Originale: yes! Magazine

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22 febbraio, 2016

 

L’opera radicale di guarire:

Sarah van Gelder intervista Angela Davis e Fania Davis

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

Angela Davis e sua sorella Fania Davis operavano a favore della giustizia sociale prima che nascessero molti degli attivisti di oggi. Dalla loro infanzia nella città  di Birmingham, in Alabama, dove era applicata la segregazione razziale,  dove i loro amici erano stati vittime del bombardamento della Chiesa Battista della 16° Strada, fino alla loro partecipazione al Partito delle Pantere Nere e al Partito Comunista, e fino alla loro opera per contrastare il complesso carcerario-industriale, le loro vite sono state incentrate sull’accrescere  i diritti degli Afro-Americani.

Nel 1969, Angela Davis fu licenziata dal suo posto di docente  all’UCLA (Università della California,  Los Angeles) perché era iscritta al Partito Comunista. Fu in seguito accusata di aver svolto un ruolo di appoggio in un rapimento svoltosi in un’aula giudiziaria che si concluse con quattro morti. La campagna internazionale per  garantire  il suo rilascio dalla prigione fu condotta, tra gli altri, da sua sorella Fania. Alla fine Angela fu assolta e continua a sostenere la riforma della giustizia penale.

Ispirata dagli avvocati della difesa di Angela, Fania divenne un avvocato per i diritti civili, alla fine degli anni ’70 e ha praticato la sua professione fino a metà degli anni ’90 quando si iscrisse a un programma di studi indigeni all’Istituto  di Studi Integrali  della California  e ha studiato con un guaritore Zulu in Sudafrica. Al suo ritorno fondò la Giustizia Riparativa per la gioventù di Oakland. Oggi richiede un processo di verità e di riconciliazione incentrato sul trauma razziale storico che continua a perseguitare gli Stati Uniti.

Sarah van Gelder: siete state entrambe attiviste fin da quando eravate molto giovani. Mi chiedo in che modo l’attivismo ha avuto origine   dalla vostra vita familiare e come ne parlavate tra voi due.

Fania Davis: quando ero ancora una piccola, la nostra famiglia si trasferì in un quartiere che era tutto di bianchi. Era conosciuto con il nome di Collina della Dinamite perché le famiglie di neri che si traferivano lì venivano perseguitate dal Ku Klux Klan. La nostra casa non è stata mai bombardata ma le case intorno a noi sì.

Angela Davis: Fania probabilmente è troppo giovane per ricordarselo, ma io mi rammento che si sentivano strani suoni all’esterno e mio padre di solito saliva in camera da letto e tirava fuori la pistola dal cassetto e usciva per vedere se il Ku Klux Klan aveva messo una bomba tra i cespugli. Questo faceva parte della nostra vita quotidiana.

Molti credono che il bombardamento della Chies Battista nella 16a Strada sia stato un avvenimento  strano, ma in realtà c’erano bombardamenti e incendi di continuo. Quando avevo 11 anni e Fania ne aveva 7, la chiesa che frequentavamo, cioè la First Congregational  Church, fu incendiata. Ero membro di un gruppo interrazziale di discussione e la chiesa fu bruciata perché c’era quel gruppo.

Crescevamo in un’atmosfera di terrore. E oggi, con tutto il parlare che si fa di terrorismo, penso che  sia importante riconoscere che ci sono stati regni del terrore durante tutto il 20° secolo.

Sarah: Allora, dove eri quando hai saputo che c’era stato il bombardamento sulla Chiesa Battista nella 16a Strada?

Fania: Frequentavo la scuola superiore a Glen Ridge, in New Jersey. E non prendevo “roba” da nessuno. Parlavo sempre di James Baldwin o di Malcom X e toccavo sempre di argomenti di uguaglianza razziale e di giustizia.

