L'Huffington Post

20/01/2016

 

Guerra del Golfo, 25 anni dopo. Gli Usa e la profezia dei Papi. Dall’avventura senza ritorno dei Bush alla Canossa geopolitica  di Obama

di Piero Schiavazzi

 

C’era una volta Ulisse, ovvero George Bush il vecchio, discendente di Carlo Magno e dei cowboy, petroliere sudista e imperatore dell’Ovest, protettore d’Europa e dei cristiani, tra flotte nucleari e scudi stellari. E c’era il papa polacco, cavallo di Troia della libertà e delle patrie, piantato lì nel muro di Berlino come una crepa, per avviare il countdown della sua caduta e celebrare la fine della storia, nell’anno del Signore ‘89.

 

Un idillio che avrebbe dovuto culminare nel 1991 in Kuwait, depurando e preparando il millennio nel lavacro di una crociata. L’Oriente dopo l’Est. Il diavolo Saddam dopo i demoni del Cremlino. Trivellando pozzi e cervelli, per estrarvi oro nero e democrazia. Collegi elettorali e barili di greggio. Se non fosse che il Pontefice, questa volta, voltò le spalle, maledicendo dalla finestra l’impresa e profetandole una odissea infinita: una “avventura senza ritorno”, per l’esattezza, didascalia fatale ad uso dei posteri.

 

Le mille e una notte incendiarono Baghdad alle due e trentotto del 17 gennaio, fra missili da crociera e traccianti di contraerea, inaugurando il format inedito e ad alto share delle guerre in diretta. Da quel momento le strade del papa e dell’imperatore si separarono, seguendo la scia luminosa della stella cometa e la spia silenziosa degli aerei radar. Le orme di Abramo e dei carri armati Abrams. Il vento leggero della parola divina, che da Ur dei Caldei esportò lo stigma del monoteismo, e l’urto cingolato del parlamentarismo, importato e imposto alla maniera di un dogma.

 

Madre di tutte le battaglie, la definì tragicomico Saddam Hussein. Senza prendersi sul serio, probabilmente, ma senza immaginare che a prenderlo sul serio, inesorabilmente, sarebbe stata la storia. E che il grembo del deserto, sventrato dalle bombe anti bunker, avrebbe partorito l’orribile mutazione di Al-Qaeda e dello Stato Islamico, di Bin Laden e di al-Baghdadi. Come un mostro delle sabbie che si volatilizza e scompare, per materializzarsi e riapparire a distanza nelle città del nemico, sotto sembianze di kamikaze, spargendovi la morte e seminando il terrore.

 

Marzo 2003: capitolo secondo.

Esce il sequel ed entra in scena Telemacho, alias George Bush il giovane, che dopo dodici anni e un undici settembre riprende la rotta del padre, trovando dinanzi a sé un anziano Karol, vegliardo e gagliardo, la mano tremula e la voce intrepida, lo sguardo sulla soglia dell’eterno, negli occhi la memoria dell’inferno: “Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la seconda Guerra Mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto quest’esperienza: mai più la guerra! … Dobbiamo fare tutto il possibile! Sappiamo bene che non è possibile la pace ad ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa responsabilità”.

 

Memoria e storia, scienza politica e reminiscenza biografica convergevano magneticamente nei pensieri del Papa polacco, figlio di quella umanità che a Yalta era rimasta intricata nel groviglio degli eventi e segregata per mezzo secolo al di là di un muro. Uno scenario che oggi si prospetta nuovamente all’orizzonte, non più su sfondo ideologico ma religioso. Non più polarizzato in blocchi monolitici, bensì parcellizzato in crateri multipli, aumentando esponenzialmente le aree a rischio di eruzione, sparse qua e là per il pianeta, da Istanbul al Burkina Faso, dal Pakistan all’Indonesia.

