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22 feb 2016 - prima parte.

 

Ovest. Venticinque anni di lotte No Tav in val di Susa

di Wu Ming 1

 

racconto-inchiesta in tre parti

Prima parte

 

“Un posto in prima fila”

Alle 11.15 del 27 gennaio 2016, sotto un cielo denim chiaro, dopo aver attraversato il borgo di Chiomonte e raggiunto la riva sinistra della Dora, ci presentammo al checkpoint di via dell’Avanà, poco oltre la centrale idroelettrica.

La centrale. Sorella piccola delle montagne, sposa del fiume dal 1910, era stata nutrice delle industrie della val di Susa e di Torino. Si stagliava, virata in seppia e fiera del suo lavoro, in cartoline d’epoca vendute su ebay, e gli scolari venivano ancora a vederla, ad ammirarla, perché era stata una grande opera di quelle sensate, lei, e funzionava ancora, serviva ancora, lei. Altre opere lì nei paraggi, invece… tsk.

Al posto di guardia, una triste casupola esalò fumo biancastro e tre poliziotti blu di Prussia, che subito fermarono l’auto. Usarono la terza persona plurale come pronome di cortesia e il verbo “favorire” nell’accezione tipica delle guardie: “Favoriscano i documenti. Dove stanno andando?”.

Fu allora che cominciò il battibecco.

Volevamo andare prima alla Maddalena, la cascina sull’orlo del cantiere-fortilizio, poi ai terreni posseduti dai No Tav in località Colombera, per unirci a uno dei famosi “pranzi del mercoledì”. Con noi c’erano due dei 1.400 proprietari, Guido e Nicoletta.

Si chiamava la Colombera perché, sulla collina, si ergeva una torre abbandonata e ammantata di rampicanti che era servita, appunto, da colombaia. Un tempo ce n’erano tante, sparse in tutto il nord Italia, da Ventimiglia a Venezia. Si allevavano colombi per vari motivi: per mandarli in giro con messaggi; per addestrare gli stormi e farli volare in apposite competizioni; per farne richiami da caccia; per mangiarli… e per tutte queste cose insieme. E poi, i colombi erano belli. Erano magici. Ricordavo colombe bianche uscire in un frullo d’ali dalle maniche di Silvan. Mariano, il mio amico mago, mi aveva raccontato di un illusionista alcolizzato che aveva perso i sensi poco prima dello show e, crollando al suolo, aveva schiacciato tutte le colombe che portava nascoste nel blazer, prigioniere.

Alla mia domanda su chi avesse allevato colombi in quella torre, Abraracourcix aveva sciorinato informazioni: “Fino al 1713 Chiomonte e la val Clarea erano terra di confine tra il regno di Francia (e prima ancora il Delfinato) e le terre dei conti di Savoia… È probabile che ci fosse una guarnigione, e che questa allevasse piccioni per poter comunicare con le guarnigioni di Oulx e Briançon. In seguito la torre è rimasta, e probabilmente i colombi erano allevati per cibarsene”.

La Colombera mi faceva pensare al mago etilista dell’aneddoto: solinga, piena di fantasmi di uccelli da diporto, stava proprio sul ciglio di un dirupo e sembrava vacillare, sbilanciata da un cappuccio di rampicanti. Quanto al dirupo, s’affacciava su un orrido. Scendevi una scalinata e arrivavi alla sorpresa: uno specchio d’acqua sotterraneo che pochi conoscevano. Figurava già, con il nome di Lago piccolo, nella Carta topografica in misura della Valle di Susa e di quelle di Cezane e Bardonneche divisa in nove parti, realizzata dai cartografi sabaudi tra il 1764 e il 1768. Era acqua risorgiva della Dora, sbucava lì passando per chissà quali anfratti, limpida, perfettamente trasparente e dunque verde smeraldo, come il fondo nel quale l’occhio andava a distendersi.

Nel 2008, quand’era ministro dei trasporti tale Antonio Di Pietro, nei pressi della Colombera doveva sbucare ben altro: il (ratataplan!) “tunnel di base” della Torino-Lione. Si parlava anche di un viadotto attraverso le Gorge della Dora. Il movimento aveva avuto l’idea di comprare il terreno, dividendolo poi in 1.397 minilotti da meno di un un metro quadro, ciascuno proprietà di un attivista. L’intento era complicare le procedure di esproprio; in subordine, si voleva stabilire un nuovo avamposto. La prima festa dell’acquisto collettivo, chiamata Compra un posto in prima fila, si era svolta il 30 marzo 2008, una delle tante giornate memorabili nella storia e nella tradizione orale dei No Tav.

Nel giugno dello stesso anno si era fatto il bis a Venaus: 1.500 acquirenti No Tav per il terreno dov’era sorto il presidio più famoso, quello sgomberato dalla polizia il 5 dicembre 2005 e riconquistato tre giorni dopo da una moltitudine mai vista prima, un’alluvione di corpi che aveva travolto e messo in fuga le forze dell’ordine. Era stata la vittoria più importante, quella che aveva costretto l’avversario a cambiare piani, a ritrarsi dalla bassa valle e salire, inerpicarsi, cercare una gola in alta valle dove andarsi a rintanare.

Il terzo acquisto di massa era avvenuto più alla chetichella. Nel gennaio 2010, i No Tav avevano appreso che il cantiere del “cunicolo geognostico”, quello sbaraccato a Venaus quattro anni prima, avrebbe aperto in val Clarea, tra Giaglione e Chiomonte, accanto ai piloni dell’autostrada, nei pressi della cascina che i valligiani chiamavano – per via di un’immagine di donna affrescata su un muro – La Maddalena. Sessantaquattro No Tav erano andati dal notaio e avevano comprato un terreno proprio dove la bestia voleva riaprire le fauci. Un terreno fino a quel momento oscuro e ingrato, ma strategico per contrastare gli invasori nonché, di lì a poco, destinato alla celebrità: la “particella numero 31, foglio XV, seminativo di 889 metri quadri”.

Un ultimo raduno per l’acquisto di terreni minacciati si era svolto in un gelido e fradicio giorno d’ottobre del 2012, su un prato di San Giuliano di Susa. Più di mille persone a fare la fila sotto pioggia e nevischio, per presentarsi una alla volta davanti al notaio – lo stesso notaio delle volte precedenti, Roberto Martino, uno che in quelle circostanze doveva divertirsi un mondo – e comprare un metro quadro di terra a testa. Prezzo: 15 euro. Il regista Daniele Gaglianone aveva immortalato l’evento per includerlo nel suo documentario Qui.

 

Un animale bellissimo

L’acquisto più strategico si era rivelato il terzo, perché lo scontro si era rapidamente spostato in val Clarea. Il movimento aveva stabilito un presidio permanente, che nella tarda primavera del 2011 si era evoluto nella

Libera / Repubblica / della Maddalena.

Pronunciare quel nome ancora emozionava, i valsusini lo scandivano, lo facevano sembrare una poesia. Un esperimento di lotta e autogestione avanzatissimo, un minuscolo Rojava – che infatti in curdo vuol dire ovest – nel west della provincia di Torino. Due mesi che riempivano il movimento di nostalgia: dalla proclamazione del 23 maggio allo sgombero poliziesco del 27 giugno.

