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Latinoamerica n. 93, n.4, ott/dic 2005

 

Il racconto di Fidel

di Gianni Minà

 

Alla fine di una intervista che ci impegnò per sedici ore, dalle due del pomeriggio di domenica 28 giugno 1987 alle cinque del mattino del lunedì seguente, Fidel Castro paragonò il lavoro da noi svolto a quello di due operai dell’informazione e concluse con ironia: <<Non so se questo è un record mondiale, ma sedici ore filate di dialogo con un giornalista televisivo, per quanto mi riguarda, rappresentano un primato almeno nei Caraibi>>.

 

Non credevo che Fidel mi avrebbe raccontato, con tanta franchezza e intensità, la vicenda di Che Guevara.

Non lo aveva mai fatto con altri giornalisti e penso che questo fosse dovuto, più che a motivi politici, al pudore, e al desiderio di difendere la storia di un'amicizia meravigliosa e tragica e alla volontà di mantenere in contaminata la specialissima vicenda dell 'incontro tra due uomini che avrebbero ispirato per anni le speranze o le utopie di molti di cambiare il mondo, di eliminare ingiustizie e malesseri della società. Forse per questo quei due uomini, le loro idee, sono stati così du. ramente combattuti e si è tentato perfino di mortificare la storia della loro amicizia.

Quanto dice Fidel, in questo capitolo, del suo amico argentino, il Che, è eccezionale, non solo per le rivelazioni sulla vicenda di Guevara in Africa, sul suo ritorno clandestino a Cuba per preparare la spedizione in Bolivia e sulla tragica avventura finale in quel paese, ma anche per la delicatezza del racconto, per l'intimità dei particolari narrati, per la qualità morale dell'amicizia descritta.

Diverse sono state le chiavi di lettura di questa testimonianza, quando è stata proposta in televisione, in Italia e in Europa. Non credo sia mio compito giudicare queste interpretazioni dell’amicizia fra Castro e Guevara e il tono da «fratello maggiore » usato da Castro nel suo ricordo.

lo posso dire soltanto che Fidel mi ha raccontato il Che verso le due di notte, a bassa voce, sforzandosi di ricostruire i fatti, di aprire degli squarci nella propria intimità, di andare oltre i limiti che la sua sensibilità gli aveva sempre imposto.

Altri forse avrebbero posto le domande in modo diverso dal mio. Quello che ho usato mi ha permesso di raccogliere una testimonianza unica, di cui sono grato a Fidel Castro.

 

Gianni Minà: Comandante, lei è un testimone del nostro tempo come ne esistono pochi e l'intervista che abbiamo realizzato fino a questo momento lo dimostra. Ora però vorrei entrare nei suoi ricordi più intimi, i ricordi legati ad alcuni compagni di lotta, in particolare Che Guevara e Camilo Cienfuegos. Il Che rappresenta, in Europa e nel mondo, un simbolo, un sentimento particolare. Ora, quando lei pensa al suo amico il Che, qual è la prima cosa che le viene in mente?

Fidel Castro: Voglio dirti una cosa: ho fatto fatica ad accettare l’idea della morte del Che. Molte volte l’ho sognato e a volte ho raccontato i miei sogni a chi mi stava vicino ... Bene, ho sognato che stavo parlando con lui, che era vivo; qualcosa di molto speciale. E’ difficile ancora adesso accettare l'idea della sua morte. A cosa è dovuto? Secondo me, al fatto che egli è ancora presente in noi.

Morì lontano, a molte miglia di distanza dal nostro paese ma, ripeto, all'idea della morte del Che è stato difficile adattarsi. È successo il contrario di quello che è accaduto con altri amici. Molte volte abbiamo perso dei compagni di lotta e li abbiamo visti morire, ma non ci sono presenti come lo è il Che. Penso che l'impressione della presenza permanente del Che sia dovuta a quello che simboleggiava, al suo carattere, alla sua condotta, ai suoi princìpi. Aveva qualità davvero eccezionali. Io lo conoscevo bene, molto bene. Lo avevo incontrato in Messico e restammo insieme fino al momento in cui se ne andò dal paese per l'ultima volta.

