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Giovedì 09 giugno 2016

 

FBI: la fabbrica del terrore

di Michele Paris

 

Quali potrebbero essere le implicazioni e i riflessi politici e sociali negli Stati Uniti se dovesse emergere che la minaccia di attentati terroristici sul suolo domestico è in gran parte non solo alimentata, ma fabbricata dalle forze di polizia ? La domanda è del tutto legittima, visto il ruolo ricoperto dall’FBI (Federal Bureau of Investigation) nell’ideazione, pianificazione e quasi esecuzione di molte delle trame di matrice presumibilmente terroristica “sventate” in America negli anni successivi agli attentati dell’11 settembre 2001.

 

La discussione sulle cosiddette “sting operations”, o operazioni sotto copertura, condotte dall’FBI non è nuova, ma un’analisi approfondita pubblicata questa settimana dal New York Times ha riportato al centro dell’attenzione sia il crescente ricorso a questi metodi nell’ambito della “guerra al terrorismo” sia la strumentalizzazione politica della presunta minaccia incombente sulla sicurezza pubblica.

 

Per il quotidiano americano, le operazioni sotto copertura erano considerate in passato come uno strumento eccezionale, mentre oggi “vengono impiegate in circa due su tre procedimenti di incriminazione che coinvolgono individui sospettati di avere legami con lo Stato Islamico” (ISIS). Le preoccupazioni sono tanto maggiori quanto le operazioni clandestine non richiedono il mandato di un giudice, ma possono essere autorizzate sommariamente dai “supervisori” dell’FBI e dai procuratori del Dipartimento di Giustizia.

 

Se a queste operazioni si faceva già ricorso quando la minaccia terroristica principale per gli americani era identificata con al-Qaeda, l’impennata registrata dal Times con l’entrata in scena dell’ISIS appare come la logica conseguenza della caratterizzazione con toni apocalittici dell’ascesa del “califfato”. Parallelamente, l’opposizione sempre più forte della popolazione americana a nuovi interventi militari all’estero e all’adozione di misure lesive delle libertà democratiche ha richiesto l’ingigantimento della minaccia terroristica percepita.

 

La necessità di alimentare, se non addirittura di promuovere, la minaccia del terrorismo è apparsa tra le righe di una dichiarazione rilasciata sempre al New York Times dal capo della divisione sicurezza nazionale dell’FBI, Michael Steinbach. Rivelando forse più di quanto intendeva sostenere, quest’ultimo ha affermato che la sua agenzia “non può attendere che una persona [sospettata di pianificare attentati terroristici] si muova secondo i propri tempi”, ma va evidentemente incoraggiata in qualche modo.

 

L’FBI, ha aggiunto Steinbach, “non si può permettere di rimanere immobile e aspettare, sapendo che un tale individuo sta attivamente complottando” un attentato. La realtà dei casi analizzati dal Times indica piuttosto che l’FBI, al fine di favorire un clima di tensione nel paese, decide sempre più spesso di agire per precipitare l’organizzazione di atti violenti che, senza il contributo attivo e determinante di informatori o agenti sotto copertura, non verrebbero mai portati a termine.

 

Così, in recenti operazioni “dalla Florida alla California, gli agenti [dell’FBI] hanno aiutato individui sospettati di essere estremisti ad acquistare armi, a studiare obiettivi da colpire e a organizzare viaggi in Siria per unirsi allo Stato Islamico”. Per l’ex agente FBI sotto copertura, Michael German, la polizia federale americana sta in sostanza “inventando casi di terrorismo”, poiché le persone coinvolte, di per sé, “sono ben lontane dal rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti”.

 

Avvocati difensori, organizzazioni a difesa dei diritti civili e membri della comunità islamica continuano a contestare le “sting operations” dell’FBI, definendole come vere e proprie trappole per individui frequentemente emarginati o affetti da un qualche disagio mentale.

 

Molti dei casi descritti dal New York Times rivelano una trama pressoché identica, nella quale gli agenti dell’FBI individuano sui social media persone che esprimono simpatie o sostegno per organizzazioni fondamentaliste, come l’ISIS, oppure manifestano l’intenzione di commettere atti violenti. Una volta identificato il proprio obiettivo, l’FBI incarica un agente sotto copertura di contattare on-line il potenziale “terrorista”.

 

Stabilito il primo contatto, segue uno scambio di messaggi, per fare emergere le intenzioni del sospettato, ed eventualmente un incontro di persona. Il compito dell’agente clandestino è quello di istigare l’individuo oggetto dell’operazione, proponendosi come un possibile fornitore di armi ed esplosivi, aiutandolo a individuare obiettivi da colpire oppure promettendo di facilitare un futuro trasferimento in Medio Oriente.

