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3 ottobre 2016

 

Referendum sui migranti, manca il quorum. Orban: «Vado avanti lo stesso»

di Monica Perosino

 

«Siamo orgogliosi di questo risultato. Dimostra che il diritto di decidere spetta a Budapest, non a Bruxelles, da oggi la nostra voce è più forte». Il premier ungherese Orban sorride a denti stretti, l’affluenza è lontana dal trionfo plebiscitario dato per certo dopo una durissima campagna durata 18 mesi e cominciata con l’annuncio della costruzione del muro al confine con la Serbia per fermare l’«invasione» e chiudere la rotta balcanica.

L’Ungheria è stato il primo Paese europeo a dire «no» ai migranti «e altri ne seguiranno», dice il premier, riferendosi agli alleati dell’Europa centrale (la Polonia in prima fila) e ai movimenti nazionalisti e populisti che ambirebbe a condurre verso uno scontro contro «le decisioni imposte da Bruxelles. Siamo orgogliosi di essere stati i primi».

Il premier ungherese aveva deciso di votare di prima mattina. Alle 8,30, quando l’affluenza era inchiodata al 7,25%, al seggio della scuola elementare Zugliget, a Budapest: «Questo referendum è cruciale, sia per l’Ungheria che per l’Europa», aveva detto. Ma proclami politici a parte i dati dell’affluenza parlano chiaro: il referendum per dire no alle quote di ripartizione dei migranti chieste dalla Ue è stato un fallimento. Al quartier generale di Fidesz, nel modernissimo centro Balna, proprio a ridosso del Danubio, i deputati arrivano senza esultare, controllano preoccupati i numeri che scorrono implacabili sulla tv di Stato. Orban si è portato qualche decina di sostenitori, per il resto solo poliziotti in borghese piazzati a ogni angolo.

Di fatto è stato espresso un verdetto senza appello: il referendum, con il 43,4% dei voti (di cui solo il 39,86% valido), non ha raggiunto il quorum. Sebbene il portavoce del governo Zoltan Kovacs esulti per i 2,3 milioni di persone che hanno detto no a «migranti e insicurezza», nel «più partecipato referendum dal 1999», non sfugge che altri sei milioni di ungheresi abbiano boicottato – come chiesto dalle forze di opposizione – la consultazione. Neanche nelle contee a ridosso del muro, sulla rotta balcanica, quelle più colpite dagli ingressi di massa della scorsa estate, hanno regalato ai sindaci di risultati per cui festeggiare. In nessun distretto di frontiera si sarebbe superato il 35% di voti.

«Come al solito», dice il portavoce del governo, «guardate il dito e non la luna». Il referendum «è stato una vittoria». Certo, precisa, «una vittoria per la democrazia» perché per Orban non lo può dire, e aggiunge: «Il messaggio arriverà a Bruxelles in modo chiaro, il 98% degli ungheresi ha detto no alle quote». «Da oggi le cose cambieranno, andiamo avanti», insiste Orban. Le dichiarazioni del premier fanno capire in che direzione cambieranno le cose con un risultato «che ha rafforzato il governo – dice il portavoce Kovacs – e il mandato che il popolo gli ha affidato». E cioè nessun passo indietro sui migranti, anzi. Al quartier generale di Fidesz il fantasma della Brexit viene evocato come lezione ed esempio: «Specialmente dopo il voto inglese l’Europa ora sarà costretta ad ascoltare la voce di 3 milioni di ungheresi».

L’esecutivo di Budapest userà il risultato come un via libera alla propria politica sull’immigrazione, fatta di filo spinato e mano pesante. «Questo referendum non è senz’altro la fine della storia, ma solo l’inizio di una nuova fase. Se la consultazione non potrà avere conseguenze legislative ne avrà – e di molto pesanti – di politiche», dicono i deputati alla stampa straniera. E quanti ipotizzavano una distensione nei rapporti tra Budapest e Unione sembra verranno delusi: «Perché dovremmo cambiare?», rilancia Kovacs, ricordando le azioni di violenza che, dice, «ogni giorno vengono messe a segno da migranti in tutta l’Europa occidentale».

E dando ancora una volta per scontata l’equazione profughi-terroristi: «D’altronde non erano immigrati quello degli attacchi di Parigi?». L’atteggiamento di Budapest rimarrà quello di sempre, insomma, quello della «legalità» fatta rispettare a tutti i costi, delle leggi che prevedono il carcere per chi attraversa clandestinamente il confine, dei permessi di soggiorno dati con il contagocce (500 in un anno) e la demonizzazione dello straniero «che mina la sicurezza». Nessuno ride, quando viene ricordato lo slogan, ironico. del partito d’opposizione Cane a due code: «In Ungheria ci sono talmente pochi migranti che è più facile che un ungherese veda un Ufo».

Intanto, ieri sera, Gabor Vona, leader del partito estremista di destra Jobbik, ha detto che ora il premier deve dimettersi «come ha fatto il premier britannico Cameron dopo la Brexit». Orban pensa invece al secondo mandato e ribadisce: «Avanti così».

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