Ho saputo del bombardamento quando mia madre mi disse che la mamma di una delle allieve le aveva telefonato – erano amiche intime – e le aveva detto: “C’è stato un bombardamento sulla chiesa. Vieni e andiamo là in macchina, così possiamo prendere Carole perché oggi è in chiesa.” E così vanno laggiù  in macchina insieme e scopre che non c’è Carole, è stata…non c’è neanche il corpo. Credo che questo abbia alimentato questo fuoco, il fuoco della rabbia e mi ha reso determinata a combattere l’ingiustizia con tutta l’energia e la forza che potevo radunare.

Sarah: Puoi dirmi qualche altra cosa su come era la vita quotidiana per voi che crescevate?

Angela: Andavamo a scuole, biblioteche, chiese dove vigeva la segregazione razziale. Andavamo a ogni cosa segregata.

Fania: Naturalmente, in qualche modo era una cosa positiva che fossimo  molto coesi   come comunità nera.

Quando uscivamo dalle nostre case e dalle nostre comunità, il messaggio sociale che arrivava   che eravamo inferiori. Non siete degni di andare in quel parco a causa del vostro colore o di mangiare quando andate in centro a fare le spese. Dovete sedervi in fondo all’autobus.

Allo stesso tempo, a casa, nostra madre ci diceva sempre: “Non ascoltate che cosa dicono! Non permettete a nessuno di dirvi che valete meno di loro.”

E così mi sono trovata, anche se avevo 10 anni, ad andare nei bagni dei bianchi, e a bere l’acqua dalle fontane dei bianchi, perché, fin da quando ero molto giovane    avevo un  forte  senso di che cosa è giusto e di che cosa è sbagliato. Mia madre era in qualche altro reparto del negozio a fare la spesa e, prima che lo sapesse, chiamavano la polizia.

Sarah: Facciamo un salto in avanti   a quando fu chiaro che, tu, Angela, avresti avuto bisogno di un intero movimento in tua difesa. E, Fania, hai finito per trascorrere anni a difenderla.

Fania: Sì, circa due anni.

Angela: Nel 1969 fui licenziata dall’incarico al dipartimento di filosofia dell’UCLA. Fu allora che iniziarono tutti i problemi; ricevevo minacce ogni giorno. Venivo attaccata soltanto a causa dell’iscrizione al Partito Comunista.

Fania: In quel periodo Angela era stata molto coinvolta nell’attivismo per i diritti nelle prigioni e guidava manifestazioni su e giù nello stato. E poi lei fu in tutti i notiziari: “ Docente Comunista licenziata all’ UCLA,” sai,  “Estremista del Potere Nero.”

Angela: Poi, nell’agosto 1970, fui accusata di omicidio, sequestro, e cospirazione e così dovetti entrare in clandestinità. Andai a Chicago, poi a New York e in Florida, e infine fui arrestata a New York in ottobre. E’ stato nel periodo in cui ero clandestina che la campagna iniziò realmente a svilupparsi.

Sarah: Allora, Fania, quando hai concentrato la tua attenzione sull’appoggio per la causa di tua sorella?

Fania: La sera prima di lasciare Cuba, scoprii che era stata presa. E così, invece di andare a casa, in California, andai immediatamente dove era Angela: Casa di detenzione femminile al Greeenwich Vìllage.

Angela: Tutti i miei amici e compagni iniziarono a organizzare la campagna. Dopo essere stata arrestata ed estradata, tutti si trasferirono nella zona della Baia di San Francisco.

Eravamo attivi nel Partito Comunista e, sai, qualsiasi critica si potesse fare a quel partito, potevamo andare dovunque nel mondo e trovare persone con le quali avevamo un’affinità, e la gente ci apriva le loro case.

E’ stato il Partito che è a essere il centro dell’organizzazione del mio rilascio e il movimento è stato  preso in mano dagli studenti del campus e dalla gente che frequentava la chiesa.

E’ accaduto in tutto il mondo. Ogni volta che visito un posto per la prima volta, mi capita sempre di dover salutare delle persone che vengono da me e mi dicono: “Eravamo coinvolte nel tuo caso.”

