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http://www.einnews.com/

October 18, 2016

 

La questione più importante delle elezioni: di chi sarà il dito sul grilletto nucleare?

di Joe Rothstein

 

La scena è ancora indelebile nella mia mente, 54 anni più tardi. Il generale seduto tranquillamente in salotto della sua base, telefono rosso a portata della mano destra, il ricevitore nella sua culla, minaccioso, nel suo silenzio. Il generale in attesa, chiaramente dello squillo del telefono da un momento all'altro, per ordinanre i primi colpi di una probabile guerra nucleare, alla fine della civiltà umana come la conosciamo.

 

Il generale al comando di tutte le forze militari degli Stati Uniti con sede in Alaska: truppe, navi, aerei e missili nucleari. A quel tempo ero un giovane assistente che accompagnava il Governatore dell’Alaska William Egan, che il generale aveva urgentemente chiamato alla Elmendorf Air Force Base nei pressi di Anchorage.

 

Il Governatore, disse, vi incoraggio ad andare alla radio per sollecitare tutti gli abitanti dell'Alaska di assicurarsi il più presto possibile che i loro serbatoi di gas siano pieni, di avere ampie forniture di acqua, e di considerare dove sarebbero andati e come avrebbero sopravvissuto in caso di emergenza militare. (Alaska non aveva la TV dal vivo dalle reti continentali nel 1962).

 

L'emergenza, naturalmente, era la crisi dei missili russi a cuba. Più tardi, quando l'allora segretario alla Difesa Robert McNamara ammise "Siamo arrivati molto vicino ad una guerra nucleare" gli occhi della mente poterono verificare la verità di quel “Near Miss”. Incombente catastrofe appesa ad ogni parola pronunciata in quei momenti nei quartieri del generale.

 

Guerra nucleare. Sottomarini e silos di missili terrestri pronti all’irrimediabile lancio di armi nucleari una volta che tali decisioni di lancio avessero raggiunto gli uomini e le donne che li controllavano. I bombardieri in volo verso gli obiettivi assegnati, con fragili e vulnerabili sistemi di comunicazione, che potevano mancare qualsiasi ordine che li richiamasse.

 

Il presidente John F. Kennedy ricevette notevolei consigli contrastanti da aiutanti di fiducia, durante l'arco dei 16 giorni di crisi. Alcuni volevano lanciare un primo attacco contro i russi. Altri chiedevano di distruggere i missili che i russi avevano segretamente installato a Cuba, sfidando i russi a vendicarsi. Nelle acque al largo della costa di Cuba la Marina degli Stati Uniti Navy aveva imposto un blocco in alto mare alle navi russe destinate a Cuba.

 

Quattro sottomarini russi si aggiravano in quelle acque. I responsabili politici degli Stati Uniti sapevano che i sottomarini russi erano lì, ma non erano a conoscenza che erano armati di missili nucleari. Le navi degli Stati Uniti sparavano bombe di profondità, per non distruggere i sottomarini, ma piuttosto per forzarli a risalire in superficie. Ma Valentin Savitskij, il capitano di uno dei sottomarini russi, aveva perso la comunicazione con Mosca e credeva che la guerra fosse cominciata. E lui era pronto a lanciare le sue armi nucleari.

 

Questo lancio probabilmente avrebbe innescato una guerra nucleare, e Vasili Arkhipov, il comandante della flotta, non era a bordo della nave di Savitskij. Contro i sentimenti unanimi degli ufficiali e degli uomini a bordo, Arkhipov ordinò all'equipaggio di risalire in superficie e arrendersi. Arkipov capiva che sarebbe stata una follia iniziare una guerra nucleare ed ebbe una straordinaria fiducia in se stesso e il coraggio necessario per resistere alla follia quando le passioni erano alte.

 

In Washington anche il presidente Kennedy era sotto forte pressione per agire con coraggio. Come presidente, non aveva bisogno di nessun altra autorità per inviare aerei e missili in volo nei contro Cuba o in Russia. Non il Congresso. Non i tribunali. Non il consenso del suo gabinetto. Nel sistema americano, il presidente come comandante in capo è l'unico arbitro della decisione di usare la forza armata se convinto che l'america sia sotto attacco o minaccia immediata. Quei missili russi erano in territorio cubano ostile, a soli 90 miglia al largo della costa della Florida.

