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8 luglio 2016

L’onda lunga del movimento
di Lorenzo Guadagnucci e Vittorio Agnoletto

Viviamo in uno stato d’ansia e di ingiustizia permanente. La cosiddetta crisi per dura almeno dal 2008 e costituisce ormai una condizione stabile che combina alta disoccupazione, deperimento dello stato sociale, crescita esponenziale delle diseguaglianze. L’Unione Europea rischia l’implosione e appare più una gabbia che lo spazio aperto immaginato dai suoi fondatori. Il mar Mediterraneo sta diventando il cimitero di migliaia di persone e – insieme – la tomba dei valori sui quali si è fondata l’idea di democrazia. Le guerre nel mondo si moltiplicano e intanto dal Bataclan a Istanbul,da Bruxelles a Dacca, la violenza dei gruppi armati jihadisti semina morte e panico.

In apparenza non si intravedono vie d’uscita; sembrano mancare alternative alla “guerra senza quartiere” al terrorismo annunciata dalle varie cancellerie e anche a quel misto di austerità e deregulation che guida le scelte di politica economica compiute dai poteri che contano. Da un lato c’è un eclisse dello stato di diritto, dall’altra si allontana l’orizzonte dell’equità e dell’eguaglianza. Chi denuncia l’autoritarismo crescente viene tacciato di buonismo e stenta a trovare ascolto in un’opinione pubblica allarmata dagli attentati. Le stesse proposte di rilancio di politiche economiche espansive si rivelano incompatibili con le regole europee e non hanno la forza persuasiva di qualche decennio fa, quando i limiti dello sviluppo e la carica distruttiva di un’economia basata sull’incremento di produzione e consumi non erano ancora stati messi bene a fuoco. I cambiamenti climatici conclamati hanno cambiato la scena.

Oltre il ‘900
E tuttavia sappiamo che un’alternativa esiste sempre, per quanto siamo immersi in un sistema mediatico e politico chiuso dentro i recinti del “pensiero unico” neoliberale e della postdemocrazia.
Occorre cercare ancora, abbandonare le strade in apparenza sicure e collaudate del pensiero novecentesco e riprendere il filo di un discorso che abbia lo spessore teorico e pratico all’altezza dei nuovi tempi. Serve anche un lessico diverso, o almeno la ridefinizione di concetti come sviluppo, democrazia, giustizia.
Può esistere, oggi, uno sviluppo che comporti un ulteriore aumento, anziché un calo, dei consumi di materie prime? Un’idea di democrazia nazionale o sovranazionale che escluda chi proviene da fuori, rispetto a determinati confini? O ancora un principio di giustizia in un mondo nel quale un numero ristretto di individui, tendenzialmente l’1% della popolazione globale,concentra ricchezze e potere tali da escludere, controllare e dividere tutti gli altri?

Le buone idee di Porto Alegre e Genova
Un’alternativa esiste e va costruita a partire da quel che c’è e da quel che sappiamo. In questo senso ripensare all’esperienza compiuta circa quindici anni fa, prima e durante le manifestazioni contro il G8 di Genova del luglio 2001, può essere un utile strumento di conoscenza,un contributo alla consapevolezza. Il mondo è cambiato velocemente,forse più in fretta delle nostre stesse capacità cognitive, ma intanto possiamo dire – con amaro realismo – che il “movimento dei movimenti” aveva messo in campo una corretta lettura del presente. Per citare i punti i principali, aveva colto come il nodo delle migrazioni, ossia la negazione della libertà di movimento,fosse una mina vagante in grado di far saltare le nozioni di democrazia e stato di diritto; aveva denunciato il prossimo inceppamento del capitalismo finanziario e la crisi di sovraproduzione alimentata dalla pratica suicida delle delocalizzazioni; aveva indicatol’esplosione del debito pubblico come una minaccia alle singole nazioni e come strumento di controllo a disposizione delle oligarchie finanziarie internazionali; aveva messo a nudo le politiche prevaricatrici messe in atto dal Fondo Monetario e Banca Mondiale nei vari Sud del mondo,politiche oggi applicate dalla Troika alle periferie d’Europa.

