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28 maggio 2016

 

Stati Uniti, anno zero

di Andrea Muratore

 

Le prossime elezioni americane rappresentano un punto di svolta per il paese

 

Al di là dell’esito che riserveranno le elezioni presidenziali di novembre, il 2016 rappresenterà senza ombra di dubbio un vero e proprio anno zero per gli Stati Uniti d’America. Lo stravolgimento delle tradizionali gerarchie politiche operato dalla discesa in campo di outsiders di successo come Bernie Sanders e Donald Trump rappresenta la diretta conseguenza dei grandi mutamenti sotterranei che hanno animato negli ultimi anni la repubblica a stelle e strisce, che si trova di fronte alla necessità di affrontare lo scoramento, le divisioni intestine, le pulsioni e l’animosità di una porzione consistente della sua cittadinanza, dalla quale le amministrazioni nazionali e i governi statali si stanno progressivamente ma inesorabilmente scollando. Le molteplici realtà interne agli Stati Uniti trovano sempre più difficile dialogare reciprocamente: mano a mano che le crescenti disuguaglianze e il persistente malessere sociale infettano la vita comune della nazione, gli USA si scoprono sempre più deboli e vulnerabili. Le ultime quattro amministrazioni Bush-Obama sono state contraddistinte da un progressivo indebolimento delle capacità dei decisori politici di comprendere appieno le difficoltà macroscopiche insorgenti nello scenario americano: in particolar modo a partire dalla deflagrazione della Grande Crisi del 2007 l’America è stata caratterizzata dalla sindrome dell’insicurezza, i suoi cittadini costretti a una sempre maggiore introspezione, dopo che la vulnerabilità del sistema si era palesata improvvisamente, rendendo necessaria una sua evoluzione. Negli anni successivi, tuttavia, nonostante le continue manovre di emergenza varate dal governo, la situazione concreta di decine di milioni di americani non ha conosciuto sostanziali miglioramenti, e attraverso l’analisi di numerosi indicatori significativi si può comprendere l’attualità dei problemi concernenti le disuguaglianze e la necessità di ridistribuire la ricchezza ma, soprattutto, l’accesso alle risorse e all’opportunità.

Il tratto saliente della crisi sistemica trasformatasi in sindrome che gli USA vivono da oramai dieci anni è rappresentato infatti dalla progressiva accentuazione della divisione “classista” della società, sempre più soggetta a una compartimentazione che avanza su due fronti. In primo luogo, essa si sviluppa sul piano verticale, mano a mano che le prospettive di carriera, istruzione e mobilità sociale, condizionate dalle abissali divergenze nei redditi e dai numerosi vincoli clientelari che governano le relazioni professionali nello scenario USA, risultano sempre più sbilanciate. Ma da non sottovalutare sono anche gli effetti della compartimentazione orizzontale, connessa al continuo dilatarsi del divario tra le aree più sviluppate e quelle che maggiormente faticano a riprendersi dagli effetti della crisi, o storicamente sono caratterizzate da minore vivacità economica e da maggiori tensioni sociali. Marcello Foa, in un articolo pubblicato nello scorso mese di agosto, ha spiegato in maniera precisa questo problema americano descrivendo lo scenario che si presenta nello Stato di New York allontanandosi dai grattacieli di Manhattan e dalle luci di Brooklyn: “[…] Lasciammo la Grande Mela per addentrarci nello Stato di New York, su verso Albany e Catskills Mountains, sedotti dalla descrizione, letta sulle guide turistiche, dei tipici, deliziosi villaggi, simbolo di una vecchia America. Bastarono poche decine di chilometri per restare sconcertati: i villaggi erano davvero vecchi ma tutt’altro che deliziosi. Erano angoscianti, costellati di case derelitte e talvolta piegate su ste stesse; viaggiavamo su strade piene di buche da cui spuntavano erbacce che nessuno strappava più da tempo e intorno a noi vedevamo solo povera gente. I più fortunati vivevano in baracche di legno, gli altri vagavano trascinando i propri cenci nei carrelli della spesa. Scoprimmo, allora, l’altro volto dell’America, quello che i turisti non vedono mai sulla Fifth Avenue o nel centro di San Francisco ed è un’America molto più numerosa di quanto si immagini, isolata, ignorata da tutti, abbandonata a sé stessa”.

