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14 febbraio 2016

 

Assalire gli inferni

di Carlos Taibo

tradotto da Nora Rodriguez

 

Per cambiare il mondo non possiamo più limitarci a difendere la democrazia. Serve una trasformazione radicale delle nostre società. Si tratta di decrescere, de-urbanizzare, de-tecnologizzare, de-patriarcalizzare, de-complessizzare

 

“Prendere il potere o costruire la società dal basso? Un manuale per assalire gli inferni”, di Carlos Taibo, è un libro di cui c’era proprio bisogno. Se è vero che viviamo tempi di orrore è anche vero che in tutto il mondo donne e uomini sperimentano strade diverse dall’opzione dalla democrazia rappresentativa per resistere e cambiare il mondo. L’autogestione si nutre di molte azioni diverse: secondo lo scrittore e docente universitario spagnolo si tratta di decrescere, de-urbanizzare, de-tecnologizzare, de-patriarcalizzare, de-complessizzare, sfide che ci obbligano prima di tutto “a difendere processi destituenti, e non processi costituenti”

 

Quando difendiamo la democrazia diretta spesso riceviamo una risposta del tipo: “bella storia la democrazia diretta! Ma purtroppo in società complesse come le nostre diventa letteralmente una proposta di applicazione impraticabile”. Quando sbatto contro questa risposta mi sento sempre nell’obbligo di spiegare che il nostro progetto non può limitarsi alla difesa della democrazia diretta. Anzi, quello che sollecitiamo è una trasformazione radicale delle nostre società con l’obiettivo (nella sua espressione più alta) di permettere che la democrazia diretta permei tutti gli ambiti della vita.

Se poi qualcuno con vocazione pedagogica mi invitasse a fotografare il senso profondo di quella trasformazione alla quale richiamo, utilizzerei cinque verbi: decrescere, de-urbanizzare, de-tecnologizzare, de-patriarcalizzare, de-complessizzare le nostre società. Certamente se ne potrebbero aggiungere altri. Ad esempio, potrei parlare della urgenza di demilitarizzare le relazioni o della necessità imperiosa di portare in primo piano i diritti di tutte le specie con le quali condividiamo il pianeta.

Nell’opulento Nord dobbiamo in primo luogo decrescere, perché se viviamo – come viviamo – in un luogo, il pianeta Terra, con delle risorse limitate, non risulta molto sensato voler continuare a crescere illimitatamente, sopratutto quando è evidente che abbiamo superato da molto le possibilità ambientali e le risorse offerte. Se ad esempio pensiamo che al presente la impronta ecologica spagnola è di 3,5, cosa ci dice questa cifra? Significa che in Spagna per mantenere le attività economiche attualmente esistenti abbiamo bisogno di niente altro che tre volte e mezzo il territorio spagnolo. Quale soluzione sbagliata troviamo per questo ingente problema? Attraverso una pressione inaudita sui i diritti dei componenti delle future generazioni, e anche per mezzo di una altrettanto inaudita pressione sui diritti di gran parte degli abitanti dei paesi del Sud del mondo.

In questo scenario, la proposta di decrescita ci dice che nel Nord ricco siamo inesorabilmente obbligati a ridurre i nostri livelli di produzione e di consumo. Inoltre ci dice che dobbiamo introdurre principi e valori che oggi evidentemente mancano. Così dobbiamo recuperare la vita sociale che abbiamo poco a poco dilapidato, talmente occupati dalla logica della produzione, del consumo e della competitività. Dobbiamo scommettere su formule di ozio ricreativo in contrapposizione all’ozio mercificato, sempre vincolato ai soldi, offertoci ovunque. Dobbiamo spartire il lavoro-i lavori – anche quello domestico che pesantemente ricade in maggioranza sulle donne (di divisione sessuale del lavoro e di modello di sviluppo ragiona Lea Melandri in I talenti delle donne e il Pil) – vecchia richiesta sindacale che è andata sparendo con il tempo. Dobbiamo ridurre le dimensioni di molte delle infrastrutture amministrative, produttive e di trasporto che utilizziamo oggi. Dobbiamo recuperare la vita locale, di fronte alla condizione depredatrice della globalizzazione, in uno scenario di ritrovate forme di autogestione e di democrazia diretta. Dobbiamo mostrare, insomma, nell’ambito individuale il nostro impegno con la causa della sobrietà e della semplicità volontaria. Nessuno dei principi e valori che ho appena citato ci mette fuori dal mondo: fanno parte delle pratiche storiche del movimento operaio da sempre, si svelano ancora una volta attraverso il lavoro di cura, mantengono un legame stretto con molti degli elementi di saggezza popolare dei nostri vecchi contadini, e infine si intrecciano con gran parte delle percezioni che guidano la vita quotidiana di tanti abitanti del sud del mondo che insistiamo nel presentare come primitivi e arretrati.