Penso realmente con dolore che con la morte del Che si sia persa una grande intelligenza, un uomo che aveva ancora molto da dare alla teoria e alla pratica della costruzione del socialismo.

Nella lettera che le scrisse prima di andarsene, il Che sembra quasi amareggiato di non aver scoperto prima le sue qualità di leader e di aver fatto trascorrere del tempo prima di riconoscerle completamente.

Be', a cosa può essere dovuto questo? In primo luogo al fatto che il Che era molto silenzioso, non era estroverso, non amava esprimere certe sensazioni. Le cose che sentiva dentro non le diceva. A un certo momento sono apparsi alcuni suoi versi molto fraterni dedicati a me: qualcuno li aveva tirati fuori. Il Che per natura era un po' scettico riguardo all'America Latina, ai politici latinoamericani, magari avrà pensato che la nostra rivoluzione avrebbe potuto finire come tante altre. Però in realtà mai mi ha dato l'impressione che avesse dei dubbi, è sempre stato straordinariamente fraterno e rispettoso nei miei confronti. Può aver avuto un po' di diffidenza nei riguardi del movimento. Può aver pensato magari che il nostro movimento fosse troppo eterogeneo, formato da gente proveniente da mondi troppo diversi. Lui invece aveva già una buona preparazione rivoluzionaria, una buona formazione marxista ed era molto studioso. Si era laureato in medicina, faceva delle ricerche, era molto rigoroso nello studio del marxismo e forse anche per questo era un po' scettico. Io credo che se ha scritto quello che ha scritto su di me è stato per un eccesso di onestà. E’ vero, ho dovuto coordinare molte realtà e accrescere la compattezza del gruppo, vincendo le riserve che c'erano in alcuni compagni verso altri. Ho dovuto avere pazienza con loro. Lo stesso Che era molto impulsivo, molto coraggioso e audace, a volte temerario. Per lui ho sempre avuto una considerazione speciale. In molte occasioni si era offerto volontario. Per qualsiasi missione il primo a offrirsi era il Che; si offriva per le azioni più difficili. Spesso le proponeva lui stesso. Era insomma di una generosità e di un altruismo totali. Cuba non era la sua patria, ma si era unito a noi e tutti i giorni era disposto a dare la vita per la rivoluzione. Io impiegavo i comandanti a seconda dell'importanza. Quando un comandante acquisiva meriti ed esperienza, ne promuovevo altri, in modo che imparassero e crescessero. Non si può esporre continuamente un capo in azioni pericolose; prima o poi rischi di perderlo. E noi abbiamo dovuto proteggere molto i comandanti, frenare le loro iniziative. lo mi sono assunto il compito di proteggerli, per quanto possibile, e di impiegarli nelle missioni più importanti. Alternavo gli uomini che partecipavano ad azioni pericolose. Credo che senza questa politica il Che non avrebbe terminato vivo la guerra, proprio per le caratteristiche che aveva. Era anche una persona molto onesta. Se aveva dei dubbi si sentiva obbligato a dirlo, in un modo o nell'altro. Questo era il suo modo di essere.

È incredibile: la rivoluzione cubana riunì un intellettuale come il Che, un intellettuale come lei e un uomo semplice come Camilo Cienfuegos. Diverse le radici, diversa la formazione culturale, ma la rivoluzione vi unì e vi fece vivere insieme. C'era evidentemente un sogno comune.

