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14 dicembre 2016

 

Trump e i Pasdaran

di Daniele Perra

 

L'opzione “cambio di regime” a Teheran, inserita nel più ampio disegno geopolitico volto ad indebolire la Cina, sarà nuovamente un obiettivo centrale della politica estera nordamericana. Ora il principale obiettivo delle provocazioni è proprio questo: radicalizzare le posizioni dell'Iran in modo da giustificare eventuali azioni forti.

 

A causa della loro sostanziale incapacità e mancanza di prospettiva derivata da una visione cieca e subalterna al potere (l’annuale patetica dimostrazione di sudditanza culturale dei Mediterranean Dialogues di Roma è la più evidente dimostrazione), con qualche anno di ritardo e di fronte all’inesorabile fallimento della dottrina Obama nel Levante (iniziata con lo sciagurato discorso tenuto al Cairo nel giugno 2009 e basatasi essenzialmente sul fomentare il caos nell’area e sul subdolo tentativo di trasformare rivendicazioni di classe in movimenti pro-democrazia di stampo occidentale), gli analisti nordamericani e di scuola anglosassone si sono resi conto di non vivere più nel mondo unipolare che avevano immaginato e sognato dopo il crollo dell’URSS. L’elezione di Donald Trump, uomo forte e dal pronunciato carisma, è stata la prima reazione di fronte alla consapevolezza del declino della supremazia occidentale, e degli USA in particolar modo. Tuttavia, se qualcuno aveva pensato che la politica estera nordamericana avrebbe potuto prendere una piega diversa, le nomine del neoeletto Presidente lasciano intendere tutto il contrario. Trump riproporrà una politica estera aggressiva in cui la diplomazia ipocrita dell’amministrazione Obama sarà sostituita dalla disvelata volontà di potenza imperialistica che già caratterizzò l’era Bush-Cheney. Se l’obiettivo principale è l’indebolimento della Cina, ecco che si riveste di significato anche la violenta ricusazione dell’accordo nucleare con l’Iran (principale partner commerciale proprio della Repubblica Popolare), e con questa la non celata volontà di raggiungere con modalità ancora tutte da capire, ma i presupposti non sono dei migliori, il cambio di regime a Teheran. Tuttavia a pagare dazio per l’eventuale blocco del JCPOA sarà ancora una volta e prima di tutti l’Europa, già costretta ad auto-infliggersi le rovinose sanzioni economiche alla Russia, che proprio con l’Iran aveva iniziato ad instaurare più che proficue interconnessioni economiche che, tra le altre cose, hanno portato ad un incremento esponenziale del settore terziario nel paese degli Ayatollah. Per ciò che concerne l’Iran il blocco dell’accordo nucleare avrà, nel breve periodo, il solo risultato di indebolire la leadership moderata del Presidente Rouhani sostenuta dai riformisti. 

 

L’Iran non solo non si sottomette a questo sistema, al contrario dei suoi immediati opponenti nel Golfo Persico, ma propone altresì un modello ideologicamente genuino che rifiuta drasticamente l’imposizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

In questo senso la dicotomia concettuale mostasafin/mostakbirine (oppressi/oppressori) che si deve alle elaborazioni teoriche di Ali Shariati, e il concetto di maslaha (interesse comune) dovuto al lavoro del controverso teologo classico Suleiman al-Tufi, fatti propri dal khomeinismo, hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’attuale sistema politico iraniano; la cui stessa essenza ideologica lo rende particolarmente inviso ad un sistema che, al contrario, fa del rifiuto di qualsiasi ideologia che blocchi il processo di mercificazione universale la sua intrinseca peculiarità. Ora è abbastanza chiaro che l’eventuale blocco del JCPOA avrà ripercussioni negative in primo luogo sull’Europa costretta, ancora una volta, a sottostare contro i suoi

stessi interessi economici al volere del potente alleato nordamericano, e sulla stessa leadership moderata di Teheran più che sull’economia del Paese.