La lettura del mondo era corretta: un’intelligenza collettiva stava costruendo,come si disse a Porto Alegre, un’altra idea di mondo possibile. Ma quel movimento è stato sconfitto duramente. Ha subito una grande repressione di piazza, è stato criminalizzato e quindi messo ai margini della scena politica. Le sue idee, alla fine, sono state escluse dal discorso pubblico, col risultato di rendere invisibile la via alternativa che stava tratteggiando (e in buona parte praticando). La sensazione, condivisa da milioni di cittadini italiani ed europei, che non vi siano alternative plausibili al modello neoliberale, è dovuta in buona misura a questa sciagurata operazione di cancellazione di un movimento e delle sue idee. In questo apparente deserto prosperano i movimenti xenofobi e trova terreno d’azione un nazionalismo di ritorno, tanto asfittico quanto pericoloso.

L’eclisse della democrazia
Il percorso immaginato dalle oligarchie oggi dominanti in Europa, a fronte di una crisi che diventa sistema, prevede un’ulteriore concentrazione dei poteri, con finalità di controllo sociale e inibizione preventiva del dibattito e delle potenzialità di cambiamento. Si spiegano in questa logica le riforme istituzionali che nei diversi stati, Italia inclusa, riducono la partecipazione popolare, svuotano il potere legislativo, accentrano le decisioni nelle mani di esecutivi scelti con sistemi elettorali maggioritari. Le costituzioni nate sulla spinta della lotta contro il nazifascismo sono diventate un impiccio e vengono stravolte sulla base di due principali argomenti: la loro inadeguatezza rispetto alle nuove esigenze di velocità ed efficienza legate all’affermazione dell’economia globale neoliberale e l’incombente emergenza terrorismo. La democrazia deperisce, lo stato d’eccezione diventa unaregola. A Genova nel 2001 la sospensione delle garanzie costituzionali fu roboante e prese la forma degli scarponi,dei manganelli e anche delle pistole di migliaia di agenti: era un assaggio di quel che sarebbe venuto. Oggi assistiamo allo spettacolo inquietante di paesi, come la Francia, che proclamano e protraggono trimestre dopo trimestre lo stato d’emergenza; come l’Ungheria, la Serbia,l’Austria, la Slovenia che alzano muri contro i migranti; come la Gran Bretagna,che sceglie la via della chiusura nazionale. Siamo arrivati al punto di stipulare patti scellerati come l’intesa fra Unione Europea e Turchia per il controllo delle migrazioni, al prezzo della negazione dei principi fondamentali che ispirano la stessa dichiarazione universale dei diritti umani.

Gli “Stati d’emergenza”
La prospettiva oggi molto concreta è la definitiva trasformazione delle democrazie occidentali in “stati d’emergenza”. Gli Stati Uniti sono in guerra permanente al terrorismo e il presidente è un “comandante in capo” che può permettersi di quantificare gli “effetti collaterali” – cioè i cittadini innocenti uccisi all’estero con droni e altri sistemi durante i cosiddetti omicidi mirati – senza temere reazioni da parte dell’opinione pubblica.
Nell’Europa dei muri e dei reticolati alle frontiere, si governa con la paura e si sacrificano secoli di civiltà giuridica in un’impossibile e ingiusta lotta alle migrazioni. Si continua a chiamare orwellianamente “pace” la partecipazione a missioni militari passate, presenti e future in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Ucraina, fingendo di non sapere che i conflitti sono alimentati, su tutti i lati dei vari fronti, dal redditizio commercio delle armi.
Siamo consapevoli che qualunque costruzione di “un altro mondo possibile” oggi non può evitare di fare i conti con il terrorismo e il fanatismo religioso; saremmo ingenui e poco credibili se negassimo nell’immediato l’importanza dell’intelligence e di un suo coordinamento tra diversi Paesi come strumento essenziale per la difesa delle nostre comunità. Se non ci facessimo carico della protezione nostra e dei nostri concittadini ci porremmo al di fuori di un sentire comune che aspira innanzitutto alla sicurezza del domani e che vede nel terrorismo una minaccia al proprio futuro.
Ma questo non significa retrocedere nemmeno di un millimetro sulla denuncia delle responsabilità dell’occidente per l’attuale situazione; vi sono responsabilità storiche ed altre recenti. Le varie forme di neocolonialismo che hanno garantito il controllo delle risorse energetiche dopo la decolonizzazione degli anni ’60, gli accordi commerciali capestro che hanno condannato alla miseria intere regioni del pianeta e cooptato ristrette e corrotte élite locali hanno contribuito pesantemente a impedire percorsi autonomi di emancipazione democratica di intere popolazioni e al contempo hanno alimentato un diffuso odio verso l’occidente.
Le alleanze passate e presenti con regimi autoritari, vere e proprie dittature, come nel caso dell’Arabia Saudita, hanno raggiunto il cinismo di ignorare il sostegno che essi forniscono al terrorismo jihadista. Le guerre per “esportare la democrazia”, in corso ormai da un quindicennio, hanno completato l’opera lasciando una prateria a disposizione dei reclutatori della guerra santa e mentre questo avveniva l’occidentea ssisteva indifferente, quando non ne era complice, allo strangolamento delle rivoluzioni arabe.
Se veramente si vuole sconfiggere il terrorismo jihadista, cosa molto differente dall’utilizzarlo per i propri progetti di restrizione della democrazia, è necessario prosciugare il mare nel quale nuota e questo è possibile solo modificando drasticamente le scelte politiche ed economiche globali che determinano la convivenza tra i popoli.

