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Mercoledì 01 giugno 2016

 

Iraq, il nuovo inferno di Falluja

di Mario Lombardo

 

L’offensiva delle forze armate irachene, con il sostegno di quelle americane, per la riconquista della città di Falluja, nella provincia occidentale di Anbar e sotto il controllo dello Stato Islamico (ISIS/Daesh), rischia concretamente di provocare l’ennesima catastrofe umanitaria nel martoriato paese mediorientale. In questi esatti termini si è espressa un paio di giorni fa un’organizzazione non governativa norvegese che assiste la popolazione civile nell’area della località a una sessantina di chilometri a ovest di Baghdad.

 

I civili che sono riusciti a lasciare la città sono una netta minoranza, mentre si stima che a circa 50 mila abitanti di Falluja sia impedito di mettersi in salvo dagli uomini del califfato. Mercoledì si è aggiunto l’appello dell’UNICEF ai soldati iracheni e all’ISIS per risparmiare i 20 mila bambini intrappolati a Falluja.

Questi ultimi e i civili in genere sarebbero utilizzati dall’ISIS come scudi umani, così da scoraggiare i bombardamenti della “coalizione” internazionale guidata da Washington. Non solo: le poche centinaia di ragazzi al di sopra dei 12 anni che hanno raggiunto le linee del fronte vengono fermati e interrogati dalle truppe irachene per il timore che tra di essi vi siano possibili affiliati all’ISIS.

 

La situazione per coloro che sono rimasti nella città diventa ogni giorno peggiore. All’assenza di cibo, medicinali ed energia elettrica si deve aggiungere quella di acqua potabile, tanto che la responsabile dello sforzo umanitario dell’ONU in Iraq, Lise Grande, ha prospettato l’imminenza di un’epidemia di colera. Lo stesso assedio delle forze di Baghdad ha inoltre reso complicato il transito delle forniture di beni di prima necessità.

 

La popolazione tuttora a Falluja deve fare i conti anche con i raid degli “alleati”. Martedì, ad esempio, i media locali hanno raccontato di intensi bombardamenti da parte degli aerei della “coalizione” anti-ISIS sulle postazioni di difesa del califfato nell’area di al-Shuhada, a sud di Falluja.

 

Se le incursioni aeree e l’assedio di Falluja sono in genere descritti positivamente in Occidente, e le eventuali vittime civili considerate danni collaterali inevitabili, iniziative simili condotte dall’esercito di Bashar al-Assad e dall’aviazione russa nelle città siriane controllate dai “ribelli” sono invece regolarmente condannate come “crimini di guerra”.

 

Le operazioni per la riconquista della città a maggioranza sunnita erano state annunciate la settimana scorsa dal governo iracheno del primo ministro, Haider al-Abadi. A prendere parte all’offensiva di terra non è solo l’esercito regolare, ma anche i corpi speciali dell’anti-terrorismo e le milizie sciite sostenute dall’Iran.

 

Queste forze erano sembrate giungere rapidamente alle porte della città nei giorni immediatamente successivi all’inizio delle manovre, ma l’ISIS, forte di un’occupazione che dura da oltre due anni, ha mostrato di poter resistere a lungo. Anzi, a inizio settimana sono circolate le notizie di un contrattacco da parte dell’ISIS, sempre a sud di Falluja, contrastato però efficacemente dalle forze di Baghdad. Mercoledì, invece, l’esercito iracheno, con l’appoggio aereo americano, ha attaccato le linee di difesa dell’ISIS sia a nord che a sud della città, anche se finora non si sono registrati progressi significativi.

 

I timori per la popolazione civile di Falluja sono ingigantiti dalla storia particolarmente drammatica di questa città nell’ultimo decennio. Primo centro urbano di rilievo in Iraq a cadere nelle mani dell’ISIS nel 2014, Falluja aveva subito due assedi sanguinosi da parte dell’esercito americano esattamente dieci anni prima.

 

Questa città era considerata il cuore della resistenza sunnita all’invasione illegale degli Stati Uniti, i quali imposero un prezzo carissimo ai suoi abitanti, vittime di una vera e propria punizione collettiva. Oltre alle migliaia di vittime civili, i militari americani distrussero oltre la metà degli edifici di Falluja e lasciarono una tragica scia di morte in seguito all’uso di uranio impoverito. Numerosi studi medici successivi avrebbero documentato un’incidenza altissima tra la popolazione di tumori, malattie genetiche, deformità e mortalità infantile.

 

Falluja rischia anche di subire la stessa sorte di altre città strappate nei mesi scorsi all’ISIS in Iraq. Ramadi e Tikrit, ad esempio, sono state in larga misura distrutte e i rispettivi abitanti tuttora impossibilitati a fare ritorno nelle proprie abitazioni.