Sarah: Sapevi che c’era quel tipo di supporto?

Angela: Lo sapevo e non lo sapevo. Lo sapevo in maniera astratta, ma Fania era quella che viaggiava e che ne è stata realmente testimone.

Fania: Ho parlato a 60.000 persone in Francia e a 20.000 a Roma, a Londra e nella Germania Est e Ovest, in tutto il mondo, e vedevo questo massiccio movimento per liberarla.

Angela: Era un’epoca eccitante perché la gente credeva davvero che fosse possibile il cambiamento rivoluzionario. I paesi stavano ottenendo l’indipendenza e i movimenti di liberazione andavano avanti e c’era questa speranza in tutto il mondo che avremmo provocato la fine del capitalismo. E penso che sono stata fortunata a essere scelta in un momento di congiuntura di un’intera serie di cose.

Sarah: Da allora il tuo lavoro si è incentrato sul sistema della giustizia penale. Siete entrambe favorevoli all’abolizione del carcere?

Angela: Assolutamente sì. Ed è eccitante vedere che l’idea di abolizione sta venendo ampiamente accettata non soltanto come modo di evitare  la carcerazione di massa, ma come modo di immaginare una società diversa che non fa  più affidamento sugli sforzi repressivi della violenza e della carcerazione.

L’ abolizione ha la sua origine nell’opera di W.E.B. Du Bois e nell’idea che la stessa schiavitù sia stata eliminata,   ma i mezzi di affrontare le conseguenze di questo non sono stati mai sviluppati. Alla fine dell’800, ci fu un breve periodo di ricostruzione radicale che ci dimostra la promessa di che cosa potrebbe essere stato. I neri sono stati capaci di produrre un certo potere economico, fondare dei giornali e ogni tipo di affari. Tutto questo, però, fu distrutto dal   della Ricostruzione e dalla nascita del Ku Klux Klan nel 1880.

Fania: Sì, abbiamo abolito l’istituzione della schiavitù, che però fu poi sostituita dalla mezzadria,   da Jim Crow*, dal linciaggio, dal lavoro forzato per i  criminali.     L’essenza della violenza razziale e il trauma che abbiamo visto nell’istituzione della schiavitù e nelle successive istituzioni, continua oggi sotto forma di carcerazione di massa e di letali pratiche della polizia.

Angela: Stiamo intraprendendo delle lotte che ci collegano agli abolizionisti contrari alla schiavitù, e l’istituzione della prigione e della pena di morte sono gli esempi più ovvii dei modi in cui la schiavitù ha continuato a  perseguitare  la nostra società. Non si tratta quindi soltanto di liberarci dalla carcerazione di massa, anche se è importante. Si tratta di trasformare la società intera.

Sarah: In che modo la giustizia riparativa potrebbe aiutare questa trasformazione?

Fania: Un sacco di gente pensa che la giustizia riparativa possa occuparsi soltanto dedicarsi  al danno interpersonale, e in questo riesce molto bene. Ma il modello della verità e della riconciliazione è un modello che sì suppone affronti il danno di massa, che guarisca le ferite della violenza strutturale. Lo abbiamo vistio in atto in circa 40 nazioni differenti; la più nota è, naturalmente, la Commissione Sudafricana per la Verità e la Riconciliazione.

In Sudafrica, la commissione invitò le vittime dell’apartheid a testimoniare e per la prima volta da sempre, raccontarono pubblicamente le loro storie. Era su tutte le stazioni radio, su tutti i giornali, alla televisione, in modo che la gente andava a casa, si sintonizzava e apprendeva delle cose riguardo all’apartheid che non aveva mai saputo prima. Ci fu un intenso dibattito a livello nazionale e le persone danneggiate in qualche modo si sentirono difese.

Questo tipo di cosa potrebbe avvenire anche qui, tramite un processo di verità e di riconciliazione. In aggiunta a questa specie di struttura di commissione di inchiesta ci potrebbero essere dei circoli a livello locale, circoli tra le persone che  sono state vittime di violenza e le persone che hanno procurato loro un danno.

