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Giu 7, 2016

 

La Nato si prepara alla “guerra ibrida”

di Matteo Bressan

 

Il prossimo 8 – 9 luglio si svolgerà a Varsavia il summit della Nato in cui, con molta probabilità, verranno tracciate le nuove linee guida dell’Alleanza Atlantica affinché questa possa essere in grado di fronteggiare le nuove e diverse sfide alla sicurezza degli Alleati.

L’attuale scenario e le diverse percezioni dei 28 paesi componenti la Nato dovranno trovare sin dal summit di Varsavia una equilibrata sintesi su quelle che dovranno essere le priorità dell’alleanza. Non sfugge, infatti, come all’interno dell’alleanza vi siano almeno tre fronti, Nord, Est e Sud, che polarizzano le priorità e le scelte dei singoli partner.

A fronte della Polonia, dei Paesi del Baltico, della Bulgaria e della Romania che guardano con preoccupazione al ritorno della Russia nello scacchiere internazionale, vi è il blocco dei paesi quali la Spagna, l’Italia e la Grecia che mettono al centro della loro agenda la sicurezza del fronte “Sud”, all’interno del quale è compreso il Mediterraneo, minacciato dall’instabilità presente nel Nord Africa e nel Medio Oriente.

A tali minacce si aggiungono il conflitto in corso in Libia, così come la presenza del fondamentalismo nel Sahel e nell’Africa sub – Sahariana.

Un’analisi a parte merita la Turchia che si trova ad affrontare parallelamente sia l’instabilità derivante dalle crisi in Siria e in Iraq sia l’attivismo russo nel Mar Nero e lungo i propri confini, in seguito alla decisione del Presidente Putin di intervenire militarmente al fianco di Assad.

Da queste tipologie di sfide si comprende per quali motivi molti osservatori, analisti e ricercatori ritengano, come emerso dal seminario ristretto “Towards the Warsaw Summit and beyond”, organizzato recentemente a Roma dalla Nato Defense College Foundation, dalla Delegazione Italiana presso l’Assemblea permanente della Nato e dalla Public Diplomacy Division della Nato, che il futuro stesso dell’Alleanza dipenderà dalla capacità di questa di trasformarsi da alleanza militare ad attore politico.

Oltre ad un rafforzamento delle capacità militari della Nato sul Baltico e in Polonia, in grado di fronteggiare eventuali azioni russe, è possibile che l’Alleanza continui la sorveglianza e controllo delle tratte dei flussi migratori e criminali che percorrono il Mediterraneo e andare inoltre a rafforzare un sistema di deterrenza in grado di garantire la sicurezza, l’integrità territoriale della Turchia da possibili escalation militari russe nella regione.

È inoltre probabile che l’Alleanza andrà ad elevare le sue capacità anche sul terreno delle minacce ibride, a ridefinire la sua politica di deterrenza nucleare e a rilanciare la politica dell’allargamento dell’Alleanza anche attraverso nuovi partenariati.

Molti osservatori, tuttavia, ritengono che l’Alleanza stia calibrando le sue capacità per fronteggiare l’attivismo della Russia di Putin, andando così a riprodurre la contrapposizione della guerra fredda. Non vi è dubbio che, sin dalle operazioni condotte in Georgia nel 2008, in Ucraina con l’annessione della Crimea nel 2014 e in Siria nel 2015, la Russia sia stata in grado di invertire la tendenza e l’immagine, presente soprattutto nella narrazione statunitense ed occidentale, di potenza uscita sconfitta dalla guerra fredda, come ebbe a dichiarare il Presidente George H. W. Bush nel discorso sullo Stato dell’Unione nel 1992.

Ciò nonostante, è difficile, se non impossibile, paragonare il peso geopolitico dell’allora Urss con la Russia di oggi, così come è innegabile che la stessa potenza americana non sia più in grado di esercitare quel ruolo svolto nel corso degli anni ’90 sia per le difficoltà economiche e finanziarie che hanno colpito il paese nel 2008, sia per la controversa politica in Medio Oriente ma soprattutto per il peso esercitato dalla Cina e dalla stessa Russia nello scenario internazionale.

La stessa escalation che ha caratterizzato le dinamiche della crisi in Ucraina fino all’annessione della Crimea da parte della Russia sembra essere all’origine della nuova politica di contenimento della Nato nei confronti della Russia. Se l’intento di Putin era quello di prevenire con le sue operazioni in Ucraina un possibile accerchiamento militare della Russia il risultato sembra essere fallimentare perché, proprio in seguito alla presenza delle truppe russe in Crimea, la Nato ha aumentato la sua presenza nell’Europa dell’Est con la creazione di una forza di reazione rapida di 4.000 uomini dislocati a rotazione in Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Romania e andando a schierare anche una forza di cinque navi nel Mar Nero.

In questa ottica è più probabile che le recenti azioni di Putin siano state una reazione non tanto all’allargamento dell’Alleanza verso i confini della Russia, quanto piuttosto alla continua trasformazione della Nato da alleanza difensiva, come era stata nel corso della guerra fredda, a strumento militare utilizzato in Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia.  È possibile pertanto che proprio i casi di Iraq e Libia, caratterizzati dal cambio dei regimi e dall’implosione dei due stati, abbiano profondamente allarmato la Russia. Parimenti è possibile che alla base delle decisioni di proclamare l’annessione della Crimea, così come tra le cause dell’intervento in Siria, vi sia stata la preoccupazione da parte del Presidente Putin di mettere in sicurezza le due basi navali di Sebastopoli e Tartus da possibili minacce, provenienti rispettivamente dall’Ucraina, dall’avanzata dei ribelli anti Assad e dai gruppi jihadisti operanti in Siria. La perdita di questi porti, così come la possibilità, in caso di crisi, della chiusura degli Stretti della Turchia e la conseguente impossibilità della forza navale russa di accedere al Mediterraneo, potrebbe avere determinato le dure e rapide reazioni di Putin in Crimea e in Siria, aprendo però la strada a nuove e più estese crisi internazionali.

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