuro 33° presidente degli usa. Johnstone consegue un’istruzione cosmopolita (baccalaureato in Russian Studies e Phd in letteratura francese) e, durante la guerra del Vietnam, organizza i primi contatti internazionali tra cittadini americani e rappresentanti vietnamiti.

 


Diana Johnstone dal 1990 al 1996 lavora nell’ufficio stampa dei Verdi al Parlamento europeo. È autrice di The Politics of Euromissiles: Europe in America’s World (1983), Fools’ Crusade: Yugoslavia, nato and Western Delusions (2003) – discusso pamphlet in difesa del quale si sono mobilitati Noam Chomsky, Arundhati Roy, Tariq Ali e John Pilger – e di Hillary Clinton. Regina del caos (2015). Vive a Parigi da più di trent’anni.

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