Il 3 luglio, il movimento aveva provato a ripetere il felice exploit di Venaus, di riprodurre quell’onda umana, travolgere gli usurpatori di terra e riprendersi la repubblica. Ma la val Clarea non era il fondovalle, e stavolta le forze dell’ordine erano pronte. Dopo una lunga giornata di avanzate, inseguimenti, nubi di lacrimogeno, manganellate e schermaglie nei boschi, la cornamusa dei No Tav aveva dovuto suonare la ritirata. Del vecchio presidio era rimasta una baita dove i No Tav facevano i turni, circondati dal cantiere che cominciava a ribollire, escrescere, sbuffare spore che divoravano il bosco.

Il 27 febbraio 2012, il cantiere aveva attaccato anche la baita. Durante l’assalto era avvenuto uno degli “incidenti” più noti della lotta No Tav: il contadino Luca Abbà, proprietario di uno dei metri quadri che il cantiere andava usurpando, era salito per protesta su un traliccio dell’alta tensione. Inseguito da un poliziotto, si era spostato sempre più su, finché non aveva preso la scossa ed era precipitato a terra, entrando in coma.

Luca si era salvato. I Cattolici per la vita della valle pensavano fosse anche merito loro: il Signore aveva ascoltato le loro preci. Beghine che pregavano per la salvezza di un anarchico! Il movimento No Tav era un animale bellissimo.

 

Assediare gli assediatori

Da allora i nemici si erano asserragliati in quella gola ed erano cambiati i rapporti tra movimento, popolazione della valle e grande opera. Non più la sfida in campo aperto, come ai tempi della battaglia del Seghino – 31 ottobre 2005 – e della riconquista di Venaus. Non più la militarizzazione appariscente del territorio e del consesso civile, con posti di blocco ovunque e forme di controllo odiose. No, da quel momento si trattava di inventare forme di creativa e capillare pressione sul cantiere.

L’articolo 19 della cosiddetta legge di stabilità 2012 – legge numero 183 del 12 novembre 2011 – aveva dichiarato il cantiere e l’area circostante “aree di interesse strategico nazionale”, equiparandole a zone militari, e come zone militari erano presidiate e difese. Non si trattava più solo di poliziotti: lungo i recinti e nei boschi si aggiravano militari di vari corpi, dagli alpini della Brigata Taurinense ai cacciatori di Sardegna, unità speciale dei carabinieri.

Nel mio primo racconto No Tav per Internazionale – Folletti, streghe, santi e druidi in val Clarea, del marzo 2013 – avevo passato in rassegna svariate invenzioni e tattiche di guerriglia del movimento: campeggi, preghiere di gruppo, riti pagani, apparizioni di spiritelli, “battiture” e tagli delle reti… Ma c’era una grossa lacuna: erano rimasti fuori i “gesti profetici” del siciliano Turi Vaccaro, veterano di tutte le lotte pacifiste e antimilitariste da Comiso 1981 in avanti, anzi, da prima ancora.

Il 4 agosto 2011 Turi, penetrato nella “zona rossa” che cingeva il cantiere, era salito su un grande cedro. Era rimasto lassù, tra i rami, per due giorni e due notti, in sciopero della fame, bevendo solo la sua urina, comunicando con i No Tav tramite note scritte che appallottolava e gettava oltre la recinzione. In una delle ultime si leggeva: “Vorrei restare quassù, ma mi rimangono poche energie per continuare il digiuno e per resistere, soprattutto se ci sarà ancora una notte con pioggia e vento”. Si sarebbe “arreso” solo a don Luigi Ciotti, aveva detto poco dopo. Quest’ultimo – grandissimo performer – non si era fatto attendere: giunto in val Clarea, era salito su un’autoscala dei vigili del fuoco. Il prete e il santo si erano abbracciati a venti metri d’altezza, e Turi era sceso tra gli applausi del popolo No Tav.

Poco tempo dopo, senza una ragione difendibile, il cedro era stato abbattuto. La vendetta dei potenti sbeffeggiati deturpa il mondo.

Il 4 marzo 2012, una settimana dopo la caduta di Luca Abbà, Turi si era arrampicato sullo stesso traliccio. Ci era rimasto appollaiato tutta la notte. Le guardie, ancora scottate per le polemiche sul 27 febbraio, non avevano osato salire. Nessun tentativo di trascinarlo giù.

Il 5 settembre 2015 Turi aveva eluso la sorveglianza ed era apparso all’improvviso nel cantiere, a due passi dai poliziotti allibiti, a torso nudo e in calzoncini, la barba grigia, i capelli lunghi e caldi di sole, nelle mani una bandiera No Tav, inatteso e più che mai incongruo, come un ologramma, però tangibile. Prima che le guardie potessero battere le ciglia due volte, si era messo nella posizione yoga del Sîrsâsana, quella che noi profani chiamiamo “la verticale”.

Una delle più recenti forme di pressione sul cantiere erano appunto i “pranzi del mercoledì”, e noi avevamo fame, e rieccoci dov’erano rimasti i nostri corpi mentre il pensiero spaziava: al checkpoint di via dell’Avanà.

Avevamo tutto il diritto di passare, ma i blu di Prussia ci tennero fermi a lungo mentre facevano controlli, telefonate, sentivano questo o quel funzionario del tale ufficio… Infine, ci dissero che chi non possedeva terreni non poteva entrare.

“Loro sono proprietari terrieri?”, ci chiesero, usando precisamente quell’espressione.

“No, io faccio il fotografo”, rispose Michele.

“E Lei?”, domandarono a me.

“Io faccio lo scrittore”.

“E Lei?”, rivolgendosi a Mariano.

“Scrittore anch’io”, e per fortuna non aggiunse “illusionista”.

Prima che le guardie chiedessero a tutti che lavoro facessero, Guido, Nicoletta e Simone cominciarono a protestare: “L’ordinanza del prefetto vieta l’accesso a quest’area solo dopo le 19, non avete nessun motivo per impedirci di passare”.

Quelli si riattaccarono al telefono, e poco dopo riferirono: “La dirigente comunica che, per la loro incolumità, devono lasciare sgombro questo passaggio e uscire da quest’area”.

“Ah, sì? Bene, fatela venire qui, la dirigente. Noi intanto chiamiamo i nostri avvocati”.

Forse li aveva insospettiti il numero, perché eravamo in sette: io, Michele, Simone, Filippo, Mariano, Guido e Nicoletta. Chissà cosa stavamo complottando!

Nel prosieguo del battibecco, arrivarono a dire che l’ordinanza da noi citata non era più valida, ché ogni giorno il prefetto ne emetteva una nuova. Una simile prassi ci parve dispendiosa e poco plausibile, così chiedemmo di vedere l’ordinanza di quel giorno. Dissero che non ce l’avevano.

Telefonammo all’avvocato Valentina Colletta, del Legal team No Tav. Disse che avrebbe chiamato direttamente la prefettura.

