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Giovedì 12 maggio 2016

 

Hillary apre ai Repubblicani

di Michele Paris

 

L’ormai quasi certezza della conquista della nomination Democratica ha già determinato una parziale svolta a destra da parte di una Hillary Clinton che sembra ben decisa a sottrarre un numero consistente di voti Repubblicani al suo sfidante, Donald Trump. La prevedibile evoluzione dell’ex segretario di Stato, per il momento solo all’inizio, sta avvenendo nelle fasi finali di elezioni primarie che hanno dimostrato un chiaro spostamento a sinistra dell’elettorato Democratico, evidente anche questa settimana nel voto in West Virginia, vinto a mani basse dal senatore “democratico-socialista” Bernie Sanders.

 

Hillary ha salutato l’uscita di scena dei rivali di Trump con un certo cambiamento dei toni e degli argomenti della sua campagna elettorale, abbandonando in parte quelli di carattere progressista per cominciare a dedicarsi al corteggiamento di leader e finanziatori Repubblicani spaventati dal candidato del loro partito.

 

Nelle dichiarazioni pubbliche dei giorni scorsi, Hillary ha sottolineato l’imprevedibilità di Trump e la minaccia che una sua presidenza rappresenterebbe per la sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti. Soprattutto l’ala conservatrice del Partito Repubblicano vede con sospetto le tendenze isolazioniste di Trump, così come le sue critiche ai trattati di libero scambio.

 

Per conquistarsi l’appoggio quanto meno di esponenti della diplomazia, degli ambienti militari e dell’intelligence che gravitano attorno ai Repubblicani, la ex first lady può d’altra parte vantare un lungo curriculum da “falco”, modellato attraverso il sostegno a svariate avventure belliche degli USA, da ultima quella in Libia che ha letteralmente devastato il paese nordafricano.

 

Gli sforzi di Hillary in questo senso sono sostenuti da giornali “liberal” come ad esempio il New York Times, il quale in almeno un paio di recenti articoli ha celebrato le attitudini guerrafondaie della candidata Democratica. La stessa testata ha spiegato inoltre come Hillary, “dopo un anno trascorso promuovendo politiche progressiste e concentrandosi in larga misura sugli appartenenti a minoranze etniche”, stia ora “riprogrammando la propria campagna per attrarre gli elettori bianchi indipendenti e quelli orientati a votare per i Repubblicani ma disgustati da Donald Trump”.

 

Alcune delle armi a disposizione della Clinton per riuscire in questo obiettivo le ha spiegate la commentatrice di destra Anne Applebaum in un editoriale pubblicato lo scorso fine settimana dal Financial Times. Mettendo a confronto le credenziali “conservatrici” di Hillary e di Trump in ambito “fiscale”, “del libero commercio” e “della sicurezza nazionale”, secondo la Applebaum non vi è dubbio che l’ex capo della diplomazia dell’amministrazione Obama sia la candidata migliore.

 

La stessa opinione è condivisa anche da esponenti di spicco negli ambienti Repubblicani. L’imprenditore multimiliardario Charles Koch, super-finanziatore di cause conservatrici e tradizionale bersaglio di “liberal” e progressisti americani, ha recentemente affermato che un presidente Clinton sarebbe preferibile a un presidente Trump.

 

David Petraeus, ex direttore della CIA ed ex comandante delle Forze di occupazione USA in Iraq e in Afghanistan sotto Bush e Obama, ha dichiarato invece che Hillary sarebbe un “meraviglioso presidente”. Quest’ultima, infine, ha incassato il sostegno ufficiale di Mark Salter, già consigliere del Repubblicano John McCain nella corsa alla Casa Bianca del 2008.

 

Se una svolta moderata, una volta messa in cassaforte la nomination del loro partito, è tipica dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti, così da allargare la propria potenziale base elettorale, la tempestività di Hillary Clinton e il clima del tutto particolare che si è respirato in questa stagione di primarie la rendono piuttosto insolita.

 

Evidentemente, Hillary sente di poter dare per scontato che gli elettori di Bernie Sanders, dopo averlo appoggiato per la sua agenda progressista, finiscano per sostenerla a novembre, in modo da impedire la conquista della presidenza a un candidato al limite del fascismo. Se ciò succederà senza troppe defezioni dipenderà in parte anche dalle decisioni dello stesso senatore del Vermont, il quale rimane per ora ufficialmente in corsa per la nomination ma ha già lasciato intendere che appoggerà la sua sfidante dopo la convention Democratica di luglio a Philadelphia.