USA anno zero, dunque. I risvolti sulla politica a stelle e strisce della presa di consapevolezza degli americani riguardo la gravità dei problemi che affliggono la loro nazione sono stati notevoli, a tratti travolgenti. Il sentimento di malessere che aleggia su milioni di americani è palpabile, concreto, e ha portato a una generale messa in discussione della vecchia politica, delle tradizionali élite dei due principali partiti a cui è imputata la responsabilità delle difficoltà degli USA. Il tracollo dei rampolli del neoconservatorismo e del tradizionalismo repubblicano, come Ted Cruz e Jeb Bush, e le sempre maggiori difficoltà riscontrate da Hillary Clinton, partita in pompa magna come sicura vincente della corsa presidenziale e ora in difficoltà contro il sorprendente e arzillo Bernie Sanders nelle primarie del Partito Democratico sono le due facce della stessa medaglia. Nonostante la loro collocazione sia agli antipodi dal punto di vista politico ed ideologico, Sanders e Donald Trump sono accomunati da questo punto di vista dal dovere una percentuale sicuramente non indifferente dei loro consensi (sebbene ciò valga in particolar modo per il tycoon newyorkese) al loro porsi in netta opposizione con la gerarchia tradizionale, uomini nuovi slegati da un sistema visto sempre come più inefficiente e inefficace dagli americani. Sebbene le tecniche comunicative e le posizioni prese sul campo siano completamente antitetiche, questo è un appunto importante da rilevare. La crisi del sistema politico incentrato sul più classico e rodato dei bipartitismi rappresenta di fatto l’eco delle difficoltà che tale impianto ha affrontato sul continente europeo e nel concreto boccia le nuove linee dell’aspirante classe dirigente statunitense, dato che Sanders, Trump e la stessa Clinton veleggiano sopra i settant’anni di età, e con queste anche i progetti a lungo termine dell’èlite in eclissi.

Un’ulteriore punto saliente che accomuna le campagne di Sanders e Trump è la sostanziale concentrazione da questi fatta sulle dinamiche politiche, economiche e sociali interne agli Stati Uniti, largamente prevaricanti sulle questioni geopolitiche internazionali; ora più che mai agli USA serve un’introspezione, serve mettersi faccia a faccia con la sindrome che sta minando la tenuta della loro società. Agli statunitensi oramai non importano più i sogni di onnipotenza dei Neo-Con, il dominio di un mondo unipolare e la proiezione della superpotenza americana ai quattro angoli del globo. A preoccuparli sono semmai quelle questioni che possono inficiare la salute della loro quotidianità, come ad esempio il timore per le recrudescenze del terrorismo islamista radicale, ma la stragrande maggioranza delle tematiche a cui essi sono sensibili fanno riferimento ai problemi precedentemente citati. Perché l’ISIS può intimorire, ma alla lunga è la mancanza di prospettive per il futuro a mettere nell’angolino milioni di americani; l’amministrazione Obama ha sostanzialmente fallito i suoi infruttuosi tentativi di ridurre le disparità e di rendere l’America una nazione più eguale. La prossima amministrazione dovrà per forza affrontare con maggiore energia questa sfida, per dimostrare di tenere veramente ai destini degli Stati Uniti. La posta in palio è la stabilizzazione di una nazione di oltre 300 milioni di abitanti, un successo che qualsiasi Presidente dovrebbe cercare e agognare molto più di qualsiasi anacronistico progetto di egemonia planetaria.

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