Tre persone di origini diverse, con distinte caratteristiche. La cosa straordinaria era che il Che non era cubano, ma argentino. Quando lo incontrai in Messico veniva dal Guatemala dove aveva fatto il medico ed era entusiasta del processo politico che si sviluppava in quel paese attraverso la riforma agraria. Era stato testimone dell' intervento nordamericano e ne aveva molto sofferto. Portava queste sofferenze dentro, e si unì subito a noi, come egli stesso ha raccontato. Fin dal primo incontro fu dei nostri. Certo, lui pensava a una rivoluzione antimperialista, di liberazione nazionale, non a una rivoluzione socialista, che vedeva ancora un po' lontana, però si unì a noi senza riserve. Era uno sportivo. Quasi tutte le settimane cercava di scalare il Popocatépetl, non arrivava mai in cima, però tutte le settimane ci provava. Soffriva d'asma, e seguiva un'alimentazione particolare, eppure faceva uno sforzo eroico per scalare questo vulcano. Malgrado non sia mai arrivato in cima, non smise di tentare. Questo era un altro aspetto del suo carattere. D'altronde il Che era per noi il medico; nessuno vedeva in lui il grande soldato. Camilo era un uomo del popolo e anche nel suo caso nessuno all'inizio poteva supporne le qualità; in seguito però si distinse molto. E sono sicuro che lo stesso sarebbe potuto succedere a altri; in seguito ho capito che, nel nostro gruppo di ottantadue uomini, ce n'erano almeno quaranta in grado di diventare comandanti. Alcuni dei pochi sopravvissuti hanno dimostrato qualità di veri capi, per esempio Camlo, il Che e altri, fra i quali uno di cui si parla poco, mio fratello Raúl.

Quanto era differente Camilo Cienfuegos da Che Guevara?

Erano due caratteri differenti, ma si volevano bene e si rispettavano molto. Camilo era un battutista, aveva sempre voglia di scherzare.

Un vero cubano ...

Sì, aveva humour cubano, rideva sempre. Molto audace, molto intelligente, meno intellettuale del Che, però un eccellente comandante anche lui. Non concedeva vie di scampo al nemico. Era molto coraggioso, ma non era temerario come il Che. Il Che sembrava un uomo che andasse incontro alla morte. Anche Camilo la sfidava, non aveva paura, però non agiva con temerarietà. Queste le differenze tra di loro. Comunque si volevano molto bene.

E suo fratello Raúl?

Un altro comandante di cui non si è parlato abbastanza è Raúl. È capace, responsabile e brillante e anche lui ha avuto un ruolo di primo piano. Dal gruppo dei sopravvissuti sono usciti, l 'ho già detto, ottimi capi e per questo penso che. se non avessimo avuto tante perdite nelle azioni iniziali, ci sarebbero stati nel nostro gruppo  molti giovani (almeno quindici o venti) in grado di diventare comandanti. Perché quello che serve a un uomo, per distinguersi, è l'occasione e la responsabilità.

Comandante, vent'anni fa il Che lasciò Cuba e andò a lottare in Bolivia. Può dirci dov'è stato dal momento della sua partenza fino all 'arrivo in Bolivia?

Il Che voleva andare in Sudamerica. Era una sua vecchia idea. Quando si unì a noi in Messico pose una sola condizione: “L 'unica cosa che vorrò quando la Rivoluzione.avrà trionfato. sarà di potermene andare a lottare in Argentina e che non mi si limiti questa possibilità, cioè che ragioni di stato non me lo impediscano”. lo glielo promisi. Questa allora era un'eventualità molto lontana. Nessuno sapeva, innanzitutto, se avremmo vinto la guerra e chi sarebbe rimasto vivo. Lui certo aveva poche possibilità, impetuoso com'era. Però volle questa promessa. In alcune occasioni me la ricordò. Anche nella Sierra tornò a ribadire quell'idea e quella promessa. E, diciamo, in questo mostrò di saper prevedere il futuro. Dopo l'esperienza della Sierra Maestra, il suo entusiasmo all'idea di portare la Rivoluzione nel suo paese si moltiplicò. L'esito vittorioso della nostra lotta sviluppò in lui una grande fede nelle possibilità del movimento rivoluzionario in Sudamerica. E quando dico Sudamerica sto pensando alla parte sud del Sudamerica. Questo impegno fra noi è stato sempre vivo, tanto che io gli ripetevo: «Non ti preoccupare. Il nostro patto sarà rispettato». Credo che me lo abbia rammentato due o tre volte. Al momento del trionfo c'erano da affrontare problemi di tutti i generi, politici, di unione di forze, relativi allo stato, all'economia, eccetera. Il Che aveva cominciato a distinguersi fin dai primi combattimenti e aveva finito col diventare un importante capo militare. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quel medico fosse un così buon soldato. Tanto lui quanto Camilo avevano svolto ruoli di grande rilievo nella guerra, specie nell'invasione del centro dell'isola, in condizioni molto difficili. Su questo si potrebbe parlare molto più a lungo, però non in questo momento ...