 

In molti casi, l’FBI decide l’arresto dei sospettati dopo che a questi ultimi sono state fornite armi, rigorosamente inoffensive, o biglietti aerei per il Medio Oriente. Invariabilmente, gli agenti sotto copertura registrano inoltre conversazioni nelle quali chiedono in maniera esplicita ai potenziali terroristi se intendono rinunciare all’attentato in programma o a unirsi all’ISIS. In questo modo, l’FBI si mette presumibilmente al riparo da complicazioni legali e dall’accusa di avere incastrato la persona al centro delle operazioni.

 

Emblematico è l’esempio del presunto estremista islamico Gonzalo Medina, di Miami. L’FBI aveva dapprima aperto un’indagine su quest’ultimo dopo avere avuto notizia delle sue intenzioni di fare esplodere una sinagoga. Le prove nei suoi confronti erano però scarse, ma il Bureau non si è dato per vinto. Un informatore dei federali lo aveva allora agganciato, ma in una discussione durante un incontro di persona Medina aveva preso le distanze da un amico che a sua volta si era detto disposto a prendere di mira una sinagoga.

 

Qualche giorno più tardi i due si trovavano in auto in un sobborgo di Miami e l’informatore aveva indicato una sinagoga come possibile obiettivo di un attacco terroristico durante una festività ebraica che avrebbe avuto luogo di lì a due settimane. Medina, verosimilmente per assecondare il suo interlocutore, aveva risposto che quello sarebbe stato “un buon giorno per fare esplodere” l’edificio.

 

L’informatore aveva così presentato Medina a un esperto di esplosivi, in realtà un agente dell’FBI in incognito. All’incontro, Medina aveva detto di volere commettere un attentato in nome dell’ISIS e l’agente gli aveva posto varie domande per assicurarsi delle sue motivazioni, aggiungendo che “non era obbligato a farlo”.

 

Infine, lo stesso agente aveva consegnato a Medina una bomba “inerte” ed entrambi si erano diretti in auto verso la sinagoga in questione. Quando il presunto attentatore era sceso dal veicolo con l’ordigno tra le mani, gli uomini dell’FBI hanno proceduto all’arresto.

 

Altri casi riportati dal Times sollevano le stesse perplessità e confermano come la minaccia teorica rappresentata dagli individui al centro delle operazioni sotto copertura dipende interamente dalle azioni dell’FBI. I sospettati non si sono quasi mai macchiati di alcun crimine in senso stretto, mentre eventuali post o dichiarazioni a favore di organizzazioni fondamentaliste, in assenza di atti concreti, dovrebbero essere garantiti dal principio della libertà di espressione, protetta dal Primo Emendamento alla Costituzione americana.

 

Tra i casi citati che suscitano le maggiori perplessità c’è quello di Emanuel Lutchman di Rochester, nello stato di New York, al quale un informatore della polizia aveva consegnato 40 dollari per l’acquisto di un machete e altri oggetti che avrebbero dovuto servire per l’esecuzione di un improbabile attentato alla vigilia di Natale dello scorso anno. Lutchman era in terapia per una malattia mentale e, secondo i suoi famigliari, qualche mese prima dell’arresto l’FBI gli aveva proposto di diventare egli stesso un informatore.

 

In molti casi, i sospettati finiti nella rete dell’FBI si dichiarano colpevoli di avere progettato attentati terroristici o di essere stati sul punto di unirsi a un organizzazione fondamentalista. Più che la concretezza delle prove a loro carico, ciò conferma il disorientamento di queste persone.

 

Nonostante le accuse rivolte al governo di fabbricare a tavolino minacce e complotti di natura terroristica, i casi finiti in tribunale si sono quasi sempre conclusi con verdetti di colpevolezza e lunghe condanne. Anche in questo caso, l’esito dei procedimenti basati sulle operazioni sotto copertura non dipende tanto dalla solidità delle accuse, quanto da leggi sull’anti-terrorismo particolarmente severe e dalla sostanziale accettazione dei principi anti-democratici della “guerra al terrore” da parte del potere giudiziario.

 

Almeno un giudice americano ha però nel recente passato descritto le “sting operations” dell’FBI per quello che realmente sono. Il giudice Colleen McMahon del tribunale distrettuale degli Stati Uniti a Manhattan in un caso del 2011 affermò in aula di “credere senza ombra di dubbio che non ci sarebbe stato nessun crimine senza l’istigazione, la pianificazione e la messa in atto da parte del governo”.

 

Il caso riguardava quattro musulmani di Newburgh, nello stato di New York. L’FBI aveva piazzato un informatore in una moschea di questa città e l’operazione prevedeva addirittura un piano per il lancio di missili terra-aria contro una base aerea e due sinagoghe. Un finto missile era stato realizzato dall’FBI e successivamente consegnato ai quattro “attentatori”. Nonostante l’assurdità della vicenda e le esternazioni del giudice di New York, gli imputati vennero incredibilmente condannati e le accuse sarebbero state poi confermate anche dalla sentenza di Appello.

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