Mentre aspettavamo, qualcuno mi chiese: “Che articolo hai in mente di scrivere?”.

Per rispondere, dovetti riavvolgere il nastro.

 

Sentenzaiola

Mentre il 2015 affievoliva, e dopo una gragnuola di notizie che avevano ammaccato la reputazione in loco di alcuni vip torinesi ma non erano arrivate nel resto d’Italia, proposi a Internazionale un nuovo racconto sulla lotta in val di Susa. Da tempo lavoravo a un libro-monstre sul movimento e sentivo l’urgenza di fare un compendio. Un punto della situazione.

A un quarto di secolo dai primi vagiti di protesta, a che punto si trovava il movimento No Tav?

Nel novembre 2015 il Tribunale permanente dei popoli (Tpp), dopo un impegnativo lavoro istruttorio e un lungo dibattimento, aveva dichiarato:

In val di Susa si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali. Da una parte, quelli di natura procedurale, come i diritti relativi alla piena informazione sugli obiettivi, le caratteristiche, le conseguenze del progetto della nuova linea ferroviaria tra Torino e Lione…; [i diritti] di partecipare, direttamente e attraverso i suoi rappresentanti istituzionali, nei processi decisionali relativi alla convenienza ed eventualmente al disegno e alla costruzione del Tav; di avere accesso a vie giudiziarie efficaci per esigere i diritti sopra menzionati. Dall’altra parte si sono violati diritti fondamentali civili e politici come la libertà di opinione, espressione, manifestazione e circolazione, come conseguenze delle strategie di criminalizzazione della protesta… [Ci sono state] violazioni che sono il prodotto di azioni deliberate e pianificate: la diffusione di informazioni contenenti falsità e manipolazione dei dati relativi alla necessità, alla utilità, all’impatto dei lavori; la simulazione di un processo partecipativo con l’istituzione dell’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino Lione, che arriva a escludere i dissidenti e ad annunciare un accordo [con le amministrazioni locali] inesistente… Pratiche amministrative, legislative, giudiziarie, di polizia che includono anche la persecuzione penale sproporzionata e la imposizione di multe eccessive e reiterate, l’uso sproporzionato della forza.

Parole durissime, motivate in un dispositivo di sentenza che il movimento aveva subito diffuso in rete, distribuito in migliaia di copie a stampa… e veicolato in modi “alternativi”.

La sera del 10 novembre il mio gruppo guerrigliero preferito, il Nucleo pintoni attivi (Npa), aveva organizzato una “sentenzaiola”, un lancio di copie della sentenza – arrotolate a mo’ di pergamena e legate con nastrini rossi – oltre la recinzione del cantiere Tav. Hai visto mai che un poliziotto s’incuriosisce e la legge? Macché, come donar sangue a una pietra. Di là dal filo spinato, solo sguardi vacui e sogghigni spenti. I poliziotti avevano preso le “pergamene” e le avevano rilanciate ai mittenti. Nel mentre, un attivista leggeva la sentenza al megafono, ma hai presente quando uno ostenta di non volerti ascoltare, si mette le mani sulle orecchie e salmodia qualcosa tipo lololololololololololo? Ecco, così. E i Pintoni s’erano forse fatti scoraggiare? Avevano perso anche solo un’oncia di buonumore? Non sia mai.

Allontanatisi dal cantiere, avevano portato una copia della sentenza alla caserma dei carabinieri di Susa, e avevano chiesto che fosse protocollata.

Erano attivisti in gran parte over 60, con svariati over 70 e perfino qualche over 80. Il gruppo prendeva il nome dal “pintone”, la bottiglia di vino da due litri. La sigla Npa, vagamente “lottarmatesca”, intendeva prendere per i fondelli quei cronisti, opinion-maker e uomini di legge che amavano dipingere una val di Susa in balìa di imprecisati terroristi. Un unico grande covo.

 

Repressione e intimidazione

Il Tribunale permanente dei popoli era un tribunale d’opinione che indagava sulle violazioni dei diritti umani e delle libertà civili. Era nato nel 1979 su iniziativa di Lelio Basso, l’autore del comma più bello e utopico della costituzione italiana, il secondo dell’articolo 3:

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

Il Tpp operava sulla scia del Tribunale Russell I, fondato da Bertrand Russell per indagare sui crimini di guerra degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam. Successive incarnazioni del Tribunale Russell si erano occupate delle dittature latinoamericane (Cile, Brasile, Uruguay), della questione palestinese e dell’etnocidio dei popoli amerindi. Anche il Tpp si era dato parecchio da fare, conducendo inchieste e tenendo sessioni in mezzo mondo.

Nell’autunno del 2015, accettando l’invito del Controsservatorio Valsusa, il tribunale si era insediato a Torino, aveva ascoltato decine di ore di testimonianze, acquisito relazioni di ingegneri geologi economisti giuristi… Aveva anche contattato i proponenti e difensori della grande opera, i quali avevano risposto schermendosi nel modo più banale e passivo-aggressivo: “Non abbiamo niente da dire, è tutto scritto nei documenti”.

I membri del tribunale avevano cercato di visitare il cantiere Tav… e toccato con mano il clima di repressione e intimidazione che circondava l’opera. “Nella loro visita alla zona”, si leggeva nel dispositivo della sentenza “i membri di una delegazione del Tpp sono stati trattati come potenziali delinquenti. Ciò rende evidente che gli effetti sulla vita quotidiana degli abitanti sono stati enormi…”.

“Il tribunale aveva fatto richiesta ufficiale al direttore dei lavori”, mi avrebbe raccontato l’attivista Ezio Bertok, “ma l’accesso era stato negato con vari pretesti. Abbiamo accompagnato la delegazione ai bordi del cantiere… Sono stati sottoposti a controlli di documenti, attese lunghe, registrazioni, continua osservazione con telecamere… Decine e decine di funzionari della Digos circondavano i giudici. Un atto intimidatorio, e secondo me anche stupido”.

Sapevo bene di che parlava, era capitato anche a me nel gennaio 2014, quando avevo accompagnato in val Clarea Mark Savage e Lucy Ash, due giornalisti della Bbc. Una squadra di forzuti in mimetica e occhiali neri, con fare ostile, aveva circondato i due attoniti reporter e li aveva costretti a cancellare le foto del cantiere appena scattate con i telefonini. “Questo è un luogo pubblico dove si eseguono lavori pubblici spendendo soldi pubblici”, aveva commentato Mark. “Anche soldi dell’Unione europea. Io sono un cittadino dell’Ue, quei soldi escono dalle mie tasche e non posso vedere come vengono spesi?”. Vagliela a spiegare, agli inglesi, la legge di stabilità 2012.

I mezzi d’informazione mainstream nazionali avevano ignorato la sentenza del Tpp e quelli locali avevano tentato la via dell’irrisione, ma per il movimento era un risultato da valorizzare, una certificazione degli sforzi compiuti, un pieno riconoscimento delle ragioni di chi si opponeva alla grande opera.

