Open Democracy

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03 dic 2016

 

Quale pace? Disordini di Stato e ordini non statali

di Alaa Tartir

 

Per molti la pace è solo un processo lungo e complesso che condurrà a poco o niente, mantenendo i benefici e i privilegi dell’élite politica ed economica

 

Ramallah, 3 dicembre 2016, Nena News –

 

Tutti sono interessati alla pace ma molto pochi sono interessati a quale tipo di pace. La pace è quasi diventata l’equivalente del sostegno allo status quo, del compromesso, dei bisogni di sicurezza, ma difficilmente sinonimo di giustizia e eguaglianza. La nozione di pace è diventata un concetto “evasivo” se non “sporco” e per molte persone è oggi un processo lungo e complesso che condurrà a poco o niente, mantenendo i privilegi dell’élite politica ed economica.

Questa concezione pessimistica della pace è frutto di un fallimento dietro l’altro nel porre fine al conflitto arabo-israeliano, che resta una questione chiave per il (dis)ordine mondiale. Si basa anche sulla mia personale esperienza di vita come essere umano cresciuto e vissuto sotto la brutale occupazione israeliana per 30 anni, all’ombra di una pace fallimentare e un processo di costruzione dello Stato fallimentare. Livelli multipli di tensione possono essere esplorati in questo incontro ma fondamentalmente, per il giusto ordine mondiale, è cruciale rispondere alle domande giuste, come: quale pace?

Andando oltre Palestina-Israele e per quanto al (dis)ordine mondiale interessi, potrebbe una reale ed inclusiva agenda politica globale plasmare il nuovo ordine mondiale o è ormai troppo tardi e ci stiamo solo muovendo verso la direzione opposta, verso un’ulteriore frammentazione della scena politica mondiale? La risposta potrebbe essere questa: se avessimo avuto strutture statali e non-statali efficaci e inclusive, strutture in grado di fornire spazio a tutti e accettazione delle diverse opinioni, allora lo Stato Islamico probabilmente non esisterebbe. Se avessimo avuto meccanismi di responsabilizzazione globali funzionanti e istituzioni focalizzate sui pesi e contrappesi, forse l’invasione dell’Iraq e le sue ramificazioni politiche attuali non ci sarebbero state.

Questi due indicatori segnalano la fondamentale necessità di reinventare le istituzioni di governance mondiali che “gestiscono” o dominano l’ordine globale, come il Consiglio di Sicurezza, così da affrontare le mancanze strutturali attuali.

Proviamo a decostruire questa conclusione guardando agli elementi delle complesse dinamiche che esistono tra attori statali e non-statali, generalmente accusati del (dis)ordine mondiale.

Prove empiriche e storiche suggeriscono che gli attori non-statali emergono e alla fine dominano in contesti fragili, dove esiste un vacuum di sicurezza e di leadership e dove gli attori statali sono deboli, corrotti o incapaci di mantenersi efficaci. Accade quando attori non-statali cominciano a rappresentare una minaccia seria alle autorità presistenti e piano piano le sostituiscono. Nella maggior parte dei casi, gli attori non-statali sono visti come minacce alla sicurezza degli attori statali e della stabilità regionale. Sono anche visti come avversari nella governance e sfidanti nella rappresentazione politica.

Ma qui ci sono due tensioni non risolte: una è relativa alla nozione di statualità e l’altra alla natura degli attori non-statali. Per lo più le visioni attuali considerano la centralità dello Stato e la sovranità come colonne portanti del sistema politico mondiale. Eppure, quest’idea potrebbe rivelarsi vecchia visto che la natura stessa dello Stato si è evoluta. L’assoluta sovranità non esiste praticamente mai e, perché un nuovo ordine globale emerga, c’è bisogno di riconcettualizzare il ruolo e la natura degli Stati.

Inoltre c’è bisogno di vagliare la natura degli attori non-statali. Possono essere attori politici, movimenti sociali, gruppi armati, fazioni di resistenza armata, gang e criminali e cosi via. Eppure ancora non comprendiamo a sufficienza il carattere in evoluzione e le capacità di trasformazione degli attori non-statali. Non sono rigidi né immutabili come l’ordine globale li percepisce.

