Originale: Le Monde Diplomatique

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15 agosto 2016

 

Perché l’Iraq teme la vittoria

di Peter Harling

Tradotto da Charles Goulden poi da Maria Chiara Starace

 

La rete elettrica nazionale dell’Iraq è una metafora dei problemi del paese. L’accesso all’elettricità, il punto di partenza di tutta l’attività umana moderna, è l’ultimo problema che ci si aspetterebbe in un paese che ha abbondanti riserve di idrocarburi, grossi fiumi e tanto assolato quanto il Giardino dell’Eden (1). La fornitura di elettricità illustra, però, i difetti e le tortuosità del sistema politico.

Lo stato fornisce soltanto un servizio irregolare, soltanto per poche ore al giorno. La situazione non è migliore nelle zone a maggioranza sciita: in quanto al suo malfunzionamento, il sistema non è settario! Nella città meridionale di Basra (costruita al di sopra di immense aree petrolifere), dove le temperature possono superare i 50° centigradi, le autorità locali hanno previsto tumulti se continuassero le interruzioni di corrente d’estate e hanno chiesto aiuto al vicino Iran. Questo la dice lunga su che cosa ci si può aspettare da Bagdad.

Gli iracheni sono costretti a fare affidamento principalmente su sistemi collettivi improvvisati, risultato di una privatizzazione e decentramento ad hoc. Ogni quartiere ha grossi generatori, in grado di alimentare un’intera strada. Da questi esce fuori una foresta di fili, ognuno dei quali corrisponde a un utente individuale, passato o attuale. Molti non funzionano più, ma non importa: basta aggiungere nuovi fili, in un processo di sedimentazione che raccorda gli strati successivi aggiunti, senza successo, all’apparato di sicurezza in espansione dell’Iraq.

Gli individui devono spesso cavarsela da soli. Ogni casa ha il suo proprio generatore, nel caso in cui quello di quartiere si rompa, ma anche questi macchinari più piccoli hanno bisogno di combustibile e manutenzione. Gli iracheni si trovano regolarmente a stare seduti al buio a osservare il bagliore statico sullo schermo del loro televisore, aspettando che qualcosa, da qualche parte, ritorni. Allegoricamente, questo è ciò che hanno continuato a fare fin dalla caduta del regime di Saddam Hussein, 13 anni fa (2).

Il paradosso di questa complessità ingiustificata è che consuma tutta l’energia e senza una buona ragione. Tutto sembra inutilmente complicato e costringe le persone  a dimostrare la massima resistenza e ingegnosità. L’ironia è che questo atteggiamento diventa parte del sistema, e quindi funziona, malgrado tutto. Sotto il regime di Saddam una barzelletta oscena riassumeva il principio: Saddam decide di verificare la pazienza degli iracheni, facendo pagare il pedaggio sui ponti sul fiume Tigri (che scorre a Baghdad). I suoi sostenitori gli dicono che nessuno si lamenta, malgrado il costo e gli ingorghi del traffico. Saddam aumenta il pedaggio varie volte, ma nulla cambia. Ordina quindi al menon dei ponti di violentare tutti quelli che li attraversano. Gli incolonnamenti aumentano e alla fine la gente comincia ad arrabbiarsi e dice: “Quando farai qualcosa per aumentare il numero dei violentatori?”

In Iraq, oggi, nessuno ha qualcosa di positivo da dire sulla classe politica, che attira disprezzo unanime. Fin da quando le truppe statunitensi sono partite nel dicembre 2011, l’Iraq ha affrontato violenza endemica e una crisi politica che ha rimandato ogni importante atto legislativo dibattuto in parlamento. Qualsiasi supporto avessero avuto una volta alcuni politici, è svanito. Un intellettuale deluso ha detto: Alla fine, se si guarda sotto oltre le loro controversie, sono tutti amici ai vertici. Vogliono, però, che ci odiamo l’un l’altro, così non noteremo che  stanno manipolando i conflitti. Stanno combattendo per le percentuali, non per le sette. Sono tutti d’accordo su una cosa: la necessità di preservare e mungere il sistema.”

 

Tutto tranne il caos

La stanchezza generale ha prodotto grande maturità all’interno della società irachena.