Nel frattempo, dopo mesi in cui si era cercato di far passare l’idea di una valle “ormai pacificata”, nei pressi del cantiere erano ripresi gli scontri; lo scrittore Erri De Luca era stato inquisito per i contenuti di una sua intervista contro il Tav, processato per istigazione a delinquere e infine assolto perché il fatto “non sussisteva”; la corte di cassazione aveva smontato gli impianti accusatori di diverse inchieste contro il movimento, escludendo le fattispecie dei reati con finalità di terrorismo; il pool anti-No Tav messo in piedi dal procuratore Giancarlo Caselli – in valle li chiamavano “i pm con l’elmetto” – aveva sollevato tali e tante critiche negli ambienti del diritto e in una parte dell’opinione pubblica, che il nuovo procuratore Armando Spataro – non certo una “colomba” – aveva deciso di smantellarlo. Il 22 dicembre 2015, La Stampa aveva titolato: “Finita un’era, la Procura cambia strategia”.

Insomma, era il momento buono per passare di nuovo qualche giorno in valle, fare sopralluoghi e interviste, raccontare come stavano il movimento No Tav e – per sineddoche – il variegato movimento contro le grandi opere dannose, inutili e imposte, a un anno dal decreto definito “SbloccaItalia”. Nome che mi aveva sempre fatto pensare a un purgante.

Era una guerra di mondi, e per giunta asimmetrica. Il 6 novembre 2015, mentre il Tpp ascoltava testimonianze a Torino, il premier Renzi aveva estratto dal cilindro il coniglio del ponte sullo stretto di Messina. Sguardi colmi d’orrore: la bestiola era in putrefazione.

Il direttore aveva risposto: “Ok”.

Poi aveva aggiunto: “Porta con te un fotografo”.

 

Seconda parte

 

Il partito del Tav

Già il giorno prima, 26 gennaio 2016, avevamo toccato un confine del cantiere. Dall’alto delle palizzate, le spire di filo-rasoio fremevano e irradiavano minacce. Eravamo scesi fino alla baita – quella che era stata l’ultimo residuo di libera repubblica – senza che nessuno ci fermasse, arrivando a piedi da Giaglione. Con noi c’erano Maurizio e Irene.

Maurizio era un giornalista indipendente. Tempo addietro aveva scritto un libro d’inchiesta, Chi comanda Torino (Castelvecchi, 2012), che aveva fatto discutere sin dal titolo. “Sono stato criticato per l’uso transitivo del verbo”, mi aveva detto, “ma rende bene l’idea, nella Torino del dopo Fiat c’è una catena diretta che va dai padroni della città a tantissimi esecutori materiali”. Diversi uffici legali, su mandato di politici e uomini d’affari menzionati nel libro, avevano rastrellato le pagine in cerca di pretesti per querele o cause civili, ma non avevano trovato nulla. Il libro era una distesa nitida di fatti, e Maurizio citava tutte le fonti.

Chi comanda Torino me l’aveva consigliato il comitato Spinta dal Bass: “Leggilo, può servirti a mettere a fuoco certi cui prodest della Torino-Lione”.

Nel 2012, Pagliassotti identificava il “partito del Tav” con “l’élite che ha comandato Torino negli ultimi vent’anni e che, recentemente, ha preso le redini del paese”. Si riferiva ai centri di potere – enti, banche, fondazioni e atenei – dai quali provenivano svariati ministri del governo Monti, un esecutivo molto “torinese” targato Intesa Sanpaolo e Politecnico. La maggioranza che sosteneva quel governo vedeva già insieme il Partito democratico (Pd) e una parte di centrodestra, ma Pagliassotti invitava a guardare più in là, a più esplicite “larghe intese”, a un esperimento in corso in val di Susa.

Alle elezioni amministrative di Avigliana, il comune più popolato della valle, il Pd si sarebbe presentato alle elezioni insieme al Popolo della libertà, in chiave esplicitamente contraria al No Tav. “Sarà un caso”, aggiungeva Pagliassotti, “ma Avigliana è la città del sindaco di Torino, Piero Fassino.”

All’epoca, Matteo Renzi era solo il sindaco di Firenze, il “patto del Nazareno” era di là da venire e ancora non si parlava di Partito della nazione, ma la val di Susa era da tempo un laboratorio politico, e lo era per tutti, da un lato e dall’altro del filo-rasoio. Nelle soluzioni adottate per arginare i No Tav, Pagliassotti vedeva il futuro politico di Torino e del paese.

Nel maggio 2012 il Partito della nazione favorevole al Tav era stato sconfitto dalla lista civica Avigliana città aperta, ma la strada da seguire era ormai indicata.

Ora Maurizio Pagliassotti stava scrivendo un nuovo libro, un’inchiesta sul potere delle fondazioni bancarie. “Sono loro i veri padroni delle città”, mi aveva detto al telefono, “perché sono i padroni del debito. Le amministrazioni contano sempre meno, sulla poltrona di sindaco potrebbe esserci chiunque, potrei esserci anch’io, è uguale”.

“Domani sono in valle, riusciamo a fare quattro chiacchiere? Mi servono aggiornamenti rispetto a quel che scrivevi nel 2012”.

“Volentieri, dove ci vediamo?”.

“Ti va di unirti a una scampagnata?”.

 

Penne nere

Poco oltre Giaglione, scoppiammo a ridere vedendo una scritta sulla centralina dell’A32. Era un distico di settenari a rima baciata, ma l’ultima parola l’avevano coperta, affinché il “bacio” non si posasse su una certa parte del corpo.

“Alpino

paparazzo,

fotografa

………………. “.

Chissà perché non avevano cancellato l’intera scritta. La censura aveva ottenuto l’effetto opposto: repressa da una mano di vernice bianca, la rima esplodeva nella testa come un razzo contro un palazzo, erompeva dalla centralina come un pupazzo a molla, dick-in-the-box.

Già, gli alpini.

Solo il giorno prima, al Sestriere, alcuni dimostranti antimilitaristi e No Tav avevano rovinato l’inaugurazione dei campionati sciistici delle truppe alpine, aprendo uno striscione che doveva aver mandato di traverso la grappa a più di una penna nera:

“Dall’Afghanistan alla val Susa, fuori la casta militare”.

CasaPound, sul suo organo Il primato nazionale, l’aveva definita: “Un’altra offesa agli Alpini, un’altra prova di attivismo anti-italiano di cui avremmo fatto velentieri [sic] a meno”.

La spiegazione dei fascisti-del-terzo-millennio era, al solito, “tirata via”. La presenza degli alpini tra i guardiani del cantiere-fortilizio aveva causato malumori e proteste anche in soggetti poco imputabili di “antitalianità”, ovvero tra un gran numero di vecchi appartenenti al corpo.

