Originale: teleSUR English

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5 gennaio 2016

 

Il neoliberismo rialza la sua brutta testa in Sud America

di Jack Rasmus

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Dopo l’11 settembre gli Stati Uniti hanno concentrato la loro politica estera più aggressiva sul Medio Oriente, dall’Afghanistan all’Africa del Nord. Ma l’accordo elaborato di recente con l’Iran, gli attuali negoziati dietro le quinte sulla Siria tra il Segretario di Stato USA John Kerry e il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, e la decisione di sovvenzionare, e ora riesportare, la produzione statunitense di petrolio e gas di scisto in una diretta inversione della passata politica statunitense nei confronti dell’Arabia Saudita, segnalano insieme una relativa svolta della politica statunitense dal Medio Oriente.

Con una fase di consolidamento del Medio Oriente in corso, la politica statunitense e andata ridirigendosi dal 2013-14 agli obiettivi più tradizionali avuti per decenni: primo, controllare e contenere la Cina; secondo, impedire un’integrazione economica più profonda della Russia con l’Europa e, terzo, riaffermare ancora una volta, come in decenni precedenti, un’influenza statunitense più diretta sulle economie e i governi dell’America Latina.

Dopo la sua rielezione nel 2012, Obama ha annunciato quello che è stato definito un “pivot” in Asia per contenere e controllare la crescente influenza economica e politica della Cina. Nel 2013-14 c’è stato il colpo di stato in Ucraina diretto dagli USA, cioè un pretesto per imporre sanzioni alla Russia mirato a tagliare le crescenti relazioni economiche di quel paese con l’Europa. Ma è in corso un’altra svolta della politica statunitense che forse non è così evidente come la nuova concentrazione sulla Cina o la nuova offensiva da “guerra fredda” degli Stati Uniti contro la Russia. E’ la svolta statunitense nei confronti dell’America Latina, iniziata nel 2014, che prende di mira in particolare paesi ed economie chiave dell’America del Sud – Venezuela, Brasile e Argentina – ai fini di una destabilizzazione politica ed economica che è un requisito fondamentale per una reintroduzione di politiche neoliberiste in quella regione.

 

Venezuela: caso esemplare di destabilizzazione

La destabilizzazione economica nella sua fase più recente è in corso in Venezuela dal 2013. Il crollo mondiale dei prezzi del petrolio e delle materie prime, conseguenza in parte dello scontro tra Stati Uniti e sauditi scoppiato nel 2014 riguardo a chi controlla il prezzo globale del petrolio, ha costretto al collasso la moneta venezuelana, il bolivar. L’aumento statunitense dei propri tassi d’interesse l’anno scorso ha intensificato il collasso di tale moneta. Ma il governo statunitense e forze bancarie hanno ulteriormente alimentato le fiamme del collasso della moneta incoraggiando speculatori, operanti dalla Colombia e dal sito web “DollarToday”, ad assumere posizioni “corte” [a vendere – n.d.t.] sul bolivar e a deprimerlo ulteriormente. Media con sede negli Stati Uniti, in particolare l’arciconservatore CATO Institute di Washington, si sono uniti allo sforzo di pubblicare notizie costantemente esagerate sul declino della moneta, fino al 700 per cento, per diffondere il panico tra i venezuelani perché cedano bolivar in cambio di dollari, causando in tal modo un ulteriore crollo della moneta. Contemporaneamente imprese multinazionali in Venezuela continuano a tesaurizzare più di 11 miliardi di dollari, determinando ancor di più l’aumento del dollaro e la caduta del bolivar. La conseguenza di tutte queste forze che contribuiscono al collasso della moneta è un crescente mercato nero del dollaro e una penuria di beni chiave per il consumo e la produzione.

Ma tutto questo è solo l’inizio. Il crollo della divisa determina a sua volta un aumento dei costi delle importazioni e l’inflazione interna e in tale modo la caduta dei redditi reali di piccole aziende e lavoratori. Il mercato nero e la penuria di dollari si traduce nell’impossibilità di importare beni critici, quali farmaci e cibo. Il costo crescente delle importazioni si traduce in mancanza di materiali critici necessari per continuare la produzione, il che determina una caduta della produzione, chiusure di impianti e imprese, e crescente disoccupazione.

Crollo della moneta, inflazione e recessione determinano insieme una fuga di capitali dal paese, che a sua volta esacerba tali crollo, inflazione e recessione. Segue un circolo vizioso del crollo economico generale di cui è attribuita la colpa al governo popolare ma che esso fondamentalmente non ha causato.

