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9 settembre 2016

 

Il generale Usa, tra un mese a Mosul. Ma Notizie Geopolitiche ha visto sul posto la realtà che non viene raccontata

di Enrico Oliari

 

L’Esercito iracheno e i peshmerga della Regione autonoma del Kurdistan irq. sarebbero quasi pronti – si parla di un mese – per sferrare l’attacco a Mosul, la città settentrionale roccaforte dell’Isis dal giugno 2014. Lo ha reso noto sul Wall Street Journal il generale statunitense Stephen Townsend, il quale ha spiegato che “Ci stiamo preparando a una lotta lunga, difficile e dura. E’ di un assedio che stiamo parlando”.

Per Townsend, che è stato intervistato nella sede della coalizione internazionale a guida Usa, a Mosul vi sono tra i 3mila e i 4.500 jihadisti pronti a morire sul campo, mentre gli altri “Hanno in una tasca una bandiera di Daesh e nell’altra una bandiera irachena”, cioè sceglieranno al momento opportuno da che parte.

 

Portandosi sul posto, a soli 18 chilometri da Mosul, Notizie Geopolitiche ha potuto accertare che le cose stanno ben diversamente rispetto a quanto i media occidentali e i generali Usa stanno da sempre predicando.

Giunti in prima linea peshmerga-Isis, il generale peshmerga Atu Zibari ha infatti spiegato al nostro team che la vera difficoltà nell’attaccare Mosul è dovuta all’adesione spontanea della popolazione allo Stato Islamico, basti pensare che nel giugno 2014 a Mosul sono entrati 300 jihadisti, in una realtà grande come Milano!

Gli inviati di Notizie Geopolitiche hanno attraversato villaggi dove la popolazione ha imbracciato le armi ed è morta per rimanere con l’Isis, per cui vi è la realtà di un’insurrezione armata delle popolazioni sunnite contro Baghdad che continua a non essere volutamente raccontata in quanto rappresenta la prova provata del fallimento della politica Usa in Iraq.

 

È pacifico che parlando di Isis si parla di terrorismo e di Sharia, ma la guerra di oggi in Iraq dimostra l’incapacità di prevedere e di preparare il “dopo”, cosa riconosciuta dall’ex premier britannico Tony Blair lo scorso 26 ottobre, quando con uno storico “I’m sorry” ha ammesso pubblicamente gli errori commessi da lui e dal presidente statunitense Gerorge W. Bush in quella guerra, soprattutto per non aver pensato alle conseguenze e quindi di non aver provveduto al “dopo”.

Milioni di militari, funzionari, imprenditori, impiegati legati al partito Ba’th si sono trovati dall’oggi al domani senza lavoro, marchiati e quindi odiati in un paese completamente distrutto, magari senza più averi e con i famigliari morti. Nessun piano Marhsall per loro, nessuna alternativa di reimpiego o di poter, seppure sconfitti, continuare a operare nel e per il proprio paese.

 

Quando in Italia cadde il fascismo, i dirigenti e i funzionari non furono messi da parte, bensì si tolsero la spilletta littoria e continuarono a guidare l’ufficio postale, la stazione ferroviaria, la scuola o la prefettura, al massimo spostandosi da un incarico all’altro e quindi garantendo la funzionalità della cosa pubblica, mentre in Iraq fu l’esatto contrario, ed dopo le guerre dei Bush tutti rimasero a casa.

La maggior parte dei componenti dell’Isis è formata da loro: il fondamentalismo islamico assume in quest’ottica solo una funzione di facciata, o meglio, quella di un collante che tiene nello stesso insieme il libico e il caucasico, l’iracheno e l’egiziano, perché, a parte il nemico, è l’unica lingua che li accomuna.

Si tratta di una realtà delle cose che non giustifica il terrorismo, ma che indica una guerra che non è mai terminata e che continua colpendo quegli occidentali che hanno colpito loro.

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