Il 24 luglio 2011, un mese dopo lo sgombero della libera repubblica, un raduno di alpini No Tav aveva riempito le vie di Chiomonte e approvato il testo di una lettera aperta alle più alte autorità militari. La missiva, indirizzata all’allora capo di stato maggiore della difesa generale Biagio Abrate e all’allora comandante della brigata alpina Taurinense, generale Francesco Paolo Figliuolo, era firmata “Ufficiali, sottufficiali e alpini in congedo della val Susa appartenenti al Movimento No Tav”, e diceva:

Come noto, a far data dal 19 luglio u.s., truppe appartenenti alla Brigata Alpina Taurinense sono giunte, quale supporto alle forze dell’ordine nella sorveglianza/gestione… del cosiddetto cantiere per il tunnel geognostico, alla Maddalena di Chiomonte… La popolazione locale ha percepito da subito la presenza delle Truppe Alpine a difesa di un’opera che vede la contrarietà della stragrande maggioranza dei valligiani, come una vera e propria occupazione militare della propria terra… Riteniamo inconcepibile che l’Esercito venga utilizzato per regolare questioni che la politica ha originato e poi, per via della sua incapacità, non riesce più a controllare… [Tale dispiegamento ha] aspetti vessatori proprio nei confronti della popolazione locale che, ricordiamo, ha dato decine di migliaia di alpini ed artiglieri al nostro Esercito e, come si può vedere nelle lapidi presenti in ogni comune, anche migliaia di morti nelle varie guerre a cui il nostro Paese ha partecipato.

Un’evidente allusione agli alpini No Tav l’aveva fatta pochi mesi dopo il gruppo teatrale Oblivion. Dopo la caduta di Luca Abbà dal traliccio, Alessandro Sallusti aveva definito l’attivista No Tav “un Cretinetti”. Gli Oblivion avevano risposto al direttore del Giornale ribattezzandosi Brigata Cretinetti. Con quel nome, avevano composto e cantato in coro una canzone alpina, La piccola vedetta piemontese. Nel video caricato su YouTube portavano cappelli da alpini, maschere da Zorro e corpetti gialli da soccorso stradale.

Dimmi vedetta che cos’è che vedi in Val di Susa

Dimmi vedetta che cos’è che vedi in Val di Susa

C’è un contadino sopra il palo che difende il suo paese

C’è anche un gendarme sopra il palo che difende il suo paese

Dimmi vedetta che cos’altro vedi in Val di Susa

Dimmi vedetta che cos’altro vedi in Val di Susa

Vedo il gendarme che

suona la carica

lui vuol salire un po’ più in su

e il contadi-ino

prende la scarica

e da quel palo lui cade giù

Ma i militari più detestati erano i cacciatori di Sardegna. Si aggiravano in val Clarea fin dai primi giorni dopo lo sgombero della Maddalena, e avevano partecipato alla battaglia del 3 luglio 2011. Uno di loro era stato rinviato a giudizio con l’accusa di aver bastonato un manifestante già ferito e bloccato a terra. Per i cacciatori, il movimento aveva coniato uno slogan ad hoc:

Ti credi un duro, vai per sentieri,

ma sei pur sempre dei carabinieri

 

Al governo c’è un numero

Dopo la camminata ci spostammo a Susa, nel primo bar che trovammo, dove Maurizio ci raccontò su cosa stava lavorando.

Se Torino ha un miliardo e mezzo di debito con Intesa Sanpaolo e il primo azionista di Intesa Sanpaolo, la Compagnia di San Paolo, finanzia l’apertura degli asili nido della città, il meccanismo è semplice e ovvio. E così per mille altre cose. Lo stato sociale in questa città è rappresentato dalla Compagnia di San Paolo e dalla fondazione Cassa di risparmio di Torino (Crt). Loro hanno le chiavi della città, qualunque cosa accada. All’interno delle fondazioni poi ci sono uomini nominati dai partiti e dalle camere di commercio, quindi si crea quest’intreccio, lo stato è sostituito da un amalgama ambiguo… Le istituzioni non soggiacciono più al diritto pubblico, ma a quello privato, quello delle imprese. Una città può fallire, come se fosse un negozio. E infatti i primi segni del fallimento ci sono. Torino è tra le città con il maggior numero di aste immobiliari. A Torino ti puoi comprare un alloggio con cinquemila euro. Torino in cinque anni ha venduto quasi tutto quello che c’era da vendere. Ha venduto il patrimonio Unesco, ha venduto l’inceneritore, ha venduto i servizi. Sono scesi di trecento milioni nel debito della città, che è quello che governa in questo momento. Al governo c’è un numero, o un algoritmo. È di questo che sto scrivendo.

E la Torino-Lione? Che rapporto c’era tra i poteri della città e il buco in val Clarea? Perché l’establishment torinese si era a tal punto identificato con la grande opera?

Ci sono tanti motivi. Ragioni economiche: all’inizio l’alta velocità era un grande affare Fiat, oggi si tratta degli appalti a ditte e cooperative amiche. E c’è quello di cui mi sto occupando: la finanza, il sistema del debito. L’architettura economica di questa grande opera è enigmatica, ma io ho un’ipotesi, mi sono fatto un’idea di dove andrà a parare il partito del Tav, finanziariamente parlando. E poi ci sono i moventi ideologici. Per esempio, i conti da regolare con le lotte degli anni settanta: molti soggetti di quelle lotte, dopo le sconfitte, dalla città si erano spostati in valle. Il potere torinese – politico, mediatico e giudiziario – era convinto di essersene liberato per sempre e quando se li è ritrovati davanti è andato fuori di testa. Oggi questo establishment e lo stato tentano di salvare la faccia, perché in valle hanno incontrato una resistenza popolare, eterogenea, variegata, che li ha obbligati più volte a cambiare piani. Cercano di non farlo capire, e di estrarre comunque valore dalle vittorie dei No Tav.

“Ecco, appunto”. mi inserii. “Di solito in Italia si cantierizza la grande opera senza discutere, si asfalta e cementifica per l’anima del cazzo e se qualcuno si oppone viene trattato da fastidioso menagramo, basta con il partito dei no che blocca il paese! Dopodiché, ci si lamenta a cose fatte, o a cose lasciate a metà, in ogni caso quando è troppo tardi. Con la vittoria di Venaus del 2005 i No Tav hanno rallentato i piani della controparte, permettendo a sempre più persone di vedere le magagne della Torino-Lione prima che fosse cantierizzata. Come si estrae valore da questa vittoria?”.

Maurizio ci spiegò la sua ipotesi. Dopo averla sentita, la ruminai a lungo dentro la testa. Il conflitto, pensai, si giocava tutto sui tempi. Lo avrebbe vinto chi fosse rimasto in piedi nella cronotempesta di previsioni, ritardi, avviamenti, slittamenti, tendenze, accelerazioni, rallentamenti, interruzioni, stalli, scadenze, proroghe e scommesse alla cieca sul futuro.

 

Alla vecchia maniera

Quella mattina del 27 gennaio, al checkpoint di via dell’Avanà, il sole e l’assurdità si avvicinavano ai loro zenit.

“State impedendo l’accesso a persone che poi lo scriveranno su giornali e libri”, disse Simone. “Quando verrà fuori che l’ordinanza dà ragione a noi, ci farete una figuraccia”.

“I signori sono giornalisti iscritti all’Ordine?”, chiese una guardia.

“No”, risposi io. “L’abbiamo già detto, siamo scrittori”.

“Allora stanno facendo esercizio abusivo della professione”.

“Quale professione? Quella di scrittore?”.

