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4 Luglio 201

 

Molla anche Farage. È ufficiale: il cambiamento è un pacco

di Flavia Perina

 

Da Farage alla Raggi a Boris Johnson: le campagne elettorali premiano le svolte storiche, la realtà le sgonfia immediatamente. Un consiglio ai rottamatori? Premiate gli irregolari, non i fedelissimi.

 

Potremmo intitolarla “la grande sòla del Cambiamo tutto”, intendendo per sòla l’immensa fregatura presa da qualche milione di elettori inglesi che dieci giorni dopo il referendum vedono i capipopolo della Brexit lasciare il campo, e tanti saluti a tutti. Dopo Boris Johnson che si è sfilato dalla corsa alla successione di Cameron arriva pure, totalmente a sorpresa, l’addio alle armi di Nicholas Farage. «Rivoglio la mia vita», dice. E tanti saluti a tutti.

Verrà il tempo delle analisi, e si capirà meglio il senso di questo gesto da matto che al momento sembra solo il tentativo di scansare le responsabilità di un dopo-voto incandescente: perché un conto è vendere fumo agli elettori e un altro trasformare il fumo in arrosto, lavoro che non può riuscire nemmeno al più abile degli alchimisti. E però non sembra un problema soltanto inglese. Anche qui da noi, fatte le debite proporzioni, le sorti degli spaccamontagna del consenso sembrano al momento in netto declino.

“Cambiamo tutto” è lo slogan di riferimento della politica italiana da almeno cinque anni, declinato in varie sfumature sia dalle forze di governo sia da quelle di opposizione. Dal “CambiaVerso” di Renzi al “Ruspe” di Salvini fino alla metafora grillina della scatoletta di tonno, la direzione della propaganda è sempre la stessa.

Finora ha funzionato molto bene, chiunque l’ha utilizzata ha avuto grandi risultati, ha sbaragliato gli avversari interni, ha vinto elezioni con percentuali di rilievo. Quello del M5S è stato solo l’ultimo exploit di una lunga serie di “rottamatori di successo”, che con un po’ di memoria e fantasia si può far risalire addirittura all’era Monti: chi non ricorda l’iniziale, travolgente simpatia che suscitò lo strappo estetico dei professori, la metafora del Loden e dei mezzi tacchi contrapposta allo sbracamento di una politica “professionale” che sembrava un accampamento di Unni nelle istituzioni.

 

E però, dopo cinque o sei anni di grandissimo consenso, il “Cambiamo tutto” si trova improvvisamente in affanno anche da noi. La vicenda di Virginia Raggi e della lista degli assessori romani, scritta, cancellata e riscritta come un esercizio di matematica che non torna mai, è solo la punta di un iceberg più grande. Arranca a livello nazionale il CambiaVerso del presidente del Consiglio. Arranca sui territori la rupture leghista. Insomma, i timonieri della rivoluzione prossima ventura alla prova dei fatti non riescono a cambiare così tanto.

Si cambia, ma poi si deve trattare con Verdini. Si cambia, ma poi si deve (chissà perché: la vicenda è davvero curiosa) chiamare in posizione di assoluto rilievo uno che ha navigato da tutt’altre parti, tra Alemanno, la Polverini, Storace. Si cambia, ma i pigliatutto delle preferenze sono sempre quelli, e sono loro a fare i capigruppo. E verrebbe da dire: è la logica gattopardesca del nostro Paese, è l’eterno Tancredi Falconieri che è in noi, il Garibaldi che finisce sempre a Teano, il Mazzini che spiana sempre la strada ai Cavour. Ma stavolta sarebbe ingeneroso. Perché c’è la Gran Bretagna a ricordarci che il problema del cambiamento e della distanza tra il dire e il fare, non è una nostra esclusiva, anzi.

Uno dei fil-rouge da seguire è l’appiattimento sulla pura propaganda di ogni proposta politica. Si pensa che la gente sia scema e che si possano vendere gelati agli esquimesi se si è abili in tv o sui media. Tramontata l’ideologia, che dava corpo e retroterra agli slogan sui manifesti, si è immaginata una via più semplice al potere rispetto alla costruzione di nuove elìte capaci di affrontare i tempi: “prima vinciamo e poi vediamo che fare”.

Così il “Cambiamo tutto” si è inabissato in modeste ambizioni personali, singoli progetti di carriera: insomma, il solito assalto alla diligenza e poi più niente, perché non c’è quasi nessuno che sappia dove guidare il maledetto carro. In Gran Bretagna è successo addirittura che i vincitori del referendum abbiano mollato le redini, preferendo cederle ad altri che affrontare un processo che spaventa perché, evidentemente, non ha mai avuto alcuna solidità e contenuto.

 

I grandi leader populisti (senza voler dare alcuna connotazione negativa alla parola) a differenza dei loro omologhi novecenteschi, i Lenin e i Mussolini, i Roosvelt e le Thatcher, sono uomini soli, dotati di carisma televisivo e talvolta di cinismo nell’usare i sentimenti popolari ma senza “contesto”: non c’è molta politica intorno a loro, né scrittori eclettici, architetti matti e innovativi, economisti capaci di guardare lontano, intellettuali fuori dal canone, visionari, né ci sono pazienti tessitori del New Deal – qualunque sia il New Deal che viene promesso – capaci di governare i processi da oscure scrivanie. Ci sono i media che incoraggiano. Le folle che applaudono. Gli elettori che votano. I fedelissimi che aiutano come possono. Ma manca tutto ciò che da’ corpo nel bene e nel male al cambiamento, e cioè la capacità di cooptare le energie migliori cercando l’eccellenza e non la fedeltà, ammettendo una certa dose di eresia e di “irregolarità” nel proporre soluzioni, come da sempre è avvenuto quando la storia ha fatto un balzo in avanti e nuove leve di pensiero e azione hanno sostituito le vecchie.

Così, i grandi leader popolari colgono il successo ma ne vengono immediatamente logorati. In Gran Bretagna, Johnson il Fenomeno deve scappare nelle retrovie. Farage addirittura si ritira a vita privata. In Italia, Renzi trema per un referendum che un mese fa sembrava vinto a tavolino. A Roma, Virginia Raggi è già nei pasticci fino al collo. E ovunque ci si comincia a pentire di non aver fatto prima la più facile delle domande: sì, cambiamo tutto, ma come? E soprattutto, con chi?

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