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9 novembre 2016

 

American revival

di Francesco Manta

 

Il sorprendente esito di queste elezioni presidenziali americane – che solo sei mesi fa poteva apparire eufemisticamente paradossale -, ha un significato ben preciso, di cui la grande politica e, soprattutto, la democrazia devono tenere in conto: il potere del popolo e le sue necessità.

 

Quando il magnate di New York ha annunciato la sua discesa in campo nelle primarie del Partito Repubblicano, tutti la consideravano quasi una barzelletta. Poi è diventata un’azione di cattivo gusto appena i risultati si facevano più concreti, poi una vera e propria lotta di un establishment compatto, forse fin troppo chiuso in se stesso contro un candidato fuori dal comune che, con dei metodi oltremodo antipolitici e non convenzionali ha attratto il consenso delle masse. Già, perché come è giusto ricordare, gli Stati Uniti non sono soltanto le luci di New York City, le stelle di Hollywood e le onde spumose di Honolulu. Nel mezzo vi è un cuore fatto di comuni cittadini, di grandi fasce di popolazione schiacciate dal peso economico della grande industria e di una politica estera troppo aggressiva ed autoreferenziale. Il confine americano si è idealmente spinto troppo oltre le coste continentali, andando ad abbracciare interessi troppo lontani e troppo insignificanti per chi, ogni giorno, doveva combattere col mutuo della casa.

Questa semplificazione deve fare intendere, dunque, la responsabilità che la politica deve avere nei confronti dei suoi diretti legittimatori. La rottura dell’isolazionismo dorato in cui l’America si trovava all’inizio della Prima Guerra Mondiale si riflette, giusto cento anni dopo, nello stesso contrappasso vissuto da quel Woodrow Wilson della Società delle Nazioni. I conflitti sociali e l’ostinato liberismo che dilaniano gli Stati Uniti, dietro le spoglie della Superpotenza Mondiale post-Guerra Fredda non hanno fatto altro che accentuare questa forbice tra l’imposizione del modello americano e il cuore del Paese, il melting pot che vive le proprie esigenze come qualunque altro popolo sul pianeta. Il Vietnam, l’Afghanistan, l’Iraq per due volte, e poi la NATO, gli scontri con la Russia e i trattati economici e militari con i Paesi alleati, quando nel 2007 milioni di famiglie sono finite sul lastrico per un sistema economico lasciato troppo in mano a se stesso, un debito pubblico pari a dieci volte quello dell’Italia, un terzo della popolazione americana senza la possibilità di accedere alle cure mediche.

Donald Trump, dall’alto della sua patrimonialità, ha cavalcato la rabbia e l’indignazione di un popolo che non si riconosceva più nei suoi rappresentanti. L’arma del populismo ha sostenuto la sua campagna elettorale dal primo all’ultimo giorno, al grido di Make America Great Again, in controtendenza rispetto ad un sistema che ha fatto troppo affidamento su di sé. Non è solo una vittoria di The Donald, quella a cui assistiamo, ma la sconfitta di questo establishment politico che da quasi trent’anni arriva compatto ai nastri di partenza: Bush senior, doppio Clinton, Bush junior, poi Obama, che aveva comunque in squadra la sconfitta Hillary. Ora vedremo come Trump farà fede alle sue promesse per ripagare la fiducia dell’elettorato, e noi, da europei, speriamo di ottenere quel vantaggio che un non interventismo potrebbe portare. Una NATO meno presente in Europa potrebbe portare ad una maggiore indipendenza nel continente, con tutti i benefici a livello continentale che ciò potrebbe avere.

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