Angela: Come  si immagina  l’obbligo di ripondere per qualcuno che rappresenta lo stato e che ha commesso inenarrabili atti di violenza? Se facciamo semplicemente affidamento sulla vecchia maniera di mandarli in carcere o di infliggere loro la pena di morte, penso che finiremmo con il riprodurre proprio il processo che stiamo cercando di contestare.

E così, forse possiamo parlare più ampiamente di giustizia riparativa? Molte delle campagne inizialmente chiedevano  di perseguire i funzionari pubblici, e mi sembra che possiamo imparare dalla giustizia riparativa e pensare a delle alternative.

Sarah: Fania, quando abbiamo parlato l’anno scorso, mi dicesti che il tuo lavoro per la giustizia riparativa in realtà  è iniziato  dopo che  avevi attraversato un periodo di personale transizione a metà degli anni ’90, quando decidesti di cambiare.

Fania: Avevo raggiunto un punto in cui mi sentivo senza un equilibrio  a causa di tutta la rabbia, la lotta, un certo genere di modo di essere  ipermaschilista che ho dovuto adottare per essere un’avvocatessa di successo. E anche a causa dei circa 30 anni di posizione iperaggressiva che ero stata costretta ad assumere quando ero un’attivista, di essere contro questo e contro quello, di combattere questo e di combattere quello.

Compresi, intuitivamente, che mi serviva un’iniezione di energie più femminili e spirituali, più creative e “curative”  per tornare ad avere un equilibrio.

Sarah:  Questo come ha influenzato il vostro rapporto di sorelle?

Fania: Mia sorella ed io abbiano avuto un periodo – proprio durante  questo mio stato di crisi in cui i nostri rapporti sono stati tesi per circa un anno, in parte a causa di questa trasformazione. Allo stesso tempo, finalmente compresi che era necessario che accadesse perché stavo formando la mia personalità separata da lei. Ero stata sempre la sorellina che seguiva proprio le orme di Angela.

Sì, e ora siamo di nuovo vicine. E Angela sta diventando più spirituale.

Angela: Credo che le nostre idee di ciò che conta come radicale,   sono cambiate nel corso del tempo. La cura di se stessi e l’attenzione per il corpo e per la dimensione spirituale fanno oramai parte delle lotte radicali per la giustizia sociale. Prima non accadeva.

E credo che ora pensiamo in modo profondo al collegamento tra vita interiore e ciò che accade nel mondo sociale. Anche coloro che lottano contro la violenza dello stato spesso assorbono  degli impulsi che si basano su quella violenza nei rapporti con le altre persone.

Fania: Quando ho appreso della giustizia riparativa per me è stata una vera rivelazione perché ha integrato in un tutt’uno per la prima volta l’avvocato, la guerriera e la guaritrice che sono in me.

Il problema ora è: come creiamo un processo che metta insieme la parte  che guarisce   con quella della giustizia sociale e razziale, come curiamo i traumi razziali che continuano a  ricostruirsi?

Angela: Penso che la giustizia riparativa sia una dimensione realmente importante del processo di vivere nel modo in cui vogliamo vivere nel futuro. Impersonandola.

Dobbiamo immaginare il tipo di società che vogliamo abitare. Non possiamo semplicemente ipotizzare che in qualche modo, magicamente, creeremo una nuova società in ci saranno nuovi esseri umani. No, dobbiamo iniziare quel processo di creazione della società che vogliamo abitare proprio adesso.

 

Note

 

*https://it.wikipedia.org/wiki/Leggi_Jim_Crow


Sarah van Gelder ha scritto questo articolo per Life After Oil,  il numero della Primavera 2016, di YES! Magazine. Sarah è co-fondatrice di YES!. Seguitela su Twitter@sarahvangelder


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znet/article/the-radical-work-of-healing

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