Il “no” di Wojtyla muoveva dalla constatazione che a partire dallo sparo di Sarajevo, nella complessità dell’evo contemporaneo, gli effetti collaterali di un conflitto assommano troppe variabili e non sono di conseguenza prevedibili. Tanto meno gestibili da una sola potenza. Che le guerre cioè, mutuando una definizione di Sergio Romano, agiscono da “creazioni autonome, provviste di una loro insondabile logica”. Si comincia con l’intento di eliminare “un avversario o un problema” e ci si accorge, ben presto, di avere di fronte “nuovi avversari e nuovi problemi…”. Precisamente quello che accadde in Iraq nel 2003 e che sarebbe accaduto in Siria dieci anni dopo, nel settembre 2013, se sulla via di Damasco, luogo di bibliche folgorazioni, Bergoglio non avesse fermato e illuminato in extremis Barack Obama: critico delle avventure di Bush, dai banchi d’opposizione al Senato, ma pronto a replicarne l’errore in automatico, dalla situation room della Casa Bianca, deponendo il tiranno Assad e spianando le strade all’orrore di Daesh.

 

Così Giovanni Paolo II e Francesco hanno negato l’imprimatur ai crociati a stelle e strisce, ripassando il copione del millennio precedente e mettendo in scena una moderna versione della lotta per le investiture tra papato e impero. Con un doppio finale però, come nei telefilm. Bush infatti ha tirato dritto, trovando la via di Baghdad ma perdendo quella del ritorno a casa, dopo avere trasmesso al Papa uno slogan dai toni rassicuranti e dai risvolti addirittura esilaranti, se non continuasse a costare vite umane: “We’ll be quick and do well in Iraq”, “Faremo presto e bene”. Barack Obama invece è tornato indietro, abbandonando la tentazione dell’unilateralismo solipsistico e abbracciando l’opzione del multipolarismo solidaristico, in un’applicazione diplomatica, e pragmatica, della misericordia evangelica, che ha fruttato la reintegrazione dell’Iran nel consesso internazionale.

 

Le parole e le parabole dei due leader si sono ricongiunte da un giorno all’altro, tra lunedì 11 e martedì 12 gennaio, mentre le parole di Obama riecheggiavano da Capitol Hill al Colle Vaticano. Al discorso di Bergoglio sullo “stato del mondo”, davanti agli ambasciatori di 180 paesi, ha fatto eco la svolta a 180 gradi di Obama, nello showdown sullo “stato dell’Unione”, al cospetto dei membri del Congresso. Una Canossa geopolitica e una riscossa strategica, un testamento morale e una caparra elettorale: “La leadership americana nel XXI secolo non può ridursi a una scelta tra ignorare il resto del mondo oppure occupare, e ricostruire, qualunque società in sfacelo. Leadership significa esercitare un uso sapiente della forza militare, mobilitando il mondo intorno alle cause che contano”.

 

In uno storico rovesciamento dei ruoli, è stato dunque il Pontefice a ricevere l’investitura dall’imperatore, quale bandiera e baluardo dei Democrats, da contrapporre all’ariete repubblicano Donald Trump. Il Presidente non si è limitato a una consacrazione istituzionale, ma si è spinto a sfiorare l’identificazione personale: “Sua Santità, dal medesimo punto in cui mi trovo adesso, ha ricordato a quest’assemblea che imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini costituisce il modo migliore di prenderne il posto”.

A 25 anni dallo “scisma” d’Occidente, in cui la questione d’Oriente oppose Stati Uniti e Santa Sede, i due poteri, spirituale e temporale, hanno riscoperto l’antico feeling e celebrato un Giubileo sui generis. Sarà l’election day di novembre, a pochi giorni dalla chiusura della Porta Santa, a stabilire se i battenti della Casa Bianca resteranno aperti al nuovo corso tra Roma e Washington o se la lotta per le investiture è destinata invece a riprendere, in uno spettacolare confronto tra il più progressista dei pontefici e il più conservatore dei presidenti.

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