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02 ottobre 2016

 

Usa, Black lives matter. Che succede agli afroamericani?

di Antonello Zecca

 

Carnell Snell Jr, 18 anni, ucciso dalla polizia a Los Angeles. Nuova notte di proteste della comunità afroamericana. Una vera e propria mattanza perpetrata dalla polizia.

 

Ancora proteste negli Stati Uniti per l’uccisione di un altro afroamericano da parte della polizia la scorsa notte a Los Angeles. L’episodio è iniziato con l’inseguimento di un’auto che gli agenti ritenevano fosse stata rubata: il conducente non si è fermato e si è dato alla fuga. Ad un certo punto l’auto si è bloccata e un uomo ne è uscito fuggendo ed andandosi a nascondere sul retro di una casa. Lì è stato raggiunto dagli agenti che lo hanno ucciso. Pesante l’accusa di Black Lives Matter di Los Angeles: il 18enne Carnell Snell Jr è stato ucciso mentre teneva le mani in alto, ha denunciato con un tweet il movimento nato sui social media come hashtag dopo l’assoluzione del vigilante George Zimmerman, responsabile dell’uccisione di un altro ragazzo nero, Trayvon Martin.

Carnell Snell Jr, ricordiamocelo, questo nome. E poi Keith Lamont Scott, Ernest Satterwhite, Dontre Hamilton, Eric Garner, John Crawford III, Michael Brown, Levar Jones, Tamir Rice, Rumain Brisbon, Charly “Africa” Leundeu Keunang, Naeschylus Vinzant, Tony Robinson, Anthony Hill, Walter Scott.

È solo la punta dell’iceberg di una vera e propria mattanza perpetrata dalla polizia negli Stati Uniti, una mattanza che pare non avere fine, e anzi si intensifica ogni anno di più. Nel solo 2016 sono state uccise almeno 214 persone nere, seguendo la scia di un 2015 ancora più sanguinoso: 346 neri ammazzati. E ancora, il tasso di morti violente della popolazione nera per mano della polizia è più o meno costante dal 2013 (considerando solo gli ultimi tre anni), e tutte le statistiche mostrano dati inequivocabili: un nero ha tre volte la probabilità di essere ucciso dalla polizia che un bianco; il 30% delle vittime nere nel 2015 era disarmato rispetto al 19% delle vittime bianche; meno di un terzo dei neri assassinati dalla polizia nel 2016 era sospettato di un qualche tipo di crimine; nel 2014 in diciassette grandi città statunitensi la polizia ha ucciso cittadini neri ad un tasso superiore della percentuale generale di omicidi in quelle stesse città, e nel 97% dei casi nessun agente ha ricevuto alcun tipo di incriminazione.

Da questo schizzo pur disomogeneo emerge chiaramente la particolare “attenzione” di cui gode la popolazione nera (ma anche i bianchi poveri, come vedremo) presso tutti i dipartimenti di polizia del Paese, e che riflette una situazione di sostanziale subalternità politica, sociale ed economica strutturale degli afroamericani.

Mentre scriviamo, è il quinto giorno della rivolta di Charlotte, North Carolina, seguita all’omicidio di Scott, in cui centinaia e centinaia di manifestanti hanno invaso il centro città protestando contro la totale impunità della polizia. Una rivolta rabbiosa, che ha costretto il governatore dello Stato a decretare lo stato di emergenza nel tentativo di contenere la straripante indignazione per l’ennesimo omicidio di Stato. Nella seconda notte di scontri, un manifestante è stato colpito da un proiettile esploso dalla polizia, morendo poco dopo.  Al momento le manifestazioni proseguono e non è chiaro lo sviluppo che la situazione potrà prendere.

È tuttavia certo un fatto: il movimento Black Lives Matter (BLM), che qualcuno sperava potesse lentamente affievolirsi o arrendersi velocemente alla “ragionevolezza”, prosegue invece la sua marcia. Fondato da tre donne, Alicia Garza, Opal Tomezi e Patrisse Cullors, in seguito all’assassinio di Treyvor Martin nel 2012, il movimento è la prima risposta di massa della popolazione nera al razzismo e all’oppressione sistematica sofferti dagli afroamericani negli Stati Uniti dopo la fine dei grandi movimenti degli anni ’60, ’70 e gli inizi degli ’80.

Sebbene si ponga in ideale continuità con questi ultimi, BLM ha naturalmente caratteristiche peculiari al momento storico in cui è nato. A differenza dei suoi illustri predecessori, il contesto in cui si muove non può che essere profondamente influenzato da due fattori decisivi: la controrivoluzione neoliberista, di cui gli USA di Reagan furono capostipite insieme alla Gran Bretagna della Thatcher, e il consolidamento di un’ élite afroamericana assurta a ruoli di comando sia nella politica, che nella società e negli affari.

Questi due processi hanno segnato il passaggio da una fase di aperta discriminazione razziale e di segregazione, fondata prevalentemente su elementi naturalistici, ad una fase “post-razziale”, in cui l’inferiorità sociale degli afroamericani ha passato ad essere rappresentata ideologicamente con argomentazioni culturaliste e psicologistiche. Non che questi elementi fossero completamente assenti dalla prima fase ma sono assurti a motivazione dominante della discriminazione razziale in seguito all’emarginazione del razzismo tradizionale all’estrema periferia del discorso politico mainstream e all’affermazione ideologica del post-modernismo.