Le narrazioni individuali spesso mescolano un settarismo virulento con un’interpretazione astuta e realistica delle assurde divisioni che sono costate così tanto agli iracheni comuni e che hanno dato  così tanti benefici  ai loro presunti rappresentanti (3). Tuttavia le dimostrazioni svoltesi fin dall’agosto 2015, causate dal calo dei prezzi degli idrocarburi in un’economia ancora basata sulla redistribuzione clientelare delle entrate, hanno attirato scarso supporto (4). La vasta maggioranza

degli iracheni preferisce un sistema senza senso al rischio del caos, sono soddisfatti facilmente di pochi sussidi, oppure pongono la loro speranza nell’emigrazione.

I giovani hanno anche l’opzione militare: possono andare a combattere per una fazione, o per convinzione o soltanto per la posizione e la paga. La guerra perpetua – che ha nell’ISIS il suo più recente obiettivo – adempie funzioni che sono diventate essenziali per il sistema: tiene occupate le persone e le distrae dagli errori del governo; alimenta le tensioni, dando al governo una certa legittimità a tavolino; inoltre genera un’economia vitale alternativa. Le forze di sicurezza e le milizie assorbono la disoccupazione. I signori della guerra sciiti riciclano il loro bottino aprendo ristoranti alla moda. I leader tribali sunniti traggono vantaggio dai combattimenti (questo giustifica il finanziamento di forze ausiliarie), dalla distruzione (che genera contratti per la ricostruzione) e dalla crisi umanitaria (che attira aiuti di cui loro possono appropriarsi). Inoltre, dà alla classe politica l’appoggio internazionale di cui ha bisogno per continuare il suo  saccheggio del paese, senza risponderne a nessuno, sotto la finzione di una lotta per assicurare l’ininterrotta esistenza dell’Iraq.

Gli Stati Uniti che per 13 anni sono stati ansiosi di liberarsi il più presto possibile delle responsabilità che avevano dovuto sostenere a causa dell’invasione, hanno tentato molte soluzioni ed espedienti non decisivi. Stanno addestrando unità irachene in grado di combattere una guerra permanente, ma non riescono a occuparsi del sistema che vive del conflitte. Peggio ancora, l’amministrazione Obama sta rafforzando le cattive abitudini di quest’ultimo, dando la priorità alla lotta contro il terrore rispetto a tutte le altre considerazioni.  Chiedono che ai Sunniti sia permesso partecipare al processo politico, ma ne limitano la partecipazione a poche figure di rappresentanza, staccate dalla loro base politica, allo stesso tempo aiutando a cancellare, una ad una le città più importanti collegate al Sunnismo iracheno (5). In linea con i pregiudizi su quali era basato l’intervento del 2003, gli Stati Uniti continuano ad essere diffidenti nei confronti delle masse sunnite, tollerano la militanza sciita, e incoraggiano pericolosamente il suo equivalente curdo.

Il vero problema non è più di trovare un equilibrio tra i maggiori gruppi etno-confessionali (6). Gli iracheni per lo più accettano la situazione attuale come costituita. Sarebbe sbagliato immaginare che l’ISIS sia una manifestazione di un desiderio più ampiamente provato di vendetta; si è semplicemente spostato nella frattura lasciata dallo stato che è sia repressivo che assente. I vantaggi ottenuti dai curdi potrebbero essere ancora contestati dalla gerarchia politica di Baghdad, ma per gli iracheni comuni il Kurdistan non fa più neanche parte dell’Iraq (7). Il paese si sta stabilizzando in termini di tensioni inter-comunità. La presenza delle milizie sciite in prima linea eccita un sentimento di gran lunga più settario tra gli iracheni in esilio e i musulmani di altre nazionalità di quanto lo faccia proprio in Iraq.

La situazione è come un’immagine rovesciata degli anni ‘90’, quando il regime di Saddam represse un’insurrezione sciita nel sud del paese e poi abbandonò la popolazione locale poiché sleali. Le città non furono rase al suolo come accade ora nelle zone sunnite, ma furono distrutti immensi palmizi. Sotto Saddam, i ‘rappresentanti’ della popolazione sciita erano sostenitori del regime , “compari” che avevano abbandonato le loro radici. L’amministrazione e le forze armate rimasero aperte a tutti, ma la cultura sunnita era dominante.

Oggi, la musica dell’Iraq meridionale, si può ascoltare in tutto il paese, i discorsi quotidiani hanno acquisito i toni del dialetto della classe operaia shrugi, del sud; in un quasi perfetto capovolgimento dei ruoli, i sunniti prendono prontamente vantaggio dell’ambiguità delle identità irachene, modificando il loro nome, indirizzo o accento e questo serve a rendere la vita più facile. Questo non significa che gli Sciiti siano  nel punto più alto, non più di quanto lo fossero prima i Sunniti. Adesso, come allora, ognuno (giustamente) si lamenta di non avere beneficiato molto della ricchezza dell’Iraq.

