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21/12/2016

 

Il mondo di Donald si scopre in Medio Oriente

di Laura Mirachian

Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra

 

“Ricchezza senza nazioni, nazioni senza ricchezza…” scriveva un analista nostrano nel lontano 1995, ad appena un anno di distanza dalla globalizzazione avviata, per consenso universale, a conclusione dell’Uruguay Round a Marrakech. Forse una predizione, forse un’esagerazione. Ma, da allora, sono anni che le sedi internazionali che contano lanciano un allarme in tema di emarginazione, diseguaglianze, finanziarizzazione dell’economia, e che sottolineano la necessità di ricalibrare le politiche.

 

Anni che parliamo delle povertà vecchie e nuove, declassamento dei ceti medi, estraneità delle periferie urbane e rurali, e non ultimo ricerca accanita di identità da parte di larghi settori sociali. Da ultimo, è stata Theresa May, alle prese con la “Brexit” dai banchi dei Tories, a dirsi preoccupata per “those who see their job outsourced and wages undercuts…”

 

Trump: qui lo dico e qui lo nego

Subito dopo, inatteso, è arrivato Donald Trump. E il mondo ha avuto un sussulto. Perché se gli Stati Uniti davvero applicassero il principio “America First” o, nella versione non dissimile di Stephen Bannon, “Economic Nationalism”, e cioè considerassero di proiettare la loro influenza solo in funzione di stretti interessi economici e securitari nazionali, e tirassero, per così dire, i remi in barca, non è detto che l’intera architettura scaturita dalla Seconda Guerra Mondiale e successiva globalizzazione reggerebbe.

 

Già si erano registrate vistose incrinature, uno scricchiolio che abbiamo attribuito all’ineluttabile emergere degli ex-Emergenti, in primis la Cina, o all’assertività identitaria di paesi come la Russia. Abbiamo, certo, registrato con soddisfazione che la globalizzazione ha sollevato dalla povertà 1 miliardo di persone, e non è poco, ma abbiamo sottovalutato coloro che da tale “riequilibrio” hanno subito un danno nei nostri stessi paesi.

 

A pochi giorni dalla vittoria elettorale, Trump ha innestato una parziale retromarcia. Né il muro lungo il confine messicano, né l’espulsione massiccia dei musulmani clandestini, né la galera per Hillary Clinton, né il razzismo e anti-semitismo di Alt-Right, e neppure l’enfasi sull’imposizione indiscriminata di dazi doganali o la totale dissociazione dagli impegni sul clima vengono ora in rilievo.

 

Viene per contro in rilievo lo stralcio del Trans-Pacific Partnership, Tpp, che ha indotto il Premier giapponese a precipitarsi a Washington, e Angela Merkel a rammaricarsi per il futuro del Transatlantic Trade and Investment Partnership, Ttip, pur non agognato da molti europei. Un chiaro sintomo dell’inclinazione a negoziare bilateralmente accordi economico-commerciali, ove il peso americano può farsi meglio sentire, anziché affidarsi a contesti multilaterali ancorché regionali.

 

E, sul versante sicurezza, rimangono in agenda, per evocare capitoli che ci riguardano da vicino, sia la richiesta agli alleati Nato di pareggiare i conti della difesa sia l’inclinazione a tendere la mano alla Russia di Putin.

 

Lotta all’Isis: una delle poche certezze

Tralasciando gli aspetti più odiosi del linguaggio elettorale di Trump, sul fronte della strategia internazionale le indicazioni rimangono piuttosto confuse. Unico elemento chiaro del programma Trump è la priorità alla lotta al terrorismo dell’autoproclamato “stato islamico”, che peraltro ha caratterizzato anche i mandati di Barack Obama.

 

Per il resto, cosa davvero cambierebbe nella proiezione esterna americana? Anche Obama ha insistito per anni con gli Alleati perché aumentino, dopo sette decadi, il loro contributo alla sicurezza collettiva. Ottenendo da ultimo primi risultati.

 

E quanto alle relazioni con la Russia, anche Obama ha tentato un “reset”, coltivando di fatto un intenso dialogo con Vladimir Putin riguardo gli scacchieri di crisi. Valga per tutte la “divisione dei compiti” applicata in Medio Oriente con l’accettazione della presenza militare russa in Siria e il filo diretto tra John Kerry e Sergej Lavrov per la cessazione delle ostilità, nonché l’interminabile lavorio a margine del “quartetto” sull’Ucraina, corredato da classici strumenti di pressione, deterrenza militare e sanzioni, applicati con oculatezza e cautela,quel tanto necessario a placare le forti inquietudini degli alleati europei.