 

In entrambi i casi, poi, la presenza di milizie sciite in appoggio all’esercito di Baghdad era sfociata in massacri di civili sunniti come ritorsione delle atrocità commesse dall’ISIS. L’identificazione delle forze governative con l’oppressione della maggioranza e del governo sciita aveva d’altra parte spinto molti iracheni sunniti a unirsi all’ISIS nei primi mesi del 2014.

 

Attorno all’operazione anti-ISIS a Falluja era emerso un certo disaccordo tra il governo di Baghdad e gli Stati Uniti, nonostante il Pentagono stia comunque appoggiando le operazioni di questi giorni. A Washington l’obiettivo primario della guerra rimane infatti la città di Mosul, nella provincia settentrionale di Ninive, abbandonata dall’esercito nel giugno di due anni fa di fronte all’avanzata dell’ISIS.

 

Mosul è la seconda città dell’Iraq per numero di abitanti - circa due milioni prima dell’arrivo dei jihadisti - e l’amministrazione Obama intende probabilmente disporre di un successo militare simbolico nei prossimi mesi, sia per non lasciare la Casa Bianca con importanti aree del Medio Oriente ancora in mano all’ISIS sia per favorire il suo ex segretario di Stato, Hillary Clinton, in vista delle elezioni presidenziali di novembre.

 

Se per gli USA l’offensiva di Falluja è considerata una distrazione dall’operazione che dovrebbe interessare Mosul, il premier iracheno Abadi ha invece insistito per la liberazione della città nella provincia di Anbar. Il governo sciita di Baghdad ha bisogno di un qualche successo in tempi brevi per cercare di contrastare il crescente movimento di protesta concretizzatosi recentemente in un paio di occupazioni della cosiddetta Zona Verde della capitale irachena.

 

In questa prospettiva, Falluja è considerata verosimilmente un obiettivo più semplice rispetto a Mosul e, inoltre, il governo ha spesso sostenuto che i numerosi attentati terroristici che hanno colpito Baghdad nelle ultime settimane, facendo crescere ancor più il risentimento dei suoi abitanti, erano stati pianificati proprio in questa città.

 

Un’altra preoccupazione degli Stati Uniti riguarda anche la presenza nel corso delle operazioni anti-ISIS condotte dall’esercito iracheno delle già ricordate milizie sciite, fortemente legate alla Repubblica Islamica. Questi timori sono collegati alla minaccia di un possibile allineamento ancora più marcato dei rispettivi interessi strategici di Iraq e Iran, dopo che Teheran ha già esteso in maniera significativa la propria influenza sul paese vicino in seguito al rovesciamento del regime di Saddam Hussein.

 

L’operazione in corso a Falluja si inserisce in un quadro composto da svariate offensive militari contro l’ISIS che stanno interessando non solo l’Iraq ma anche e soprattutto la Siria. In particolare, fazioni delle forze ribelli siriane, nelle quali prevalgono le milizie curde dell’YPG (Unità di Protezione Popolare), stanno facendo segnare alcuni successi in combattimenti che dovrebbero preparare l’assalto a Raqqa, ovvero la capitale dell’auto-proclamato califfato islamico.

 

Anche in questo caso, in appoggio alle forze locali operano l’aviazione “alleata” e soldati americani, sia pure ufficialmente in veste di “consiglieri” militari. Le località liberate o in fase di liberazione in Siria sono spesso a maggioranza sunnita e, in più di un’occasione, gravi episodi di violenze e ritorsioni, per mano delle stesse milizie curde, sono stati riportati dalla stampa e dalle organizzazioni umanitarie.

 

Inoltre, il ruolo di primo piano giocato dai curdi nel nord della Siria, in un’alleanza di fatto con gli USA, sta provocando tensioni tra Washington e Ankara, dove il regime di Erdogan continua a ritenere l’YPG e il suo braccio politico, il Partito dell’Unione Democratica (PYD), organizzazioni terroriste perché legate al PKK turco. Allo stesso tempo, però, la Turchia sostiene più o meno clandestinamente gruppi fondamentalisti anti-Assad in Siria.

 

In definitiva, i vari fronti di guerra che stanno infiammando il Medio Oriente non sono che una delle conseguenza più gravi delle manovre degli Stati Uniti nella regione, inaugurate con l’invasione dell’Iraq nel 2003, da cui discende direttamente la nascita dell’ISIS, e proseguite con le successive rovinose politiche di incitamento delle divisioni settarie per la promozione degli interessi strategici americani.

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