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23 maggio 2016

 

La battaglia per Fallujah

di Fulvio Scaglione

 

C’è sempre una battaglia per Fallujah, nella storia recente dell’Iraq. La “città delle moschee” (più di 200), centro dell’islam sunnita e punto tra i più caldi del cosiddetto “triangolo sunnita” iracheno, fu attaccata dagli americani nell’aprile del 2004 e, con ancor maggior forza e minori scrupoli, nel novembre-dicembre dello stesso anno. Fu la battaglia più lunga e sanguinosa dell’invasione, secondo i vertici delle forze armate Usa “la più apra combattuta dai marines dopo quella di Hue in Vietnam nel 1968”. Gli americani usarono anche le bombe al fosforo per stroncare una resistenza che, per la prima volta, veniva loro portata da milizie formate interamente da ribelli sunniti e non più da reparti dell’esercito regolare di Saddam Hussein.

Adesso il primo ministro iracheno, Haydar al-Habadi, ha annunciato l’inizio dell’operazione militare per riconquistare la città, che si trova a soli 65 chilometri dalla capitale Baghdad e da più di due anni è controllata dall’Isis. Anche in questo caso si prevedono scontri assai cruenti, tenendo comunque conto che le truppe irachene, aiutate da “consiglieri militari” americani, non potranno usare sui loro concittadini (in città vivono ancora circa 90 mila iracheni) il pugno di ferro usato nel 2004 contro i “ribelli”.

A parte questo, però, la sostanza non è molto cambiata in questi dodici anni. Allora l’avanzata degli anglo-americani era contrastata dall’estremismo islamico di marca qaedista ma anche dall’ostilità dei sunniti che, vedendo cadere il “loro” tiranno Saddam Hussein, temevano di perdere la posizione di dominio sociale e politico e di finire alla mercé degli sciiti.

Avevano ragione, perché proprio questo è successo. L’insipienza americana (l’amministrazione provvisoria sciolse il partito Baat’, sciolse l’esercito a maggioranza sunnita, cacciò i sunniti dagli impieghi pubblici) e la voglia di rivalsa degli sciiti (umiliati da Saddam nei decenni e massacrati dopo la prima Guerra del Golfo) hanno prodotto, soprattutto con il governo del precedente premier Nur al-Maliki, una violenta discriminazione anti-sunnita. Baghdad, da città mista, è stata trasformata in un feudo sciita. Le province sunnite del centro del Paese, già vittime di lunghi anni di siccità, sono state abbandonate a se stesse e i denari degli investimenti pubblici sono andati tutti a quelle sciite del Sud.

Allora i timori sunniti andarono a ingrossare le file di Al Qaeda. Oggi, la constatazione che quei timori erano giustificati va a rafforzare la causa dell’Isis. I cui leader sono stati, dal punto di vista politico, assai più avvertiti di quelli del Governo centrale iracheno: nelle province occupate hanno lasciato al loro posto gli amministratori locali e hanno cercato una forma d’intesa con le popolazioni. In più, l’Isis ha come scopo “statutario” quello di ammazzare sciiti, il che aiuta a guadagnare il consenso dei sunniti.

È quella per il consenso la battaglia più difficile per il Governo di Al-Habadi. Condizione che rende più difficile la battaglia per la conquista della città. Le milizie sciite (addestrate dagli iraniani), che salvarono Baghdad di fronte all’avanzata dell’Isis nel 2014, non potranno essere impiegate a Fallujah. Toccherà all’esercito regolare, noto finora più per le sue fughe che per le sue avanzate.

 

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