 

Com’è ovvio, Hillary deve comunque continuare a proporre una certa immagine di candidata progressista e alcuni argomenti, come ad esempio quello dell’assistenza sanitaria, stanno fornendo la possibilità di compensare le aperture già mostrate nei confronti dei Repubblicani. Proprio questa settimana, la Clinton si è infatti detta favorevole all’allargamento del piano sanitario “Medicare” a una parte più ampia della popolazione.

 

Questo programma è garantito dal governo federale e copre attualmente gli americani di età superiore ai 65 anni. La promessa, con pochissime possibilità di essere implementata, dovrebbe servire per rispondere alla proposta avanzata da tempo da Sanders per un piano di assistenza pubblico universale sul modello dei paesi europei.

 

Hillary come il marito Bill, ad ogni modo non ha mai mostrato troppi problemi nell’adattare la propria retorica e le proprie azioni a seconda della convenienza politica e dell’interesse personale. Soprattutto, entrambi si sentono perfettamente a loro agio con le politiche e gli ambienti di destra, come testimoniano le numerose iniziative di legge approvate durante la presidenza Clinton e che hanno in sostanza perfezionato l’evoluzione del Partito Democratico in uno strumento delle élite economiche e finanziarie degli Stati Uniti.

 

L’affidabilità quindi di Hillary agli occhi dei poteri forti è tutt’altro che sorprendente e un’ulteriore conferma si è avuta da un’indagine apparsa lunedì sul Wall Street Journal. In essa viene documentato come la candidata Democratica alla Casa Bianca stia “consolidando l’appoggio dei finanziatori di Wall Street… in vista della sfida con Donald Trump” e abbia perciò ottenuto “donazioni per la propria campagna elettorale dal settore finanziario in misura maggiore rispetto a tutti gli altri candidati messi assieme”.

 

Analizzando i dati del Center for Responsive Politics, un’organizzazione che si batte per la trasparenza dei contributi alla politica, il Journal ha rilevato come Hillary abbia ricevuto in questa stagione 4,2 milioni di dollari dall’industria finanziaria USA, di cui 334 mila nel solo mese di marzo, l’ultimo per il quale siano disponibili informazioni.

 

Il denaro ottenuto da Wall Street a marzo rappresenta il 53% di tutte le donazioni a suo favore, mentre era il 32% del totale nel 2015 e il 33% nel mese di gennaio. Questa impennata dimostra come i banchieri americani abbiano dirottato i loro dollari sulla candidata ritenuta più affidabile dopo il ritiro dei loro preferiti Repubblicani, principalmente Jeb Bush e Marco Rubio.

 

A dare l’idea degli orientamenti della finanza d’oltreoceano è il dato relativo alle donazioni a favore di Donald Trump. Il businessman di New York ha raccolto in media da Wall Street non più dell’1% del totale dei fondi, anche perché finora ha finanziato in gran parte di tasca propria la sua campagna elettorale. Gli equilibri potrebbero variare nel prossimo futuro, quando Trump avrà bisogno di aumentare le entrate per affrontare una lunga campagna contro Hillary Clinton. Il flusso di denaro verso quest’ultima, tuttavia, dimostra chiaramente le preferenze dei vertici dei grandi istituti finanziari americani.

 

Oltre che direttamente alla campagna di Hillary, Wall Street ha donato abbondantemente anche all’organizzazione parallela che sostiene la sua candidatura, la “Super PAC” Priorities USA Action. Questo ente, nominalmente indipendente e che secondo la legge non può coordinare la propria attività con il candidato che appoggia, fino a marzo ha ricevuto 18,7 milioni di dollari dall’industria finanziaria, di gran lunga il settore più generoso nei confronti della Super PAC pro-Clinton.

 

Ciò a cui si sta assistendo, come ha ricordato il Wall Street Journal, è quindi un cambio di rotta dei grandi donatori di Wall Street, dopo che nel 2012 avevano mostrato di prediligere il candidato Repubblicano, Mitt Romney, staccando assegni pari a ben 90 milioni di dollari per la sua campagna.

 

A spiegare la disposizione di banchieri e grandi investitori verso i due candidati alla presidenza è stato Andrew Weinstein, ex “stratega” Repubblicano e consulente della Securities and Exchange Commission, l’agenzia federale deputata alla vigilanza della borsa. Weinstein ha spiegato che Wall Street “non ama l’incertezza sulla politica fiscale, commerciale” e sulla regolamentazione del settore finanziario. Per questa ragione, in molti potrebbero prendere le distanze da Trump.

 

Inoltre, per il lobbysta Repubblicano Ed Rogers, i grandi interessi finanziari non sono convinti che Trump sia il candidato meglio disposto verso il business, tanto più che si fatica a prevedere quale sarà la sua condotta alla Casa Bianca. Al contrario, Hillary “è ben nota” a Wall Street ed è risaputo che le sue inclinazioni non sono certamente “anti-business”.

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