Un nuovo pensiero
Oggi più che mai sarebbe necessario in tutta Europa un forte movimento altermondialista capace di riprendere e rafforzare la visione espressa fra Porto Alegre, Genova e i Forum sociali europei di Firenze e Parigi; un movimento in grado di fare tesoro dell’esperienza compiuta con Occupy Wall Street, dagli Indignados spagnoli, dalla gente scesa in piazza in Turchia e nel mondo arabo prima che si scatenasse la restaurazione. Non è vero che manca una visione alternativa allo stato delle cose esistente; è vero semmai che questa visione è stata sconfitta sul campo, e tuttavia non è stata annientata. Da quelle idee può rinascere un percorso di uscita dalla crisi, a patto di mettere a fuoco qual è la posta in gioco, ossia la proposta di un credibile, diverso modello di sviluppo e di società. Questo non è il tempo delle tattiche di breve periodo; è il tempo delle strategie e dei pensieri lunghi in grado di ispirare le lotte del presente e di indicare la via verso la quale muoversi.

Una svolta culturale
Sappiamo già molte cose. La disoccupazione di massa strutturale – accentuata dalla rivoluzione della robotica – non può essere più affrontata ipotizzando il rilancio delle produzioni (quali?) e dei consumi, ma attraverso la redistribuzione del lavoro (la sensibile riduzione dell’orario di lavoro già ipotizzata da Keynes) e nuove forme di tutela sociale, come il reddito di cittadinanza e modelli mutualistici adeguati ai tempi. La conversione ecologica dell’economia, di cui parlava oltre vent’anni fa Alex Langer, è oggi un’urgenza più che un’ipotesi. L’alta tassazione dei grandi patrimoni, la repressione della finanza speculativa e la cancellazione dei paradisi fiscali non sono utopie o proposte massimaliste, ma l’unica via per recuperare sovranità democratica e spazi realistici di cambiamento. La dispersione dei poteri, anziché la loro concentrazione in poche mani, è un’esigenza vitale, che deve confrontarsi coi processi sovranazionali e con la crisi stessa dell’europeismo.

La cosiddetta emergenza immigrazione (un milioni di migranti corrispondono allo 0,2% della popolazione della Ue) dev’essere affrontata nell’unico modo realistico e giusto, ossia con la creazione di corridoi umanitari che garantiscano viaggi sicuri e con l’apertura delle nostre società alle persone che vengono da fuori alla ricerca di migliori condizioni di vita. Il no alla guerra, con la sua radicalità, può e deve essere affermato con rinnovato rigore. Non stiamo scrivendo a tavolino il programma di un nuovo partito politico, stiamo bensì indicando proposte, elaborazioni, persuasioni che sono il risultato di un ventennio di lotte, studi, esperimenti. E’ un patrimonio che rischia d’essere disperso se non riusciamo a riportarlo nelle piazze, nelle relazioni umane, nel dibattito culturale. L’eclissi del movimento rischia di vanificare sia le nascenti (al momento stentate) proposte della sinistra politica in Italia e altrove, sia gli sforzi compiuti da quelle iniziative politico-elettorali che hanno tratto ispirazione – più o meno direttamente –dall’esperienza compiuta negli anni a cavallo del 2000. E’ la sfida del presente, con radici nel nostro recente passato.

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