 

Gli sceicchi sunniti aleggiano

Mentre il tempo passa e produce il senno di poi, i contorni del sistema politico stanno diventando più chiari. E’ un regime senza un capo, infiltrato da molte reti diverse che hanno sovvertito lo stato, le cui risorse e organizzazioni servono quei sub-sistemi. Questo dà origine a fenomeni spesso contradditori, ricorrendo a diversi inventari  di comportamenti passati, come se la politica irachena si stesse inventando, assemblando di nuovo frammenti della sua storia.

Grazie all’invasione condotta dagli Stati Uniti alcune sezioni della popolazione sono cresciute di influenza, specialmente un’insignificante borghesia che appartiene alla diaspora o alle tribù sada che rivendicano la discendenza dal Profeta. Questa mobilità sociale ricorda l’emergere del Partito Baath, radicato nella piccola borghesia provinciale irachena che ha usato le istituzioni create durante il mandato coloniale britannico, per progredire (8). A Kut, un funzionario statale mi ha detto: “La differenza sta nel fatto che i Baathisti erano unificati dalla loro ideologia e avevano ereditato uno stato efficiente, mentre questo gruppo non ha nulla in comune con loro e opera in un paese che è stato distrutto.”

La ricercatrice Loulouwa al-Rachid osserva che gli sceicchi tribali sunniti “sono tornati a un condizione e a un modo di operare che ricorda i proprietari terrieri assenti dell’epoca monarchica.” (9). Aleggiano al di sopra del governo e stanno il più lontano possibile dalla loro gente che considerano contadini da sfruttare. Le tribù hanno riportato tradizioni popolari fatte rivivere da Saddam Hussein, e svolgono un ruolo fondamentale, per mezzo della legge tribale, in un paese dove il sistema legale è all’asta. Sui muri di tutto l’Iraq, ci sono dei manifesti con le parole matloub dam oppure matloub ashairiyan che significano che qualcuno è ricercato, vivo o morto. Gli iracheni possono sottoscrivere un’assicurazione tribale pagando una tariffa mensile a un potente sceicco la quale dà loro il diritto a chiedere la sua protezione se è necessario – una pratica contemporanea che mobilita le reti tribali che non hanno nulla a che fare con la tradizione.

Altre reti hanno collegamenti con potenze esterne. Gli Stati Uniti, addestrando l’apparato di sicurezza, ha sviluppato connessioni all’interno di questo (10) e  sono in grado di usarle per esercitare una notevole influenza, malgrado i loro mezzi limitati, operando con le unità irachene che sarebbero di scarsa utilità senza il sostegno aereo statunitense.

Anche l’Iran ha persone al suo interno, una generazione di militanti islamisti che una volta erano in esilio a Teheran. Il rapporto che ne è seguito, è così strutturato, che sta diventando un problema per gli iraniani. Un accademico iraniano ha detto: “I nostri amici iracheni hanno un’enorme influenza qui. Parlano persiano. Nel corso degli anni hanno formato amicizie con tutti quelli che contano, al punto che riescono a incontrare il Leader Supremo più facilmente dei nostri politici importanti. In campo culturale e politico, hanno cancellato il confine tra i nostri due paesi, e talvolta mi chiedo se le nostre istituzioni stiano basando le loro decisioni sui nostri interessi nazionali, o su un vecchio cameratismo.

 

L’economia non è vitale

In questa situazione frammentata, l’Iraq sì trova di fronte due pericoli importanti che possono soltanto crescere quando diminuisce la minaccia dell’ISIS. Innanzitutto, l’economia non è vitale (11). I grossi salari pagati agli impiegati statali non hanno fatto nulla per tamponare la corruzione, ma hanno aumentato il peso sulle finanze governative. Anche ai bei tempi, quando il petrolio costava di più di 100 dollari al barile, il bilancio del governo veniva rapidamente esaurito con costi operativi esorbitanti e il saccheggio della ricchezza nazionale.

La crisi finanziaria sta diventando un pericoloso fattore di incertezza: incoraggia la contestazione popolare che, sebbene attualmente limitata, potrebbe probabilmente andare fuori controllo; stimola l’economia della violenza, unica alternativa alle fonti convenzionali di reddito, e può incoraggiare le rivalità commerciali tra l’élite che lotta per la propria parte in un gruppo corrotto che si sta riducendo. Potenzialmente, influenza realmente i soci esterni dell’Iraq, specialmente gli Stati Uniti, che per lo più controllano il sistema internazionale di governo finanziario di cui Baghdad ha bisogno per rimediare al suo deficit.