Dovevamo dunque affrontare i problemi di una rivoluzione vittoriosa in una situazione nella quale nulla rimaneva del vecchio stato, né delle forze armate, né dell'apparato amministrativo. Molte erano le organizzazioni rivoluzionarie che avevano l'appoggio della popolazione. La nostra era quella con il maggior peso. Utilizzammo il nostro prestigio per tentare di unirle tutte. Ho sempre combattuto il settarismo. Camilo partecipò a tutto questo processo, almeno sino alla sua morte prematura, avvenuta in ottobre a causa degli eventi di Camaguey, opera di Huber Matos.

Più tardi al Che venne affidata la responsabilità del ministero dell'Industria. Lavorò con metodo. Ricoprì successivamente varie cariche. Ogni volta che serviva un uomo serio per un incarico importante, il Che si dichiarava disponibile. Era stato, in precedenza, nominato direttore della Banca Nazionale quando i tecnici (specialisti di banca, ma inaffidabili politicamente) se ne erano andati dal paese. Nacquero storielle, aneddoti. Si cercava un  economista e il Che si era offerto. Allora qualcuno gli aveva chiesto: «Tu sei economista?» e il Che aveva risposto: «No, io sono comunista». Era una delle barzellette che circolavano allora. Stavano esplodendo i contrasti nel paese e gli elementi di destra accusavano il Che di comunismo e di tutte le solite cose.

Il Che però godette sempre di grande autorità. Svolse ciascuno dei compiti affidatigli con rigore e in modo brillante. Lavorò molto, fece esperienze nel campo dell'industria nazionalizzata, dell' organizzazione, del controllo della produzione, del lavoro volontario. Fu uno dei pionieri del lavoro volontario. Si impegnò in quasi tutti i settori. Era molto coerente in tutto quello che faceva e costituiva un esempio per gli altri.

Così passò i primi anni della Rivoluzione; poi evidentemente cominciò a sentire l'impazienza di portare a compimento i suoi vecchi piani e le sue vecchie idee. Credo che abbia influito anche la coscienza del tempo che passava. Egli sapeva che erano necessarie speciali condizioni fisiche per i suoi progetti. Si sentiva ancora in grado di attuarli; in effetti era nel pieno delle sue capacità mentali e fisiche. Aveva molte idee, frutto dell' esperienza che aveva fatto a Cuba, su quanto riteneva si dovesse fare nel suo paese. Stava pensando alla sua patria, però non solo: aveva in mente l'America in generale, l'America del Sud.

Cominciò a essere impaziente, come ho già detto. Sapendo, per esperienza personale, che le fasi iniziali di un progetto come quello del Che sono le più difficili, ero dell'opinione che bisognasse creare le condizioni migliori. Gli chiedemmo quindi di non essere impaziente, perché ci voleva del tempo. Ma lui voleva fare tutto fin dal primo giorno; noi invece avremmo voluto che altri compagni, meno conosciuti, realizzassero gli indispensabili passi iniziali.

Il Che era anche molto interessato ai problemi internazionali, ai problemi dell'Africa. In quell'epoca c'era stato l'intervento mercenario nel Congo, l'attuale Zaire, la morte di Lumumba e il resto, cioè il regime neocoloniale. C'era un movimento di lotta armata, nello Zaire. Quel movimento ci chiese di inviare istruttori e unità combattenti per una missione internazionalista. Questo sinora non l'avevamo mai reso pubblico.

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