 

Uno sguardo introverso

Ciò che cambia con Trump è l’ottica. Un’attenzione non più rivolta all’esterno, ma all’interno. Non più una super-potenza che organizza e sovrintende l’ordine globale, ma un paese come gli altri, intento a proteggersi più che ad espandersi. Ad utilizzare le risorse sul territorio piuttosto che nel resto del mondo.

 

Se questa è la nuova filosofia, vi è anzitutto da chiedersi se davvero i grandi potentati economici, finanziari, militari, e non ultimo un Partito Repubblicano dissonante che domina Senato e Congresso - e un domani la Corte Suprema - subirebbero senza fiatare un’inversione di rotta che eroderebbe la storica supremazia americana trascinando al ribasso interessi consolidati, accetterebbero cioè senza reagire un approccio geo-strategico introverso.

 

Già si manifestano pressanti appelli a non comprimere le spese per la modernizzazione delle dotazioni militari, ivi incluse le capacità nucleari. I poteri di un Presidente americano sono poteri ‘vigilati’. È improbabile che la “re-industrializzazione” americana perseguita da Trump vada a discapito delle punte avanzate dell’economia e delle potenzialità di deterrenza strategica mondiale.

 

Il capitolo cruciale del Medio Oriente

Uno dei problemi più spinosi, vero test della nuova America del Presidente Trump, è il Medio Oriente, punto di snodo di ogni interesse e assertività internazionale, a partire dalla Russia e dai protagonisti regionali. Ciò che Trump deciderà o non deciderà nel groviglio mediorientale determinerà la posizione americana non solo nella regione, ma nel mondo.

 

In questi anni, Obama ha tentato un disegno inedito, un riequilibrio delle influenze delle potenze regionali nello scacchiere, in primis Arabia Saudita e Iran. A questo mirava lo sdoganamento accelerato dell’Iran mediante l’intesa sul nucleare. Ha poi aggiustato il tiro per recuperare l’affanno della Turchia rispetto ai successi della componente curdo-siriana. Sul finire del mandato, è rimasto in mezzo al guado, nell’intrico di alleanze e disalleanze incrociate che l’obiettivo primario di abbattere l’autoproclamato “stato islamico” non è riuscito a dipanare.

 

E Trump? Improbabile un totale disimpegno, come teoricamente la sua dottrina parrebbe evocare:dovrà scegliere se perseguire la stessa strategia o inclinare l’asse verso l’uno o l’altro dei protagonisti regionali.

 

Sono note le considerazioni di James Mattis, Michael Flynn ed altri della squadra, che l’Iran sia la principale minaccia alla stabilità della regione. E soprattutto la sensibilità dello stesso Trump rispetto alle inquietudini di Israele, che già batte un colpo con il programmato spostamento del neo-designato Ambasciatore americano da Tel Aviv a Gerusalemme.

 

Scelte molto difficili

Ciò potrebbe indurlo ad azzerare, dilazionare, o rinegoziare l’intesa nucleare con l’Iran, prorogando le sanzioni rimaste in vigore e aggiungendone di nuove. Una politica gradita agli Arabi del Golfo, ma che si confronterebbe con le resistenze degli altri cinque protagonisti dell’intesa stessa a partire dalla Russia (più la Cina), e soprattutto andrebbe a vantaggio dei “falchi” del regime iraniano con tutti i rischi del caso.

 

Al limite, potrebbe immaginare di “compensare” Israele sul dossier palestinese, sconfessando l’impianto onusiano di due Stati che vivano fianco a fianco, tanto contestato da Benjamin Netanyahu, ma rischiando incalcolabili reazioni arabo-palestinesi e non solo.

 

Nei confronti della Russia, potrebbe essere tentato di “compensare” Putin facendo concessioni sull’Ucraina - Crimea in primis - ipotesi probabilmente vagheggiata dal medesimo. Scontando che Putin mirerebbe ad incassare su entrambi gli scacchieri, sarebbero in ogni caso prevedibili forti resistenze quantomeno degli alleati più esposti all’idea russa delle sfere di influenza.

 

L’equazione Medio Oriente rimane dunque un rebus, la cui soluzione potrà portare a un riassetto di equilibri e responsabilità ovvero a nuove disastrose conflittualità. Chi ne trarrebbe vantaggio? Probabilmente l’eversione radicale dell’autoproclamato “stato islamico” e simili, quella che lo stesso Trump considera la priorità da sconfiggere.

 

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