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10/10/2016

 

Attivista pacifista a Gerusalemme: Dietro gli spari e i morti, vi è la frustrazione che alimenta le violenze

 

Il 39enne Musbah Abu Sbaih ha sparato contro civili e militari. Morti un poliziotto e una donna di 60 anni. L'attivista Adel Misk: Aumenta il risentimento verso la politica di occupazione. Clima di “pressione crescente” che alimenta le “esplosioni di violenza”. Problemi di natura politica, che non riguardano la religione.

 

Dietro l’attacco a Gerusalemme in cui hanno perso la vita due persone -  oltre all’attentatore - “vi è la frustrazione crescente” dei palestinesi “verso la politica di occupazione” promossa (e rafforzata nell’ultimo periodo) da Israele. È quanto afferma ad AsiaNews Adel Misk, medico e attivista pacifista palestinese, commentando l’ultimo episodio di una lunga striscia di sangue legata alla terza intifada (dei coltelli), iniziata un anno fa. Portavoce di The Parents Circle, associazione che riunisce circa 250 israeliani e 250 palestinesi, tutti familiari delle vittime del conflitto, egli aggiunge che “vi è un clima di pressione crescente” che alimenta queste “esplosioni di violenza”. 

Ieri due cittadini israeliani - Levana Malihi, di 60 anni, e il poliziotto Yosef Kirma - sono morti poco dopo il ricovero in ospedale. Entrambi sono stati raggiunti dai proiettili esplosi dal 39enne palestinese Musbah Abu Sbaih, secondo alcuni membro di Hamas e celebrato oggi come “leone” e “martire” nella lotta contro l’occupazione. Altre cinque persone sono rimaste ferite, alcune delle quali in modo grave. 

Testimoni locali riferiscono che l’uomo è sceso da una vettura bianca posteggiata davanti a una fermata del tram ad Ammunition Hill, nei pressi del memoriale della “Battaglia per Gerusalemme” della Guerra dei Sei giorni, e ha aperto il fuoco. Poi è ritornato a bordo dell’auto e si è diretto verso la stazione di Shimon Hatzadik, dove ha sparato una seconda volta contro la folla.

A quel punto sono intervenute le forze di sicurezza israeliane, che lo hanno ucciso al termine di una breve sparatoria; nello scontro a fuoco sono rimasti feriti anche due agenti.

Fawzi Barhum, portavoce di Hamas, ha affermato che l’attentato “è la naturale reazione ai crimini” commessi a suo parere da Israele nei confronti dei palestinesi, in particolare “nella moschea di al Aqsa” a Gerusalemme. Misbah Abu Sbeih era originario di Gerusalemme est e, in un messaggio rilanciato dalla tv al-Aqsa dopo la sua morte, avrebbe esortato tutti i musulmani a seguire il suo esempio. Un volantino distribuito da Hamas in Cisgiordania lo definisce con deferenza “il leone di Gerusalemme” per il suo impegno nella difesa della moschea al-Aqsa.

L’attentatore è “un uomo di 39 anni che viveva a Gerusalemme est, aveva una famiglia e frequentava la moschea di al Aqsa” spiega Adel Misk ad AsiaNews. “Già in passato - aggiunge - egli era stato fermato e allontanato dalla moschea per cosiddette attività anti-israeliane”. “Di recente era stato condannato a quattro mesi di carcere - prosegue l’attivista - e ieri avrebbe dovuto consegnarsi alle autorità per entrare in cella”. 

Sono episodi legati “al clima di pressione” che si respira nei territori, aggiunge il medico palestinese, che alimenta la “radicalizzazione di personalità come quella di Musbah Abu Sbaih, che era legato alla religione ma non era certo un fanatico”. Pressione, occupazione, risentimento creano un mix esplosivo che degenera in attacchi contro obiettivi israeliani, militari o civili.

Ora le autorità israeliane, prosegue Adel Misk, hanno già avviato “la campagna di ritorsione contro la famiglia” che si concretizza nella demolizione della casa, nell’espulsione o con nuovi arresti. “In queste ore - aggiunge - la polizia ha fermato la figlia dell’uomo perché stamattina, in una intervista, aveva parlato bene del padre. È un ciclo continuo, alla base del quale vi è l’occupazione militare che genera malcontento”. 

Dall’ottobre scorso, dopo una serie di provocazioni di ebrei ultra-ortodossi che hanno pregato sulla Spianata delle moschee, si sono moltiplicati incidenti e scontri in Israele e nei territori palestinesi, nel contesto della cosiddetta “intifada dei coltelli”. Finora sono stati uccisi almeno 237 palestinesi, 35 israeliani, due americani, un sudanese e un eritreo. La maggior parte dei palestinesi è stata uccisa mentre tentava di accoltellare o colpire con armi o auto passanti o soldati. Altri sono stati uccisi nel corso di manifestazioni o scontri con i militari.

A dispetto delle violenze, il medico e attivista palestinese invita i cittadini dei Paesi occidentali e i fedeli di tutto il mondo a continuare a venire - in pellegrinaggio e in visita - in Terra Santa. “Dovete venire senza paura - afferma - perché i pellegrini qui sono da sempre i benvenuti e non hanno mai subito violenze. Questi sono atti legati alla frustrazione, al malcontento, frutto di problematiche legate alla politica e che nulla hanno a che vedere con la religione”. Speriamo che la situazione non degeneri, conclude, e “preghiamo insieme che queste cose non avvengano più, che il popolo palestinese veda riconosciuto il diritto a vivere nella propria terra”.

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