Al-Quds al-Arabi

04/06/2016

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7 giugno 2016

 

La questione israelo-palestinese alla recente Conferenza di Parigi

Traduzione e sintesi di Marianna Barberio

 

Quando l’attuazione di una risoluzione definitiva al conflitto israelo-palestinese si trasforma in una vana attesa come nella famosa pièce di Samuel Beckett

 

Lo scorso 3 giugno, i palestinesi hanno ritrovato quel poco di speranza quando il presidente francese, François Hollande, ha invitato la comunità internazionale a riconsiderare il conflitto israelo-palestinese. Il presidente Hollande ha rilanciato la soluzione “dei due Stati” alla presenza di ministri e rappresentanti di circa 30 nazioni e organizzazioni internazionali, tra cui il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon.

Tale iniziativa riflette lo stato di preoccupazione in cui si trova l’Europa a causa degli enormi cambiamenti in atto nella regione mediorientale, con riferimento alla tragedia siro-irachena, all’aggravarsi della situazione tra Israele e Palestina, nonché alla militanza e agli atti di estremismo da parte di Daesh (ISIS).

Allo stesso tempo, la Conferenza di Parigi arriva alcuni giorni prima del 49° anniversario della Guerra dei Sei Giorni nel 1967 e rappresenta un’occasione per ricordare tre episodi cardine della questione palestinese. Il primo si riferisce alla stessa Guerra dei Sei Giorni (o Guerra della Sconfitta, come conosciuta in arabo), che ha segnato la sconfitta di tre eserciti arabi, l’arrivo al potere nel mondo arabo delle classi elitarie, i colpi militari in Iraq, Siria e Libia e il cambiamento del governo in Egitto dopo la morte di Gamal Abdel Nasser e la successione di Anwar Sadat. Successivamente alla sconfitta, i palestinesi si organizzano in una resistenza armata, o meglio lotta per la dignità, che spinge gli israeliani a lasciare il paese con enormi perdite e morti. Ne deriva il riconoscimento della resistenza palestinese come centro di attrazione per i giovani arabi di ogni luogo fino a divenire modello politico per le organizzazioni politiche dell’Oman, del Bahrein e del Marocco.

Il terzo episodio degno di nota rimanda agli Accordi egiziani di Camp David con Israele nel 1978, che segnano la fine dello scontro arabo con Israele, seguiti dagli Accordi di Oslo il 13 settembre 1993 decretando la fine della resistenza armata palestinese e l’impegno da parte dell’Organizzazione di Liberazione Palestinese (OLP) di vivere in pace e sicurezza con Israele.

Ad oggi, dopo circa un quarto di secolo, continuano le iniziative di pace in vista di una risoluzione definitiva del conflitto, tra cui annoveriamo gli altri due negoziati di Camp David, nel 2000 e 2001, la Road Map nel 2002,  la Conferenza di Annapolis nel 2007, e l’impegno da parte dell’amministrazione americana nel luglio 2013, il cui fine ultimo è stato nient’altro che il tentativo di eludere le decisioni delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza in merito all’occupazione. Nel frattempo, anche l’Egitto ha espresso la sua volontà a mediare al fine di giungere ad una “pace calda” con Israele, dietro consiglio del ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, di riprendere i negoziati con Israele sulla base della famosa iniziativa araba indetta nel 2002.

È lecito porsi allora una domanda: “Cosa assicura a ciascuna di queste iniziative il successo dopo il fallimento di tutti i tentativi precedenti?”. La verità è che la “comunità internazionale”, nelle vesti degli Stati Uniti, non desidera esercitare alcuna pressione su Israele, mentre l’attuale condizione araba offre ad Israele e al suo protettore americano nuove ragioni per ignorare le cause della crisi e tentare di imporre l’agenda israeliana sui palestinesi.

Una simile attesa che non preannuncia alcun cambiamento, sia a livello mondiale che arabo, riprende quell’inutile attesa di Godot nella famosa pièce teatrale di Samuel Beckett.

 

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