 

Il presidente Kennedy trovò un modo per far indietreggiare sia gli Stati Uniti che la Russia lontano dal rischio nucleare. Da quel mese di ottobre del 1962, nessun leader americano o russo è stato mai abbastanza temerario da affrontare nuovamente quel rischio con le intenzioni sbagliate, scarsa comunicazione, stupido orgoglio o qualsiasi altra fragilità meccanica o umana che trasformerebbe il pianeta terra in cenere radioattiva. Johnson, Nixon, Ford, Carter, Reagan, Bush padre e figlio, Clinton, Obama. Tutti avevano i codici nucleari. Tutti hanno capito che le armi nucleari non potrebbero mai essere utilizzate. Infatti, ogni presidente da Kennedy in poi ha praticato la politica degli Stati Uniti per contenere le altre nazioni dotate di armi nucleari e ridurre gli arsenali nucleari che già esistono.

 

Ci sono molte ragioni per impedire a Donald Trump di diventare presidente. Ma tutti gli altri motivi impallidiscono di fronte alla questione nucleare. L’ego di Trump è fragile, il suo approccio disinvolto all’uso nucleare, il suo atteggiamento "Io so più dei generali", la sua imprevedibilità che quasi certamente influenzerebbe i leader di altre nazioni ad intraprendere azioni che aumenterebbero le tensioni mondiali, tutto ciò sono ragioni sufficienti a tenere le dita di Trump lontane dal pulsante nucleare.

 

In innumerevoli interviste, dichiarazioni dibattiti e discorsi della campagna, Trump ha suggerito che il Giappone, la Corea del Sud e l’Arabia Saudita acquisiscano armi nucleari e smettano di fare affidamento sugli Stati Uniti attraverso trattati comuni di difesa. Ha proposto di utilizzare armi nucleari per porre fine alla minaccia dell’ISIS. Ha detto che una tattica di negoziazione sarebbe stata "imprevedibile" sulla questione di sapere se avrebbe ordinato il primo utilizzo di armi nucleari.

 

Pochi mesi fa, il suo show televisivo "Morning Joe", Joe Scarborough ha riferito che in una conversazione con un consulente di politica estera Trump ha chiesto tre volte che "se abbiamo armi nucleari perché non possiamo usarle?"  Scarborough ha poi chiesto all'ex direttore dell’NSA Michael Hayden quanto velocemente le armi nucleari potrebbero essere utilizzate se un presidente dovesse dare l'approvazione. La risposta di Hayden: "Il sistema è progettato per la velocità e la decisione. Non è progettato per discutere la decisione." In altre parole, il presidente dice,"go" ed è fatta.

 

Pensate alla personalità impulsiva di Trump, la sua eruzione vulcanica in offese reali e percepite, come reagisce alle notizie sfavorevoli o commenti che pungono la pelle sottile. La rabbia interiore che lo spinge a inviare messaggi su Twitter combattivi alle 03:00 del mattino.

 

Ero testimone oculare di una conversazione che presume il lancio di una guerra nucleare. Questa è un'esperienza che nessuno dimentica. Quel ricordo è rimasto con me per mezzo secolo. Fortunatamente, il telefono rosso non squillò. Sono ancora qui a scrivere su quell’attesa. E tu sei qui per leggere su di esso. Ma non c'è niente di stabilito sulla sanità mentale nucleare. In particolare, se la follia politica mettesse i codici nucleari a portata di mano di un presidente di cui tutto ci dice che è una mina vagante.

 


http://www.einnews.com/

October 18, 2016

 

The election's most important issue: whose finger is on the nuclear trigger?

By Joe Rothstein

 

The scene is still indelible in my mind, 54 years later. The general sitting calmly in the living room of his on-base quarters, red telephone within reach of his right hand, receiver on its cradle, ominous in its silence. The general clearly expecting the telephone to ring at any moment, ordering the first shots of a nuclear war likely to end human civilization as we know it.

 

The general commanded all U.S. military forces based in Alaska---the troops, ships, aircraft and nuclear armed missiles. At the time I was a young aide accompanying Alaska Governor William Egan, who the general had urgently summoned to Elmendorf Air Force Base near Anchorage.

 

Governor, he said, I encourage you to go on statewide radio as soon as possible and urge all Alaskans to make sure their gas tanks are full, that they have ample supplies of water, and that they’ve considered where they would go and how they would survive in the event of a military emergency. (Alaska had no live and direct TV from mainland networks in 1962).