Mentre il Legal team faceva telefonate per smentire i blu di Prussia e la “dirigente” che li muoveva a distanza, io chiacchieravo con Guido Fissore, uno dei fondatori dei Pintoni Attivi.

“Com’è nata l’usanza dei pranzi del mercoledì?”.

Prima facevamo le colazioni del mercoledì, la mattina presto, proprio dove siamo adesso, con la tavola imbandita davanti al cancello, perché non si poteva entrare. Abbiamo cominciato nell’estate del 2014. Quando è cambiata la stagione, si è spostato tutto a mezzogiorno, perché la mattina presto faceva freddo. Ogni volta chiedevamo di accedere ai nostri terreni, e facevamo azioni di disturbo. C’è un’ordinanza del comune di Chiomonte, fatta nel 2005, che vieta il passaggio su via dell’Avanà ai mezzi più pesanti di trentacinque quintali, così fermavamo i camion grossi – camion da trentacinque tonnellate, non quintali – e leggevamo ai conducenti il testo dell’ordinanza. La controparte ha minacciato di denunciarci per ‘violenza privata’, quindi abbiamo segnalato la questione al comune, c’è stata anche un’interrogazione al consiglio comunale. L’abbiamo fatto notare anche ai carabinieri, ma hanno detto che doveva occuparsene la stradale.

Intanto erano arrivati altri proprietari di metri quadrati diretti alla Colombera.

“Co a capita ‘nbele si?!”.

“Non vogliono far passare il fotografo e gli scrittori”.

“E che novità sarebbe?”.

Il capannello s’ingrandiva e rumoreggiava, e i blu di Prussia erano sempre più nervosi.

La maggior parte dei presenti aveva i capelli grigi, perché in valle si stava verificando un fenomeno inusuale: la crescente radicalizzazione dei più attempati. Il momento rivelatore si era avuto nella notte tra il 12 e il 13 settembre 2015, quando un gruppo di persone incappucciate aveva attaccato il cantiere con fuochi artificiali e petardi, dopo aver bloccato i cancelli con catene e lucchetti per impedire alle guardie di uscire. Le forze dell’ordine avevano risposto con il cannone ad acqua, e quand’erano riuscite a intervenire avevano fermato nove persone.

Poliziotti e militari erano rimasti di stucco nello scoprire, sotto i cappucci, non visi da giovinastri del “blocco nero”, ma baffoni bianchi e fronti rugose. Il drappello era composto da settantenni. Che ci provassero, Libero e Il Giornale, a chiamare “figli di papà” quei facinorosi dalle mani grosse e callose, il fisico di chi ha sulle spalle quarant’anni di lavoro in fabbrica o nei campi.

I “giovinastri”, dal canto loro, erano a casa o al presidio di Venaus, al telefono con gli avvocati, preoccupatissimi per i loro nonni.

I fermati avevano chiesto di essere portati in caserma, ma le guardie ci avevano pensato bene: già s’erano fatte prendere per il naso da una brigata di vecchietti, figurarsi le pernacchie se li avessero portati in cella. “Andate a casa, circolare, non c’è più niente da vedere qui.”

Il video dove due degli assaltatori rivendicavano l’azione era straniante. “Quel che vogliamo fare”, dicevano, “è distruggere quel cantiere di merda. Abbiamo visto che è attaccabile e continueremo ad attaccarlo. Chi semina vento raccoglie tempesta, e noi siamo la tempesta”. Dichiarazioni di fuoco fatte da due pensionati.

In tutte le zone d’Italia, i pensionati guardavano i cantieri. Nello slang di Bologna li chiamavamo “umarells”, lieve anglicizzazione del felsineo “umarell”, ometto. In val di Susa, gli umarells non si limitavano a guardare i cantieri: li assaltavano.

“Pochi mesi fa”, continuò Guido, “la nuova ordinanza ha permesso l’accesso ai terreni, così abbiamo spostato il pranzo alla Colombera. Noi entriamo e loro ci controllano a distanza. I venerdì sera, invece, facciamo la cena qui davanti al cancello, è importante fare pressione, rendere visibile la struttura militare. Qui dentro, di fatto, tra tutti e quattro i turni lavora appena un centinaio di persone, mentre le forze dell’ordine sono sempre più del doppio, ed è una presenza costosissima”.

Già. Quanto costava alla collettività quello spiegamento di forze per difendere il cantiere di un’opera che, plausibilmente, non sarebbe mai stata finita e anzi, a dirla tutta, a un quarto di secolo dai primi annunci non era nemmeno cominciata?

 

“Mi dica a cosa serve quel buco”

Che cantiere era, nel 2016, quello in val Clarea?

Molti italiani credevano fosse già il cantiere della Torino – Lione, perché i mezzid’informazione parlavano genericamente di “cantiere della Tav”. A proposito, in valle nessuno coniugava “Tav” al femminile. Era sempre il Tav, era un potere celodurista, tutto foia esibita (il buco! Il buco!) e muscoli gonfiati con il compressore.

In una puntata della trasmissione televisiva Servizio pubblico condotta da Michele Santoro, l’attivista No Tav Lele Rizzo aveva indicato un fermo immagine del cantiere e, a dispetto delle continue interruzioni di Giorgia Meloni, era riuscito a cogliere alla sprovvista il dirigente del Pd Ernesto Carbone, chiedendogli a bruciapelo: “Lei lo sa a cosa serve quel buco che stanno facendo? Solo quello le chiedo. Mi risponde alla domanda? Io sono un cittadino, ho l’opportunità di farle questa domanda, alzo la mano e chiedo. Lei lo sa a cosa serve quel buco? Lo sa che non passerà di lì il treno? Molti credono che quella sia già la galleria del treno. Lei è un deputato, difende quest’opera, quel buco costa un sacco di soldi… Ce lo sa dire a cosa serve?”.

Carbone non aveva saputo rispondere.

E gli italiani lo sapevano, a che serviva quel buco?

No.

Nominalmente, quello della Maddalena era un tunnel geognostico, cioè un cunicolo esplorativo, per analizzare gli strati di roccia sotto il massiccio dell’Ambin – ricco di uranio e radon – e provare lo scavo con la “Talpa”. Se un lontano giorno si fosse realizzato il tunnel di base, la galleria sarebbe servita come canna di servizio in caso di incidenti o guasti, un ulteriore accesso per poter giungere all’area di sicurezza sotterranea chiamata Clarea.

I cunicoli esplorativi, di solito, si scavavano paralleli al tunnel di base, per avere una stratigrafia simile a quella che si sarebbe incontrata nell’opera vera e propria. A Venaus sarebbe stato così, ma il movimento aveva spazzato via il cantiere nel 2005. Il tunnel geognostico della Maddalena era inclinato di circa 60 gradi rispetto al tracciato del tunnel di base. Secondo il movimento e diversi esperti, ciò rendeva palese che la scelta della val Clarea era stata di ordine militare, non ingegneristico.

Di quel tunnel geognostico non avevano mai reso pubblico il progetto esecutivo. Era stato presentato come “variante” del progetto di Venaus, che era completamente diverso. Di conseguenza, non c’era stato bisogno di rifare la gara pubblica e l’appalto era stato confermato alla Cmc, megalocooperativa ex “rossa” che era sempre definita “di Ravenna” ma era una multinazionale con sedi anche in Sudafrica e negli Stati Uniti.