 

Risulterà più semplice spiegare il significato del secondo verbo “sfoderato”: deurbanizzare. Come ben sappiamo, qualche decade fa i nostri nonni e bisnonni decisero di lasciare i paesini dove abitavano per cercare l’orizzonte più confortevole – almeno sulla carta – che le città offrivano. Oggi stiamo assistendo a un incipiente processo inverso: gli ambienti urbani ci risultano sempre di più ostili e inabitabili, così poco a poco sta crescendo il numero di persone che cercano altri orizzonti. Questo atteggiamento è evidente nel caso di quelli che – consapevoli del rischio derivante di un collasso integrale del sistema – sono arrivati alla conclusione che alcune possibili risposte al problema passano, come suggerito prima, dal recupero di molti elementi della saggezza popolare, e di molte pratiche di solidarietà e vita quotidiana, relazionate con il mondo rurale. Ma nel frattempo, inesorabilmente si deve affrontare una franca discussione sul futuro delle nostre città, manifestamente insostenibili. Io non so, scusatemi la battuta, se guardando al messaggio trasmesso dallo slogan di alcuni liste per le elezioni amministrative, “Ganemos”, cioè “Vinciamo”, non sarebbe più intelligente riconvertirlo al contrario: “Perdiamo”. O cominciamo a pensare seriamente a quello che dobbiamo fare per iniziare a svuotare molti dei mastodonti urbani da noi creati o questi finiranno senza sconti di pena con noi, come ormai lo stanno facendo.

In terzo luogo ho parlato della convenienza di de-tecnologizzare le nostre società. Ammetto che il verbo utilizzato è un po’ provocatorio. Se dovessi formulare l’argomento in modo più misurato, mi limiterei a suggerire che siamo obbligati a considerare criticamente quale è la dimensione emancipatrice di molte – di tutte – delle tecnologie che il sistema ci ha consegnato in forma apparentemente generosa, col rischio di scoprire che sono molto meno lusinghiere di quello che a prima lettura appaiono. John Zerzan è il pensatore che ha messo le basi a quello che conosciamo come anarcoprimitivismo, e anche riconoscendo che sicuramente è un pensatore smisurato, ho la impressione che solo i pensatori smisurati sono realmente interessanti. Zerzan vede che tutte le tecnologie generate dal capitalismo si portano dietro la impronta della divisione del lavoro, della gerarchia e dello sfruttamento. È una tesi seria che merita di essere considerata, anche sapendo che – sparando così in alto – si rischiano conseguenze in certa misura paralizzanti. Comunque, colgo quello che è evidente: faremo bene a proteggerci di fronte alla tecnofilia che ci insegue ovunque, e che preferisce ignorare la doppiezza di molte delle tecnologie che usiamo. Mi limito al riguardo a proporre un esempio sempliciotto che rimanda all’uso sociale di alcune tecnologie di comunicazione: quello che offre facebook e le illusioni ottiche che lo accompagnano. C’è chi pensa, ad esempio, che avere cinque mila amici in Fb sia un efficiente segno di ricchezza nella nostra vita sociale; anche se sappiamo che con molta probabilità alla maggior parte di quegli amici non li conosceremo mai. Ovviando a questo, è probabile che rientrando di sera a casa accendiamo il computer, entriamo in Fb e finiamo per pensare che stiamo vivendo in un paese nel quale è in atto una rivoluzione. Purtroppo ho paura che la realtà presto arriverà in nostro soccorso per ricordarci che non è opportuno confondere quello che pubblicano i nostri amici con quello che succede nel resto del paese. Al di là di questo, mi sembra che siamo costretti a concludere che le tecnologie, come spesso viene suggerito, non sono neutre pertanto non è vero che il suo impiego, ragionevole o meno, dipenda soltanto da chi le dirige. A prescindere da ciò, dobbiamo interrogarci sempre sulla sua dimensione sociale e ecologica, evitando il rischio di finire nella difesa di dispositivi e formule che discriminano alcuni favorendo altri o che ignorano completamente i diritti delle generazioni future e degli appartenenti alle altre specie che condividono la Terra con noi.