Prendiamo come esempio Hamas o Hezbollah. Agli occhi di molti attori globali queste organizzazioni sono semplicemente “gruppi terroristici”. Punto. Tuttavia ciò non riflette la realtà complessa. Simili attori non-statali sono stati esclusi e criminalizzati perché l’ordine mondiale non parla con i “terroristi”. Facendo così, questo “ordine mondiale” rifiuta di vedere o capire come queste organizzazioni sono parte delle rispettive società e forse quanto siano legittime. Rifiuta anche di vedere le trasformazioni e i passaggi attraverso cui questi gruppi sono transitati nei decenni e dunque rifiuta di capire il loro carattere in evoluzione.

Allo stesso tempo gli attori non-statali hanno sfidato la condizione di esclusione e criminalizzazione espandendosi a livello locale, quasi costruendo istituzioni parallele a quelle dello Stato, guadagnando sempre maggiore legittimazione offrendo servizi pubblici efficaci e alla fine vincendo le elezioni. Questa tensione allarma perché lo scontro tra sistemi (o vie parallele come detto sopra) continuerà a rigenerarsi, impedendo una convergenza organica tra “ordine e disordine”.

Di conseguenza, in un mondo altamente “sicurizzato”, i poteri dominanti vedono gli attori non-statali principalmente come una minaccia alla sicurezza e come avversari dell’esclusiva legittimità dello Stato all’uso della violenza. La soluzione magica è sempre stata una riforma dall’alto al basso della governance della sicurezza, essenzialmente mirante a integrare questi attori non-statali nelle strutture dello Stato, disarmarli, costringerli a cambi di ideologia e, quando necessario, usando la forza contro di loro. Tuttavia, questo è per definizione un meccanismo forzato che ha conseguenze gravi.

Pensate a posti come la Libia o la Palestina. I processi di riforma del settore della sicurezza sono stati realizzati come colonne portanti dei progetti di costruzione dello Stato, ma hanno nella pratica portato a ulteriore frammentazione o alla criminalizzazione dei progetti di liberazione nazionale. Quando la resistenza viene criminalizzata e la frammentazione si radica, allora il disordine mondiale non dovrebbe sorprendere.

Ordine-disordine non è una dicotomia bianco-nero e la complessità del mondo necessita di entrambi. La sfida, tuttavia, è come trovare il giusto equilibrio e individuare gli attori che lo stabiliranno. Definire i parametri e i punti di riferimento è un compito chiave che va preso con serietà.

Dunque per comprendere la pace abbiamo bisogno di capire meglio l’economia politica del conflitto e la fragilità. Molto spesso la fragilità è intesa dall’ordine mondiale attuale in termini tecnici e apolitici e questo è un problema radicato che va affrontato. Ritengo che solo portando le dimensioni dell’economia politica nel dominio della fragilità potremo comprendere la dicotomia tra attori statali e non-statali. I “gap di fragilità”si traslano e si estendono al dominio della sicurezza. Ma, ancora più importante, si allargano alle domande di rappresentazione politica, sicurezza economica e umana, sovranità, dinamiche di confine, contratti sociali.

Una migliore comprensione dei conflitti e le fragilità ci porterà alla fine a porre il popolo – soprattutto nelle zone di guerra – al centro, prima degli attori statali e non-statali. E questo è il centro della questione. In contesti disfunzionali, il focus tende ad essere incentrato su attori statali e non-statali, ma difficilmente sul popolo (tranne che in riferimento a crisi umanitarie o emergenze rifugiati). Ritengo che con un diverso punto di partenza (il popolo e la sua dignità) avremo in mano diverse dinamiche per decostruire (sia sul piano intellettuale che delle politiche) il (dis)ordine mondiale.

Il disordine mondiale non è prodotto solo da Stati deboli, fragili e falliti, incapaci di governare se stessi. In tali contesti esistono  mancanze nei campi della rappresentazione politica, la legittimità, l’efficacia e l’efficenza così come la dignità. Questi gap possono essere anche visti come “opportunità politiche” da usare, abusare o usare male da diversi attori dell’ordine mondiale. Tuttavia, solo con istituzioni e meccanismi di responsabilizzazione funzionanti e efficaci sul piano mondiale, possiamo muovere un passo in avanti nella direzione del giusto equilibrio tra ordine e disordine. E comprendere meglio la complessa relazione tra attori statali e non-statali.

 

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