In maniera apparentemente paradossale, il razzismo di nuovo tipo è stato favorito dalla crescita del movimento per i diritti civili degli afroamericani che nel corso degli anni Sessanta e Settanta aveva consentito la crescita politica di leader neri che, principalmente nelle fila del Partito Democratico e grazie alle pressioni del movimento del tempo, cominciarono ad assurgere a cariche elettive a livello municipale e a ruoli di primo piano nella cosiddetta comunità degli affari.

Una volta consolidate queste acquisizioni, e in contemporanea con le controriforme liberiste all’opera sin dagli inizi degli anni Ottanta, cominciarono però ad essere visibili segnali di una tendenza che è ancora fortemente all’opera negli Stati Uniti: quanto più alle comunità afroamericane diventava necessario il rafforzamento dei servizi pubblici, la promozione dei diritti nei luoghi di lavoro, investimenti in scuola, cultura e formazione, tanto più le stesse amministrazioni locali governate dalla neonata élite nera si facevano custodi dello status quo e negavano nei fatti quegli stessi obiettivi per i quali i movimenti dei decenni precedenti avevano reso possibile la loro elezione, al fine di preservare la loro raggiunta posizione sociale.

È emblematico in tal senso il vergognoso comportamento di Barack Obama, che ha criticato in modo durissimo le rivolte e le proteste animate e sostenute dal BLM. Il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti ha infatti a più riprese stigmatizzato il movimento e la sua “violenza”, ammonendo i manifestanti a “smetterla di urlare” e ricordando che gli Stati Uniti sono un “Paese di leggi” e che le soluzioni ai problemi posti dal movimento avrebbero dovuto essere affidate ai “rappresentati legittimamente eletti”.

Tutto questo è stato al tempo causa ed effetto della disgregazione politica e organizzativa di quei movimenti che avevano animato la scena del Paese nei vent’anni precedenti e, in contemporanea con lo spostamento a destra sempre più marcato del Partito Democratico, si è venuta via via a cristallizzare una situazione per cui gli afroamericani, orfani di un riferimento politico/organizzativo autonomo di movimento, si sono affidati costantemente a quello stesso partito che nei fatti ha contribuito in maniera determinante a perpetuare la loro condizione di subalternità.

Ci sono stati, certo, episodi di rivolta di sicuro rilievo, come la “battaglia di Los Angeles” nel 1992, ma sono state esplosioni di rabbia, più che giustificata, che però non sono riuscite a tradursi nella strutturazione di un movimento duraturo. Con l’elezione di Bill Clinton alla presidenza degli Stati Uniti, questa situazione era destinata a peggiorare, in concomitanza con l’approfondimento dell’offensiva neoliberista contro le condizioni del mondo del lavoro, i diritti sindacali e democratici, i servizi pubblici, la scuola e l’università pubbliche.

Questo è un aspetto decisivo, e non accessorio, della subalternità degli afroamericani nello Stato americano, e contribuisce a darne una motivazione non superficiale e impressionistica: in effetti, la condizioni della popolazione nera negli Stati Uniti non è comprensibile se non contemplando per intero la ineludibile dimensione di classe, di cui il razzismo (anche quello “post-moderno”) è in ultima analisi funzione.

Anche qui si comprende meglio il ruolo decisivo della polizia e, in generale, degli apparati armati dello Stato: poiché il loro compito fondamentale è proteggere e conservare l’attuale assetto della società dalle minacce esterne ed interne, è ovvia conseguenza che i quartieri poveri delle grandi città statunitensi, sia bianchi che neri, siano presi particolarmente di mira e soggetti ad un controllo asfissiante e a tratti parossistico. È questa una delle ragioni per cui la polizia è così aggressivamente restia a qualsiasi cambiamento o riforma che possa accrescerne la responsabilità nei confronti della pubblica opinione (accountability). Questi cambiamenti, se realmente applicati, ridurrebbero la capacità delle forze dell’ordine (capitalistico) di svolgere il proprio compito in modo efficiente ed efficace. È per questo che, al di là di parole di circostanza, i poteri costituiti non fanno nulla di concreto per cambiare la situazione.

Tuttavia tanto forte è la dimensione ideologica delle forme del razzismo contemporaneo, che la protesta contro l’oppressione quotidiana, anche nei confronti dell’élite nera, è spesso formulata dagli stessi afroamericani nell’accusa di agire “da bianchi”. La “bianchezza” (whiteness), contrapposta alla “negritudine” (blackness) è appunto espressione sul piano politico della persistenza ideologica del razzismo culturalista, che è sovente interiorizzato dagli afroamericani e a cui viene da essi data risposta rovesciandone il senso, ma in ultima analisi rafforzandone la presa, e puntellando l’ideologia dell’American Dream (peraltro sempre più in affanno a causa dei pesanti colpi ricevuti dalla crisi). Un effetto curioso di questo fenomeno è che nel discorso ufficiale i neri sono sovrarappresentati nella popolazione povera, sebbene in numeri assoluti la popolazione povera bianca sia di gran lunga superiore nel Paese. A sua volta ciò indebolisce la presa di coscienza che la propria oppressione non sia superabile se non in alleanza con il resto della classe lavoratrice bianca, povera o no, contro le élite bianche e nere, per cambiare radicalmente l’economia, la politica, la società intera. In altre parole, per rompere con il capitalismo.

L’unica speranza risiede nel rafforzamento del movimento, della sua capacità di cercare e trovare alleanze politiche e sociali, e, in ultima analisi, di disporre di strumenti politici indipendenti per affermare le proprie istanze di liberazione, che coincidono con quelle di tutti/e gli/le oppressi/e e gli/le sfruttati/e.

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