 

In quarto luogo, è urgente lavorare in modo snodato per una attiva de-patriarcalizzazione delle nostre società. In una successiva epigrafe difenderò – ancora – la gestazione di spazi autonomi e de-mercificati (su questo tema, dello stesso autore è possibile leggere anche Perché abbiamo bisogno di spazi autonomi ndr). È opportuno che ricordi che quegli spazi esistono già e che di fatto sono avanzati sensibilmente nel cammino della autogestione e della de-mercantilizzazione di tutte le relazioni. Anche se mi piacerebbe molto poter aggiungere che lo hanno fatto pure nell’ambito della de-patriarcalizzazione, ma purtroppo generalmente non è così; in certe occasioni le relazioni patriarcali di sempre ci sopravvivono infelicemente incolumi. E sicuramente questo non ci sorprende molto. Frequentemente mi sono lasciato trasportare dalla tentazione di suggerire che una fondamentale differenza tra la visione del mondo libertaria e di quella che con leggerezza chiamo la sinistra tradizionale, rimanda al cuore di questo argomento. Agli occhi della sinistra tradizionale il problema principale si riassume in forma semplice: qui ci siamo noi e li c’è il sistema che vogliamo abbattere; quello che dobbiamo dimostrare è che siamo più numerosi e più forti di quel sistema. Sebbene la posizione libertaria sia simile, aggiunge però un elemento importante che, bene o male, ci dice: qui ci siamo noi, sì, e li c’è il sistema che vogliamo abbattere; dobbiamo certamente dimostrare che siamo più numerosi e più forti di quel sistema, ma non dobbiamo mai dimenticare che ne siamo parte indelebile, che – per dirlo meglio – siamo il sistema, e in conseguenza purtroppo il nostro comportamento è frequentemente influenzato da quello a cui intendiamo opporci. Sarà difficile arrivare a cambiare qualcosa se non siamo consapevoli di quello che comporta questa affermazione.

Quindi, in questo terreno non dovrebbe sorprendere che la logica della società patriarcale sopravviva incolume in molte delle manifestazioni dei movimenti che sulla carta desiderano liberarsene in maniera urgente e radicale. Infine, lo sfondo risulta poco lusinghiero e obbliga a diffidare del criterio di chi, in sintonia con quello che spesso diffonde il femminismo istituzionalizzato, considera che i molteplici problemi delle donne fortunatamente stanno trovando risoluzione. Davanti a questo occorre ricordare i dati recenti per i quali la emarginazione storica che tanto nell’ambito materiale quanto simbolico continua a subire la maggioranza delle donne. Sebbene il dato raccoglie solo una parte della realtà, sicuramente più complessa e plurale, non è superfluo aggiungere che il 70 per cento dei poveri del pianeta oggi sono donne, cifra che obbliga a richiamare il peso di quello che a suo tempo venne chiamato “femminilizzazione della povertà”. Guardate bene il significato della percentuale dichiarata: non si parla di un 52 per cento di donne povere in confronto con un 48 per cento di uomini. Stiamo parlando piuttosto alla distanza abissale che separa un 70 da un 30 per cento.

Voglio chiudere riferendomi alla necessità imperiosa di de-complessizzare le nostre società. Abbiamo dovuto accettare società sempre più complesse, con un correlativo molto complicato: siamo sempre più dipendenti. Ramón Fernández Durán, mio caro amico, morì in Madrid nel mese di maggio del 2011, pochi giorni prima che accadesse il 15-M. Nei suoi ultimi scritti gli piaceva ripetere, con insistenza, un’idea suggestiva: che molti dei diseredati del pianeta, abitanti dei paesi del sud del mondo, si trovano sicuramente in una posizione migliore di noi per fare fronte al collasso che si avvicina. Basta ricordare che vivono in piccole comunità umane, hanno conservato una vita sociale più ricca della nostra, hanno preservato un rapporto più fluido con l’ambiente naturale, e infine sono paradossalmente molto più indipendenti di quanto lo siamo noi. Immaginiamo quello che potrebbe succedere, in un posto come questo dove siamo adesso, nel caso che non arrivassero più i rifornimenti di petrolio: tutto questo crollerebbe, letteralmente, dal mattino alla sera. Per questo sembra ragionevole esaminare attentamente cosa dobbiamo fare per mettere in atto una progressiva de-complessizzazione delle nostre società, che in una delle sue principali dimensioni richiede una attiva decentralizzazione verso comunità politiche di dimensioni minori. Ovviamente esige anche una sfida parallela per la dissoluzione del potere. Sfida che, a mio parere, ci obbliga a difendere processi destituenti, e non processi costituenti.


Carlos Taibo, scrittore e docente a Madrid, è uno dei più noti teorici e sostenitori del movimento della decrescita in Spagna. Le sue tesi sono «orgogliosamente anti-capitaliste», anti-patriarcali e internazionaliste. L’articolo di questa pagina – tradotto per Comune da Nora Rodriguez – è tratto dall’ultimo libro di Carlos Taibo, “Prendere il potere o costruire la società dal basso? Un manuale per assalire gli inferni” (“¿Tomar el poder o construir la sociedad desde abajo? Un manual para asaltar los infiernos” al momento edito solo in spagnolo, da Catarata).

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