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14-07-2016

 

Un piccolo pianeta blu dominato da una specie che si odia

di Massimo Maiurana

 

Sono tanti i pensieri che passano per la mente guardando ai fatti di cronaca succedutisi in questi ultimi giorni. Sono tanti e sono anche estremamente variegati, non tanto per la difficoltà a formarsi un’opinione chiara, quel rischio è veramente marginale, quanto perché si fa fatica a trovare una chiave di lettura che possa dare un minimo di senso a ciò che senso non sembra proprio avere. Volendo si potrebbe anche evitare di scervellarsi troppo prendendosela col caldo, che è poi il commento tipico estivo di quando ci si riferisce a episodi assurdi. “Assurdo”, appunto. Aggettivo perfetto per descrivere questo inizio di luglio.

Riflettendoci un po’, invece, ci si chiede come potrebbe interpretare quanto riportato dai media un ragazzo qualunque. Ad esempio il proprio figlio. A lui magari a scuola avranno parlato del razzismo come conseguenza del colonialismo, gli avranno spiegato che in passato i neri non sono stati considerati umani a pieno titolo sia nei loro luoghi di origine che in quelli in cui sono stati deportati come schiavi, o al limite sono stati considerati della stessa specie dei bianchi ma appartenenti a una razza diversa, inferiore. Forse non gli avranno spiegato che la fede religiosa ha avuto un ruolo di primo piano anche in queste barbarie, perché certo diventa difficile nel momento in cui nell’aula accanto l’insegnante di religione cattolica sta facendo la sua ora, ma gli avranno fatto capire che comunque si tratta di cose che appartengono alla storia. Storia come (e fino a) Martin Luther King e la marcia di Selma. Perché oggi, non nella storia ma nell’attualità, nel Paese di King un nero lo hanno eletto presidente. Siamo ormai nel ventunesimo secolo.

Il problema è che oggi, quindi sempre nell’attualità, ancora in quello stesso Paese i neri rischiano di essere uccisi non solo da balordi xenofobi, ma perfino da chi avrebbe il dovere di assicurare l’ordine pubblico. È successo pochi giorni fa in Minnesota, era successo poche ore prima in Louisiana e tante altre volte in passato. E allora qualcosa non torna. Il passare dei secoli, il progresso, non hanno migliorato le cose poi così tanto come si pensa. Oltre mezzo secolo fa là marciava pacificamente King, oggi manifesta un movimento che si chiama Black Lives Matters (trad: le vite dei neri contano) e leggendolo ci si chiede perché mai qualcuno dovrebbe pensare che l’assunto in quella frase sia in discussione al punto da usarlo come nome, come bandiera. Il problema purtroppo c’è ed è serio, lo conferma lo stesso governatore del Minnesota che ha dichiarato: «Se Philando Castle (nda: la vittima del Minnesota) fosse stato un bianco sarebbe ancora vivo».

Passa ancora qualche ora e proprio durante la marcia di BLM a Dallas un cecchino spara contro i poliziotti uccidendone cinque e ferendone altri sette; verrà in seguito ucciso a sua volta per mezzo di un robot killer. L’intera nazione è sconvolta, piange le vittime che certo non avevano nulla a che fare con i loro colleghi, quelli con le mani macchiate del sangue di chi aveva solo la sfortuna di trovarsi nel posto e nel momento sbagliati. Avevano anche un’arma con loro, i neri vittime dei poliziotti, ma in un Paese in cui chiunque può averne una questa non è certo una circostanza sfortunata. O almeno non dovrebbe esserla, ma è di fatto la fonte del problema perché, come scrive CBC News, “se sei un afroamericano armato sei una minaccia, per le forze dell’ordine”. Il sospetto cade su di te anche solo per una foto, o perché da cronista ti trovi a compiere il tuo dovere. Di fatto cade su di te perché sei nero, non per altro, e puoi solo sperare di non incontrare poliziotti dal grilletto facile.

È una spirale che monta, nata dall’odio e che si alimenta di odio. Non ci si può rassegnare ma anche sorprendersi comincia a diventare difficile. Chissà quando inizierà la sua fase discendente. Chissà se lo farà mai, perché per quanto la maggioranza delle persone possa lavorare pazientemente per far sì che certi stereotipi vengano superati, bastano pochi deficienti per riportare indietro le lancette dell’orologio. Basta far leva sul senso di appartenenza, su quella contrapposizione noi-loro che discende direttamente dalla cultura religiosa. Perché quando si parla di identitarismo non c’è miglior collante della comune fede religiosa, dispensatrice di verità assolute incompatibili con le verità altrui. Anche quando la fede non è direttamente connessa agli eventi, come in questi casi — e tuttavia non possiamo dimenticare le croci fiammeggianti del KKK — è a partire dal dualismo religioso, insegnato fin dalla più tenera età, che si sviluppa l’idea di un mondo suddiviso in categorie premessa per qualunque forma di discriminazione. Il massimo dell’apertura da parte di una religione è nel concetto di tolleranza. Ma l’altro non andrebbe tollerato, andrebbe semplicemente accettato per quello che è.

Tutto questo accade però dall’altra parte del mondo, là dove l’integrazione dei neri è un problema da quando Lincoln abolì la schiavitù. È vero, qui da noi quasi un secolo fa veniva pubblicato il “Manifesto della Razza”, per giunta sottoscritto da persone di scienza, ma poi abbiamo superato il nazifascismo e oggi siamo uno Stato democratico. Queste cose la scuola le avrà certamente insegnate a quel ragazzo di cui sopra, per cui si spera che le notizie che si accavallano provenienti dagli Usa vengano da lui almeno interpretate come lontane dalla nostra cultura liberale e plurale.

Nel frattempo il Tg passa dalla cronaca internazionale a quella nazionale. Un facinoroso estremista di destra fermano, peraltro già noto alle forze dell’ordine, ha ucciso un profugo nigeriano al termine di una lite innescata da insulti razzisti. Non è ancora chiaro come siano andate le cose, ma è chiaro che si è partiti da uno “scimmia africana” rivolto alla moglie di Emmanuel per finire con la morte di quest’ultimo. Per inciso, appellativi simili li abbiamo già sentiti rivolgere dal senatore Calderoli al ministro Kyenge, e questo la dice lunga sulla responsabilità morale delle nostre alte istituzioni. Nella riviera cosentina, invece, un migrante che cerca di racimolare qualcosa per vivere facendo tatuaggi ai bagnanti viene picchiato invece di essere pagato, mentre pochi chilometri più a nord, in quel di Napoli, si scatenano le proteste contro i musulmani. Il motivo: si radunano in strada per festeggiare la fine del Ramadan, e pare che questo nella città dei bagni di folla per San Gennaro costituisca un problema serio. In realtà il problema è l’odio generato dalla paura che a sua volta è generata dagli stereotipi per cui ogni musulmano è un potenziale terrorista.

A questo punto l’unica speranza rimasta è che il nostro ragazzo non si faccia incantare dalle parole di chi odia, sia per paura o per rabbia. Che noi saremo in grado di insegnargli che l’unica via d’uscita possibile passa per il superamento della contrapposizione tra pelli di colore diverso, tra modi diversi di amare, tra visioni diverse del mondo, fideistiche o ateistiche. E che almeno lui capisca tutto questo. Perché un ipotetico alieno osservatore piombato sulla Terra certamente non potrebbe farlo, non riuscirebbe a capirlo. Lui vedrebbe un pianeta apparentemente ospitale per la vita ma dominato da una specie distruttiva anche, forse soprattutto, verso se stessa.

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