 

The emergency, of course, was the Cuban missile crisis. Later, when then Secretary of Defense Robert McNamara admitted “We came very close to nuclear war,” my mind’s eye could verify the truth of that near miss. Looming catastrophe hung on every word spoken during those moments in the general’s quarters.

 

Nuclear war. Submarines and land-based missile silos launching nuclear weapons irretrievable once those launch decisions reached the men and women who tended them. Bombers heading toward assigned targets, with fragile communications systems vulnerable to missing any order that might call them back.

 

President John F. Kennedy received considerable conflicting advice from trusted aides during the 16-day span of the crisis. Some wanted to launch a first strike against the Russians. Others called for destroying the missiles the Russians had secretly installed in Cuba, daring the Russians to retaliate. In the waters off the Cuban coast the U.S. Navy enforced a high seas blockade of Russian ships destined for Cuba.

 

Four Russian submarines roamed those waters. U.S. policy makers knew the Russian subs were there but were unaware that they were armed with nuclear missiles. U.S. ships dropped explosives, not to destroy the subs but rather to force the subs to surface. But Valentin Savitsky, the captain of one of the Russian subs, had lost communication with Moscow and assumed that the war had begun. At sea, the captain rules and he was ready to launch his nuclear weapons.

 

That launch likely would have triggered nuclear war had not Vasili Arkhipov, the fleet commander, been aboard Savitsky’s ship. Against the near unanimous feelings of the officers and men aboard the sub, Arkhipov ordered the crew to surface and surrender. Arkipov understood that it would be madness to begin a nuclear war and he had the extraordinary self-confidence and courage required to stand against the crowd when passions were high.

 

In Washington, D.C. President Kennedy also was under intense pressure to act boldly. As president, he needed no other authority to send aircraft and missiles flying toward Cuba or Russia. Not Congress. Not the courts. Not the agreement of his own cabinet. Under the U.S. system, the president as commander-in-chief is the sole arbiter of a decision whether to use armed force if he determines the U.S. is under attack or immediate threat. Those Russian missiles were in hostile Cuban territory, just 90 miles off the Florida coast.

 

President Kennedy found a way to back both the U.S. and Russia off the nuclear ledge. Since that 1962 October, no U.S. or Russian leader has been foolhardy enough to climb back on that ledge and take the risk that mistaken intentions, poor communications, foolish pride or any other mechanical or human frailty will turn planet earth into radioactive ashes. Johnson, Nixon, Ford, Carter, Reagan, Bush father and son, Clinton, Obama. All had the nuclear codes. All understood that nuclear weapons could never be used. In fact, every president since Kennedy has made it U.S. policy to contain other nations from being nuclear-armed and to reduce nuclear arsenals that already exist.

 

There are plenty of reasons to keep Donald Trump from becoming president. But all other reasons pale before the nuclear issue. Trump’s fragile ego, his cavalier approach to nuclear use, his “I know more than the generals” attitude, his unpredictability that almost certainly would influence the leaders of other nations to take actions that would increase world tensions---all that is reason enough to keep Trump’s fingers off any nuclear buttons.

 

In countless interviews, debate statements and campaign speeches Trump has suggested that Japan, South Korea and Saudi Arabia all acquire nuclear weapons and stop relying on the U.S. through joint defense treaties. He’s proposed using nuclear weapons to end the ISIS threat. He’s said that as a negotiating tactic he would be “unpredictable” on the question of whether he would order the first strike use of nuclear weapons.

 

A few months ago, on his “Morning Joe” TV show, host Joe Scarborough reported that in conversation with a foreign policy advisor Trump asked three times that “if we have nuclear weapons why can’t we use them?” Scarborough then asked former NSA Director Michael Hayden how quickly nuclear weapons could be deployed if a president were to give approval. Hayden’s reply: “The system is designed for speed and decisiveness. It's not designed to debate the decision." In other words, the president says, “go” and it’s gone.

 

Think about Trump’s impulsive personality, his volcanic eruption at real and perceived slights, how he reacts to unfavorable news stories or comments that prick his thin skin. The inner rage that prompts him to send combative twitter messages at 3 a.m.

 

I was an eye witness to a conversation that presumed the launch of nuclear war. That’s an experience no one forgets. It’s stayed with me for half a century. Fortunately, the red phone didn’t ring. I’m still here to write about it. You’re here to read about it. But there’s nothing ordained about nuclear sanity. Particularly if political insanity were to hand the nuclear codes to a president who all evidence tells us is a loose cannon.

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