Di fatto, i tanto acclamati benefici economici derivanti dall’accordo e dall’apertura economica che avevano suscitato non poche aspettative, già prima delle dichiarazioni di Trump, si erano trasformati in sospetti e delusioni. Così dopo il fallimento del tentativo rivoluzionario colorato del 2009, osannato dagli inebetiti media occidentali, riformisti e moderati hanno imparato l’ennesima lezione. Se prima si sono resi conto della sostanziale impossibilità di  rovesciare un sistema che gode di ampio consenso trasversale tra la società iraniana, e soprattutto tra gli strati sociali più bassi (piccola borghesia in primis); oggi hanno capito, e con loro la stessa Guida Suprema Ali Khamenei, che fu sostanzialmente favorevole all’accordo, che non bisogna mai fidarsi del “Grande Satana”. Così ad uscire realmente sconfitti da questa intricata situazione, vista l’intangibilità della Guida Suprema, sono Rouhani ed il suo progetto di “correzione” del sistema che mirava ad una evoluzione dell’Iran sul modello cinese: apertura verso l’esterno accompagnata da chiusura istituzionale interna e sviluppo del settore tecnologico che, come ai tempi della Rivoluzione Bianca dello Shah Reza Pahlavi, avrebbe dovuto trasformare il Paese in leader regionale del settore. 

 

È altresì ovvio che i primi a godere del perdurare della situazione di presunto isolamento dell’Iran generato dalla cosiddetta sanctions economy saranno i pasdaran ed il loro apparato politico-economico che nell’Iran sottoposto a sanzioni ha conosciuto uno sviluppo esponenziale del proprio volume di affari. L’ala conservatrice non solo si è sempre mostrata scettica nei confronti dell’accordo nucleare ma oggi, grazie proprio all’elezione di Donald Trump che ha di fatto rovinato i piani di Rouhani, acquisisce nuova credibilità politica che le consentirà, salvo repentini cambiamenti, una facile vittoria alle prossime elezioni. L’economia iraniana è ancora ben salda e la sua peculiarità di sistema ibrido in cui Stato e privati svolgono un ruolo simmetrico per importanza (l’articolo 44 della Costituzione stabilisce una rigida suddivisione dei settori economici nei quali Stato, cooperative e privati possono operare), garantisce stabilità e sostanziale immunità dagli scossoni macroeconomici del mercato globale. La principale negatività del sistema più che dalla disoccupazione è costituita dalla sottoccupazione: la popolazione iraniana è altamente alfabetizzata e gli istituti universitari del paese sfornano ogni anno migliaia di giovani laureati che faticano a trovare lavori qualificanti o nell’esatto settore di competenza. Un fattore positivo è invece il fatto che l’economia iraniana, a discapito di ciò che generalmente si pensa, dipende solo per il 20% dal settore degli idrocarburi, e questo la rende altresì immune, o capace di reagire meglio, alle oscillazioni del prezzo internazionale di petrolio e gas; arma impropria spesso utilizzata dall’Arabia Saudita. 

 