E’ anche sempre più urgente il problema della leadership sciita. Gli Sciiti, che sono la maggioranza in Iraq, devono lottare con una serie di sfide una profonda divisione di classe (questa si riflette in dimostrazioni che per lo più coinvolgono i giovani del sottoproletariato), la disillusione per lo stato, l’estremo discredito dei rappresentanti dell’islamismo, la potente religiosità popolare (vedere il mio articolo su Le Monde Diplomatique, English  Edition, del 3 agosto 2016: : Basra, dystopian city, Basra, città distopica), le crescenti ambizioni dei capi della milizia, e un graduale indebolimento della marjaiya, la tradizionale leadership religiosa, che inevitabilmente arriverà al culmine con la morte incombente di Ali al-Sistani, l’ultimo ayatollah di base in Iraq, che unisce moderazione, nazionalismo e credibilità politica (12). Non sorprende, quindi, che molti iracheni temano la sconfitta dell’ISIS. Di chi sarà quella vittoria?

Peter Harling  è il responsabile per Iraq, Siria e Libano presso l’International Crisis Group (ICG) a Bruxelles

 

 NOTE

1.L’Iraq ha il 10% delle riserve mondiali di petrolio (150 miliardi di barili) e produce in media 2,5 milioni di barili al giorno. Gli idrocarburi generano il 95% delle entrate esterne.

 

2.L’invasione dell’Iraq del 2003 da parte di una coalizione guidata dagli Stati Uniti, provocò la caduta del regime di Saddam Hussein. Si nascose, ma fu catturato nel dicembre 2003, condannato a morte da un tribunale iracheno e impiccato nel dicembre 2006.

 

3.Le stime degli iracheni uccisi fin dal 2003 oscillano da 200.000 a 700.000. Nel 2013 la rivista di Medicina PLOS dicina e Chirurgia Biblioteca pubblica di scienze e medicina indicava una cifra di 500.000 e rivelava che il tasso di mortalità in Iraq era salito dal 5,5 per mille nel 2002, al 13,2 nel 2006. Secondo i media iracheni, i bombardamenti e gli scontri tra sette religiose hanno mietuto 10.000-15.000 vite all’anno fin dal 2008.

 

4.Nell’ aprile-maggio del 2016, i dimostranti sciiti hanno fatto irruzione nella Zona Verde che è fortificata e hanno preso d’assalto l’edificio del parlamento. Sebbene spettacolare, questa protesta, ispirata dall’imam Moqtada al-Sadr, non ha attirato un ampio sostegno

 

5.Varie città occupate dall’ISIS sono state riprese con un alto prezzo di distruzione di vite umane. Le milizie sciite hanno anche attaccato dei civili accusati di appoggiare l’ISIS

 

6.In assenza di un censimento, gli esperti concordano che la distribuzione è per il 60%  sciita e per il 30% sunnita. Le milizie scite hanno attaccato anche dei civili.

 

7.Nel luglio 2014, Massoud Barzani, allora presidente della nazione Curda autonoma (Kurdistan iracheno), ha annunciato un referendum sull’indipendenza, anche senza specificare come o quando si sarebbe tenuto.

 

8.Fondato a Damasco nel 1947, con due rami, uno siriano e l’altro iracheno, il Partito socialista arabo Baath, ha governato l’Iraq dal 1968 al 2003.

 

9.Il Regno dell’Iraq, fondato nel 1921 e stabilito di fatto nel 1932, era governato da una dinastia Hashemita, cacciata via con un colpo di stato nel 1958.

 

10.Fin dal ritiro ufficiale delle loro forze armate, gli Stati uniti hanno mantenuto 3.500 dipendenti militari in Iraq, per addestrare le truppe irachene.

 

11.Il settore degli idrocarburi contribuisce per più dell’83% alle entrate del bilancio iracheno, ma occupa soltanto l’1% della popolazione economicamente attiva. I tentativi di diversificare l’economia sono stati impediti da 30 anni di guerre e di crisi, e il costo della ricostruzione è stato stimato in 400 miliardi di sterline.

 

12.Nato in Iran nel 1930, Sistani si stabilì a Najaf nel 1961. E’ il personaggio più altamente rispettato dello Sciismo iracheno.

 


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.counterpunch.org/2016/08/05/why-iraq-fears-victory/

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