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17 novembre 2016

 

La grande chance

di Federico Capnist

 

Gli Stati Uniti, per tenere in piedi la Nato, spendono più di 600 miliardi di dollari all’anno. Come si giustificano queste spese per giocare a fare il pistolero in giro per il mondo, davanti ad elettori disoccupati e giustamente incuranti del destino di popoli che abitano dall’altra parte della Terra?

 

A che cosa serve oggi la Nato? Seriamente, non è una domanda retorica. Bisogna chiederselo anche per capire se si è pronti, nel caso, a veder materializzarsi le prime idee di Trump in politica estera. Senza inquietarsi se questo porterà ad un’accelerazione del lento ma inesorabile declino dell’impero americano. Ma se qualcosa a cui si è abituati – in questo caso la presenza pervasaiva della Nato – e che arriviamo a considerare come un dogma, dovesse cambiare, l’accetteremmo come va accettata la semplice fine di un’epoca storica o ci sentiremmo persi, iniziando ad agitare spettri che, alla fine, non esistono? Nel primo caso agiremmo da italiani (ed europei) maturi e responsabili; nel secondo, da bambini attaccati alla sottana di una matrigna che ci tiene succubi e legati a sé con l’inganno.

Intanto, bisogna chiedersi perché la Nato esista ancora. Nata nel 1949 con fini difensivi, utili a spaventare la crescente potenza sovietica, una volta annullata quest’ultima con il crollo dell’URSS, avrebbe dovuto dissolversi anch’essa. Se cessava di esistere la minaccia per la quale era stata creata, a cosa serviva ancora? Questo non accadde; e quel che venne dopo, è storia conosciuta. La Nato, durante la presidenza Clinton, si riciclò come braccio armato del nuovo sistema unipolare, a guida americana, che si affermò nei primi anni ’90. Crebbe di nuovi stati membri e quindi di potenza; guardò, in particolare, verso oriente. Ne approfittò per circondare l’orso russo, allora moribondo ed incapace di reagire, circondandone il perimetro con basi militari fino all’Asia centrale e poi fino all’estremo oriente, Corea del Sud e Giappone. Fagocitò, soprattutto, i paesi dell’Europa orientale, prima, e quelli baltici, poi. Che bisogno c’era? Nessuno, se non soffiare sulle fobie anticomuniste di quei paesi facendo leva sulle loro comprensibili, ma irrealizzabili, paure; e sbattere in faccia ad una Russia distrutta dagli eventi ed incapace di reagire, la progressiva espansione verso i suoi confini. Quali minacce richiedevano una Nato sempre più forte e presente a livello mondiale? Quali minacce la portarono a trasformarsi da organizzazione difensiva ad offensiva? Nessuna – i maligni, addirittura, potrebbero ricordare che l’unica, vera, grande minaccia degli ultimi venticinque anni, il terrorismo islamico, è stata svezzata da chi la Nato la comanda; e non mentirebbero. La Serbia, l’Iraq e la Libia non costituivano certo una minaccia per la sicurezza dei Paesi membri. Eppure vennero attaccate, perché non si piegavano ai voleri della Nato e minacciavano rilevanti interessi geopolitici ed economici. L’Afghanistan era potenzialmente più pericoloso – se tutto quello che ci hanno detto in questi anni sul Paese e su al-Qaeda fosse stato vero. Ma oggi, sapendo come al-Qaeda era allo stesso tempo interlocutore dell’Occidente in Siria, e come la presenza della Nato sia servita, alla fine, solo a versare altro sangue e a far aumentare a dismisura la produzione di oppio, un’altra certezza consolidatasi negli anni, si disintegra.

Da quando è crollato il Muro di Berlino, le guerre provocate dalla Nato non hanno risolto nulla. E non è certo rovesciando armi e uomini sui confini occidentali della Russia che si risolverà qualcosa, anzi. Farlo, servirà solo a confermare che quanto ripetuto negli ultimi mesi dal ministro degli Esteri russo, Lavrov, è vero: la Nato ha bisogno di creare tensioni con la Russia per giustificare la sua esistenza. Ha bisogno di soffiare sul fuoco delle paure degli Stati baltici e della Polonia, per ergersi a difesa di questi ultimi in caso di un attacco russo verso uno stato membro. Ma, onestamente, chi se la immagina la Russia attaccare un Paese membro della Nato, gettare al vento quindici anni di anni di sforzi per riemergere dal baratro, per una guerra destinata ad essere in ogni caso una catastrofe?

Trump, da uomo pragamatico, sa che questo clima di tensione, se da un lato porta ad un aumento delle vendite di armi prodotte dalla potente ed influente lobby delle armi americana verso i Paesi amici, dall’altro comporta una spesa enorme per Washington, per il mantenimento dell’Organizzazione: basi, truppe, armi, mezzi. Gli Stati Uniti, per tenere in piedi la Nato, spendono più di 600 miliardi di dollari all’anno. Come si giustificano queste spese per giocare a fare il pistolero in giro per il mondo, davanti ad elettori disoccupati e giustamente incuranti del destino di popoli che abitano dall’altra parte della Terra? Agli europei, sondaggi alla mano, non interessa sostituirsi a questo ruolo di gendarmeria a guida americana, aumentando la propria spesa militare in un’epoca di crisi, per esaudire i diktat di Washington. Forse, potrebbe essere arrivato il momento tanto agognato da De Gaulle (“Forse un giorno gli americani se ne andranno dall’Europa”). Forse, potrebbe essere arrivato il momento di provare a dar vita ad un primo embrione di esercito europeo, con cui affrancarsi dal giogo protettivo della Nato. Forse, potrebbe realizzarsi un vecchio desiderio di Bush Senior, uno dei migliori presidenti americani della storia recente, quando auspicò “un mondo in cui ciascuna delle grandi potenze – gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica, la Comunità Europea, la Cina e il Giappone – sarebbe stata responsabile per la propria area d’influenza e tutte insieme avrebbero collaborato al mantenimento dell’ordine mondiale”. Si chiama mondo multipolare, e non c’è nulla che debba spaventarci se Trump proverà a perseguirlo.

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