Inoltre il sistema bancario iraniano è stato totalmente nazionalizzato ed islamizzato a partire dal 1984: un sistema che deve quindi sottostare ai precetti coranici che vietano la ribà (usura) ed utilizzare le tipologie di contratto tradizionali della finanza islamica (mudaraba e musharaka su tutte) che favoriscano la cooperazione economica ma vietano sempre il prestito di soldi ad interesse, sostituito generalmente dal pagamento di una commissione fissa. Questo ha reso l’Iran il mercato finanziario islamico più grande del mondo, ulteriormente sancito dal pronunciamento della Guida Suprema del 2006 che ha vietato la privatizzazione delle banche. L’affermazione che in Iran il sistema finanziario islamico abbia realmente offerto la possibilità di una terza via tra capitalismo e socialismo, mentre la sua stessa imposizione in Arabia Saudita e nelle altre monarchie del Golfo sia stata un processo assolutamente consustanziale al capitalismo, trova il suo riscontro nel fatto che il sistema iraniano, estraneo alle dinamiche del mercato finanziario globale, attraverso il ruolo delle bonyads (fondazioni religiose), è riuscito a garantire una effettiva redistribuzione della ricchezza. E proprio le bonyads rappresentano la spina dorsale del nizam (sistema) che Rouhani ha cercato, a questo punto invano, di correggere, proponendo anche nel 2015 un sistema di tassazione nei loro confronti. Queste fondazioni, la cui fortuna deriva dalle confische post-rivoluzionarie alle ricche famiglie direttamente connesse col sistema clientelare dello Shah, controllano più del 50% dell’economia del paese e per certi versi, riproponendo a loro volta relazioni di tipo clientelare, creando posti di lavoro, aiutando le famiglie dei martiri della Rivoluzione e della guerra che l’Iraq mosse all’Iran su procura saudita e nordamericana negli anni Ottanta, e redistribuendo di fatto la ricchezza, contribuiscono in modo determinante alla creazione del consenso nei confronti del sistema.

 

É abbastanza evidente che scalfire un sistema granitico in cui la sovrastruttura ideologica funge da collante ad una struttura politico-economica a sua volta rigidamente organizzata e gerarchizzata è alquanto complicato, soprattutto ora che la sfida del “trumpismo” porterà inevitabilmente ad una ulteriore estremizzazione e chiusura delle correnti conservatrici e radicali nell’arena politica iraniana. Ed il principale obiettivo delle provocazioni di Trump è proprio questo: radicalizzare le posizioni dell’Iran in modo da giustificare eventuali azioni forti. Azioni che andrebbero a favorire in primo luogo Israele e Arabia Saudita i cui obiettivi in politica estera da parecchi anni sono totalmente convergenti. Tuttavia eventuali azioni aggressive, che oltrepassino i naturali canali diplomatici, nei confronti dell’Iran sarebbero un vero e proprio suicidio sia politico che militare. L’Iran è la più importante potenza regionale sotto tutti i punti di vista (economico, demografico, militare e culturale) nonostante ci sia sempre la tendenza a sottovalutare il suo potenziale. Non bisogna altresì dimenticare che l’Iran è già in guerra, seppur non dichiarata, tanto in Iraq quanto in Siria. Ed al momento è proprio l’Iran, con l’alleato russo, a vincere sul campo lo scontro geopolitico mascherato da conflitto etnico-settario che si sta svolgendo nel Levante.

 

È ovvio che i sauditi non possano accettare che una grande nazione portatrice di un modello islamico totalmente divergente dal proprio stia avendo la meglio sulle loro bande jihadiste. A questo si deve il recente cessate il fuoco, sempre che del fuoco in precedenza vi sia stato, della coalizione a guida USA nella zona di Raqqa che di fatto ha permesso allo Stato Islamico una nuova offensiva a Palmira. Senza considerare le continue richieste di tregua “umanitaria” ad  Aleppo. La forza dell’Iran sta in primo luogo nella sua reale sovrastruttura ideologica e nella sua millenaria cultura che va dallo Shah-Nameh (Il Libro dei Re del poeta epico Ferdowsi) fino all’elaborazione del concetto di velayat-e faqih (tutela del giurisperito) da parte dell’ayatollah Khomeini che ha rovesciato il tradizionale approccio quietista al potere dello sciismo safavide. Nell’attesa escatologica del ritorno del mahdi sarebbe preferibile non interferire più del dovuto nella politica interna dell’unica vera potenza regionale del Levante. Ma ovviamente questo l’amministrazione Trump, che non si distinguerà per lungimiranza culturale rispetto ai suoi predecessori sia democratici che repubblicani, non l’ha ancora capito.

 

“Questo inetto cantor, la stolta gente così dicea, me vituperando,

invecchio nell’amor che egli consacra al Profeta e ad Ali”.

Colui che nel cuore odio nasconde per Ali, nel mondo cosa non trova che in viltà l’ugualgli.”

 

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