Il tunnel di base apparteneva a un futuro vago. Per giunta, era solo una parte dell’opera: 60 chilometri da Bussoleno a St. Jean de Maurienne su una tratta complessiva di 280 chilometri. Quando dal tunnel di base si passava a parlare della Torino-Lione, l’opera perdeva i suoi contorni e andava a sciogliersi in una zuppa acida dalla quale fumigava una foschia viola di date, scadenze, decenni… Purple haze, all around / Don’t know if I’m comin’ up or down…

In una sera d’autunno del 2014 avevo intervistato il naturalista Luca Giunti, genovese trapiantato in val di Susa, molto ferrato sugli aspetti tecnici della questione Tav. Mi aveva raccontato di un incontro a Roma, alla presenza dell’allora ministro delle infrastrutture Lupi – non ancora incappato nello “scandalo Rolex” – e l’allora commissario per la Torino-Lione, Mario Virano.

L’Unione europea per le grandi opere ha messo 5,5 miliardi, però ci sono 28 progetti europei che devono dividersi quei soldi. Per la Torino-Lione l’Italia vuole 3,4 miliardi, più altri 3,4 miliardi per il traforo del Brennero. Impossibile. L’ho detto a Virano e lui ha risposto: ‘Ma questo è il budget 2014-2020. Noi chiederemo all’Ue quello che può finanziarci in questo settennato, riservandoci di chiedere un altro finanziamento dal budget 2020-2027’. Io ho ribattuto: ‘Scusi, da progetto i lavori dureranno 14 anni tra anticipo, scavo e armamento, è il 2014 e non avete ancora cominciato, e lei mi sta dicendo che andrete non solo al 2027, ma anche al 2035?’. E lui mi ha risposto di sì. Il ministro mi ha tolto la parola prima che potessi dire a Virano: ‘Lo vada a raccontare in televisione che il tunnel di base – un pezzo di soli 60 km su 280 – avrà uno degli ultimi finanziamenti nel budget 2027-2035 e forse non vi basterà nemmeno e dovrete andare al 2035-2042!’.

La triste saga della Torino-Lione era cominciata nel 1991 e c’erano ormai gli elementi per definirla “la Salerno-Reggio Calabria del nord”. In realtà era ingiusto: con tutti i limiti, i ritardi, i problemi e gli scandali, la Salerno-Reggio Calabria serviva a qualcosa, mentre si sarebbero sudate diciannove canottiere prima di trovare un tecnico competente e terzo – cioè non interessato direttamente al progetto né pagato per giustificarlo – disposto a definire “utile” la Torino-Lione.

Leggendo i giornali o guardando la tv, sembrava che il consenso intorno all’opera fosse totale, fatta eccezione per qualche “nemico del progresso” perso tra le montagne. Gli italiani non sapevano che nel mondo tecnico e scientifico si erano alzate molte voci critiche sul progetto, perché quelle voci non erano passate nei mezzi di informazione mainstream. Le avevano sostituite quelle di Stefano Esposito o diRoberto Cota.

L’11 ottobre 2013 più di cento docenti e scienziati avevano inviato una lettera aperta al presidente della repubblica Giorgio Napolitano:

Valutazioni critiche, oltre che da tecnici e ricercatori come alcuni degli scriventi, sono state espresse a più riprese, nelle forme proprie, anche da organismi quali la Corte dei conti italiana e, sul lato francese, dalla Cour des Comptes, l’Inspection Générale des Finances, il Conseil Général des Ponts et Chaussées, la Direction Générale du Trésor, gli ex presidenti del Réseau Ferré de France e della Sncf. Alle obiezioni si è per lo più risposto con slogan, affermazioni ideologiche e retorica, rifiutando ogni confronto basato su una metodologia scientifica oggettiva… Abbiamo già firmato altri appelli, promosso conferenze scientifiche in sedi accademiche, pubblicato libri, chiesto ascolto alla stampa, a politici e pubblici funzionari, ma senza alcun effetto. Ci rivolgiamo perciò a Lei nella sua veste istituzionale di massima carica della Nazione…

Sulla risposta del Quirinale, i firmatari si erano divisi. Qualcuno parlava di “silenzio assoluto”, altri sostenevano di aver udito rumore di sciacquone.

 

È un tuo diritto andare a Lione!

Negli anni novanta la retorica sulla Torino-Lione ruotava intorno ai passeggeri: “Arriveremo a Lione in due ore!”. Si parlava di quasi otto milioni di viaggiatori all’anno sulla nuova direttrice. Sulla linea storica viaggiavano già treni per Lione, compreso il Tgv francese, ma non bastavano, anzi, la linea era descritta come prossima all’intasamento. Simone mi aveva mandato un ritaglio della Stampa datato 15 ottobre 1991, il titolo gridava: “Treni ad alta velocità subito o sarà tardi. / L’attuale linea Torino-Lione è quasi satura”.

Su quel periodo avevo ascoltato una testimonianza dell’ingegner Claudio Cancelli, ex docente del Politecnico di Torino:

All’epoca andavo spesso a Lione, perché collaboravo con la loro università. Su quei treni non c’era mai nessuno, e infatti li hanno tolti. Le linee dirette tra Torino e Lione le hanno tolte. A sentire la propaganda, invece, era tutto uno sfrecciare avanti e indietro, frotte di manager, un traffico tale da rendere necessaria una nuova linea, altrimenti quei poveri uomini d’industria sarebbero stati costretti a scriversi o parlarsi con il computer, o per telefono. No, dovevano per forza incontrarsi di persona.

Poiché lo storytelling sugli otto milioni di passeggeri che dovevano andare a Lione non convinceva nessuno, tutta la retorica si era spostata sul trasporto merci. Si vaticinava un enorme, soprannaturale aumento dei “flussi” tra Italia e Francia. Se non si fossero adeguate le infrastrutture saremmo andati incontro al baratro, Apocalisse, “il Piemonte isolato dall’Europa”.

In realtà, i flussi di merci tra Italia e Francia erano in calo strutturale, com’era logico tra due paesi confinanti con economie avanzate molto simili, e la linea storica – ammodernata da poco – era sottoutilizzata. Inoltre, in nessuna parte del mondo le merci viaggiavano su linee di alta velocità.

Ma nessuna obiezione importava. Si cominciò a dire che dovevamo agganciarci al “corridoio ferroviario Lisbona-Kiev”, per l’Italia era questione di vita o di morte, progresso o declino! La linea che collegava la capitale portoghese a quella ucraina era divenuta un tormentone mainstream e lo era rimasta fino al 2012, anno in cui Luca Rastello e Andrea Debenedetti, in un devastante reportage intitolato Binario morto, avevano dimostrato che il “corridoio ferroviario Lisbona-Kiev” non esisteva né sarebbe mai esistito.