Con l’aggravarsi di questo scenario in Venezuela da 2014, gli Stati Uniti hanno aggredito con cause legali la società statale venezuelana del petrolio, Petroleos de Venezuela. Il governo Obama, a marzo 2015, ha anche emesso decreti presidenziali per congelare i beni del governo venezuelano e dei suoi rappresentanti militari, accusati di violazioni dei “diritti umani”. Gli Stati Uniti, poi, hanno recentemente arrestato uomini d’affari venezuelani negli Stati Uniti detenendoli senza cauzione, indubbiamente per trasmettere un messaggio a quelli che potrebbero ancora appoggiare il governo. Il governo statunitense ha anche incriminato il governo venezuelano e suoi dirigenti militari su accuse di asserita complicità nel narcotraffico, compresi generali della Guardia Nazionale che hanno sostenuto il governo Maduro. Tutto questo aumenta presso il pubblico l’impressione di corruzione governativa, facendo riflettere altri aspiranti sostenitori militari e governativi a “pensarci due volte” prima di proseguire nel sostegno e forse a prendere in considerazione il “passaggio” all’opposizione in cambio di un “accordo” di archiviazione delle accuse legali. Cresce l’impressione popolare che la crisi economica, l’inflazione, le penurie, i licenziamenti siano tutti associati alla corruzione, a sua volta associata al governo. E’ una classica strategia statunitense di destabilizzazione.

Mentre avevano luogo in Venezuela tutti gli strappi economici appena citati, fondi sono affluiti a partiti d’opposizione e ai loro politici attraverso innumerevoli canali non ufficiali, mettendoli in grado di assumere il mese scorso il controllo del parlamento. I capi del nuovo parlamento, secondo notizie filtrate ai media, hanno ora piani per ricostruire la Corte Suprema del Venezuela affinché appoggi le loro politiche e avalli legalmente il loro imminente attacco al governo Maduro nel 2016. E’ chiaro che l’obiettivo consiste o nel rimuovere Maduro e il suo governo o nel renderli impossibile governare.

Come ha dichiarato pubblicamente nei giorni scorsi Julio Borges, un possibile prossimo presidente del parlamento: se il governo Maduro non si adegua alle nuove politiche dell’assemblea “dovrà essere cambiato”. Indubbiamente saranno presto all’ordine del giorno in Venezuela procedure di impeachment per cercare di rimuovere Maduro, proprio come accade ora in Brasile. Ma per far ciò occorre cambiare la Corte Suprema del Venezuela, il che la rende il prossimo immediato fronte della battaglia.

 

Argentina e Brasile: messaggeri del neoliberismo a venire

Se la nuova assemblea nazionale venezuelana, filostatunitense, filoindustriale, dovesse prevalere sul governo Maduro, la conseguenza sarebbe economicamente simile a ciò che si sta svolgendo con il governo di Mauricio Macri in Argentina. L’argentino Macri ha già, a pochi giorni dall’assunzione della carica, tagliato le tasse ai grandi coltivatori e produttori, cancellato i controlli valutari e svalutato il peso del 30 per cento, consentito l’aumento del 25 percento dell’inflazione da un giorno all’altro, messo a disposizione di esportatori e speculatori argentini due miliardi di dollari in titoli denominati in dollari , riaperto discussioni con fondi speculativi statunitensi come preludio al pagamento a loro degli interessi in eccesso che il governo Kirchner aveva in precedenza negato, trasmesso a migliaia di dipendenti governativi il preavviso di imminente licenziamento, dichiarato l’intento del nuovo governo di occupare la Corte Suprema affinché metta il timbro sui suoi programmi neoliberisti e assunto iniziative per cancellare la recente legge argentina sui media. E questo è solo l’inizio.

Politicamente la visione neoliberista si tradurrà nel rovesciamento e nella ristrutturazione dell’attuale Corte Suprema, in possibili modifiche dell’attuale Costituzione, in tentativi di rimuovere dalla carica, con vari mezzi, prima della fine del mandato il presidente regolarmente eletto. A parte i piani di occupare la magistratura, come in Argentina, il nuovo parlamento venezuelano controllato dalle imprese copierà probabilmente i suoi reazionari compatrioti di classe del Brasile, e passerà all’incriminazione del presidente del Venezuela, Maduro, e a smantellare il suo governo popolare, proprio come si sta tentando di fare in Brasile con la presidente pure recentemente rieletta di quel paese, Rousseff.

Ciò che accadrà nelle prossime settimane, nel 2016, in Venezuela, Argentina e Brasile è un assaggio dell’intensa guerra di classe economica e politica in Sud America che sta per intensificarsi a un livello più elevato nel 2016.

 


Jack Rasmus è autore dell’analisi dell’economia globale appena pubblicata ‘Systemic Fragility in the Global Economy’ [Fragilità sistemica dell’economia globale], Clarity Press, gennaio 2016, disponibile presso Amazon e all’indirizzo www.ClarityPress.com/Rasmus.html.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

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Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/neoliberalism-raises-its-ugly-head-in-south-america/

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