Corridoio o non corridoio, l’opera andava fatta. Serviva un treno per Lione. Volevamo o no l’Europa, il Progresso e quant’altro? Agli italiani si raccontava che pochi arretrati valligiani erano contro un treno, una cosa incredibile, che c’era di male in un treno? Non si diceva che la val di Susa viveva da più di cent’anni in simbiosi con la ferrovia, era una valle di pendolari e ferrovieri. Non si diceva che un treno veloce attraversava già la valle: il Tgv Parigi-Milano passava sei volte al giorno, collegando Lione a Torino, fermandosi anche a Oulx e Bardonecchia.

Secondo i proponenti, la grande opera avrebbe cominciato a produrre vantaggi economici nel 2073. C’era solo da avere pazienza, mancavano poco meno di sessant’anni. You got me blowin’, blowin’ my mind /Is it tomorrow, or just the end of time?

Come aveva scritto Rastello, previsioni del genere erano più simili a oroscopi. “Prendiamo 55 anni avanti a noi e ribaltiamoli indietro”, mi aveva detto Luca Giunti. “Nel 1960 io avevo un anno, in casa avevamo i telefoni a muro ed era già una rarità. Da me non c’era il televisore, che è entrato solo nel 1970 con i mondiali di calcio del Messico, una tv in bianco e nero con un solo canale che si accendeva girando una manopolina”.

In ogni caso, la previsione sul 2073 si basava su stime di crescita del prodotto interno lordo e del traffico merci che la realtà andava smentendo di anno in anno.

Secondo molti osservatori, la controparte sapeva benissimo che linea ferroviaria la Torino-Lione non sarebbe mai esistita.

Roberto Vela di alta velocità ferroviaria se ne intendeva come pochi. Ingegnere infrastrutturista, una vita alla Fiat Engineering, tra le altre cose aveva seguito progettazione e realizzazione dell’alta velocità Torino-Milano. Andato in pensione nel 2009, era entrato nella commissione tecnica Torino-Lione della Comunità montana valle Susa e val Sangone. Quando l’avevo intervistato, mi aveva detto: “La mia generazione non vedrà mai la Torino-Lione, e nemmeno la tua. Anche perché non esiste in nessun programma di spesa, tranne il tunnel di base e un pezzetto tra Torino e Avigliana. Il resto è demandato oltre il 2035. Quel collegamento Torino-Lione non esisterà in questo secolo. Più in là non so”.

“Se non vogliono davvero realizzare l’opera, qual è il fine?”.

L’obiettivo è drenare denaro pubblico. Si comincia qualcosa che ogni anno prende duecento, trecento, quattrocento milioni di euro di denaro pubblico, e lo si spende. L’importante è iniziare a spendere. Una volta che si è iniziato a spendere, diventa difficile dire: ‘Ora non spendiamo più, lasciamo solo un buco o dieci chilometri di binario’. Quello che dicono è: ‘Intanto facciamo un pezzettino, poi vedremo’. L’esempio è proprio la Salerno-Reggio Calabria: si è continuato a spendere per cinquant’anni

Pagliassotti, in quel bar di Susa scelto a casaccio, aveva aggiunto dettagli inquietanti:

Queste grandi opere sono garantite dallo stato: magari per la Torino-Lione verrà prodotto un project bond emesso da un istituto di credito privato, oppure direttamente da una società di capitali, magari addirittura composta da partecipate. E da chi sarà assicurato questo bond? Sempre dallo stato. È un meccanismo perverso che simula la presenza dell’investitore privato che in realtà non esiste. Io ne sono convinto: faranno il project bond del ponte sullo Stretto, il project bond per l’alta velocità, e per tutto ciò che necessita di un simulato investimento del privato, quando in realtà i soldi sono tutti pubblici. La Cassa depositi e prestiti (Cdp) potrebbe essere quella che assicura questo tipo di prodotti finanziari. Questo perché dentro la Cdp ci sono il ministero del tesoro – con una quota azionaria dell’80 per cento – e le fondazioni bancarie. In particolare compagnia di San Paolo, fondazione Mps, fondazione Crt e fondazione Cariplo, ovvero i conclave della politica all’interno di banche di sistema come Intesa SanPaolo, Unicredit e Monte dei Paschi di Siena.

“Quindi faranno un bond per un’opera che non sarà mai realizzata”.

Questi prodotti finanziari, per ottenere spazio sul mercato privato, devono in ogni caso offrire rendimenti elevati. Non ha alcuna importanza se i tempi esecutivi di un progetto vengono dilatati nel tempo, anzi: per funzionare, il meccanismo necessita di tempi infiniti e costi infiniti. Questi processi finanziari servono a distruggere lo stato, a renderlo vittima di un debito immenso, inesigibile. Servono a creare una situazione di crisi permanente, impalcatura necessaria a ogni tipo di privatizzazione. Le grandi opere si fanno anche e soprattutto per questo.

Le grandi opere si fanno anche e soprattutto per questo.

E i francesi?

 

Mi aveva risposto Roberto Vela:

Ai francesi importa poco, loro spendono una miseria, la maggior parte glielo spendiamo noi. Della sezione transfrontaliera noi spendiamo, al netto del contributo dell’Unione europea, il 58 per cento, quando l’Italia ha solo il 20 per cento di tracciato nel suo territorio e per i trattati internazionali quello che sta in Francia è proprietà francese e quello che sta in Italia è proprietà italiana. I francesi, spendendo una miseria, hanno qualcosa, serva o non serva. È il primo esempio di opera transfrontaliera che viene pagata soprattutto dallo stato che ne avrà la parte più piccola.

In ogni caso, anche in Francia il progetto era stato bocciato più volte da commissioni d’inchiesta e da tecnici indipendenti, oltre che dalla corte dei conti.

Sono cose che capitano

Simone ricevette sul telefono il testo dell’ordinanza prefettizia. Diceva: “È mantenuto il divieto di circolazione… sulla via dell’Avanà di Chiomonte dalla Centrale Elettrica sino al piazzale del museo archeologico, dalle ore 19.00 alle ore 8:00 di ogni giorno”. Ordinanza valida fino al 30 gennaio.

La dirigente, una signora piccola e bionda dall’accento pugliese, arrivò di persona e disse: “L’ordinanza non è chiara, se l’avessi fatta io l’avrei scritta diversamente”. A noi, invero, sembrava chiarissima.

La signora tornò al posto di guardia. La vedemmo parlare al telefono, confabulare coi blu di Prussia, infine muoversi di nuovo verso di noi.

“Allora,” disse al nostro capannello, “tra cinque minuti facciamo entrare tutti, anche i giornalisti [sic], c’è da aspettare cinque minuti ché arriva la Digos, perché la questura ha mandato la Digos, va bene? Poi vi fanno entrare, poi rivedono un po’ quest’ordinanza, l’aggiustano un po’, ché potevamo evitare ‘sta figura di mmerda…”.

“Sono cose che capitano”, la consolammo. “Figure di merda ne abbiamo viste anche di più grosse”.

“Lasciamo perdere, io parlo di questa cosa qua, di altre cose non ne rispondo, comunque, dài, abbiate pazienza cinque minuti e poi i colleghi vi… Ok?”.

“Ok”.

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