Ma’an

Agenzia stampa Infopal

15/1/2016

 

Israele stringe la morsa sul villaggio di Sair, i morti aumentano

Traduzione di Marta Bettenzoli

 

Il piccolo appezzamento di terra riservato ai corpi dei cosiddetti “martiri”, al centro del villaggio di Sair, sta rapidamente esaurendo lo spazio.

Cemento fresco è stato gettato sopra quattro nuove tombe, lo scorso fine settimana, dopo i funerali di quattro giovani del paese, feriti mortalmente due giorni prima, quando avevano tentato di accoltellare dei soldati israeliani.

Un’altra tomba è invece già pronta, vuota, dietro le loro, come a voler preannunciare la prossima morte.

Sair vede ora 11 dei suoi abitanti uccisi, da quando un’ondata di disordini si è abbattuta sul villaggio, agli inizi di ottobre.

In una valle silenziosa tra le colline a nordest di Hebron, lontano dalla barriera di separazione israeliana e dagli insediamenti, non c’è un’immediata e ovvia ragione del perché il villaggio abbia visto un tale spargimento di sangue.

Per i residenti di Sair, però, la spiegazione è semplice. Ai soldati israeliani è stato dato il permesso di uccidere impunemente, e da ottobre la loro presenza ai confini del villaggio è piuttosto massiccia.

Kayyed Jaradat, il sindaco, ne parla come di un “assedio militare”, e dice che i posti di controllo e di blocco, che sono oggi presenti su ogni strada principale che porta al villaggio, hanno condotto ad una crescente spirale di violenze.

Sabato, con il villaggio raccolto a seppellire i suoi morti, l’esercito israeliano era dispiegato in forza per sigillare gli ingressi al paese, costringendo i palestinesi ad entrare a piedi. Sotto un cielo plumbeo e tra le pistole dei soldati, si camminava a fatica.

 

Spiegamento di forze

Sair è solo uno tra le decine di villaggi del distretto di Hebron che si è visto porre sotto controllo le proprie strade dall’esercito israeliano.

A seguito di una serie di attacchi mortali ad ottobre, Israele ha riversato in Cisgiordania soldati e mezzi, ed ha istituito un’enorme rete di posti di blocco che controlla efficacemente i movimenti di centinaia di migliaia di palestinesi.

Quasi la metà delle vittime di Sair ha trovato la morte nello stesso luogo, a sud-ovest del villaggio, al bivio di Beit Einun, dove una circonvallazione corre verso l’insediamento illegale di Kiryat Arbaa, e dove Jaradat dice che si trova la più massiccia presenza di militari.

Khalil Shalalda, ragazzino 15enne tra quelli sepolti sabato, è stato colpito a morte nei pressi del bivio, quando presumibilemente ha tentato di ferire un soldato israeliano con un coltello. Lo stesso punto in cui suo fratello Mahmoud, 18 anni, è stato mortalmente colpito durante gli scontri di novembre.

Raed Jaradat, 22 anni, è stato ucciso al bivio alla fine di ottobre, dopo aver ferito un militare, mentre il 24enne Fadi Faroukh è stato ucciso poco dopo, mentre tornava dall’ospedale di Alia, Hebron, dove la moglie aveva appena dato alla luce il loro bambino.

Secondo l’esercito Faroukh aveva voluto tentare l’ennesimo accoltellamento, ma per gli abitanti è stato ucciso per pura vendetta, dopo l’attacco di Jaradat.

Il dispiegamento di forze israeliane a Hebron ha portato villaggi come Sair a vivere quotidianamente in contatto con i militari, e a far subire a molti l’umiliazione giornaliera delle perquisizioni ai posti di blocco.

Gli ufficiali dell’esercito israeliano hanno rassicurato, ai primi di dicembre, che un tale dispiegamento di forze in Cisgiordania è finalizzato solamente a contrastare l’aumento degli episodi di violenza contro i propri soldati.

“Secondo un proverbio, soldati senza nulla da fare porteranno guai”, dice un residente di Sair, Issa Shalalda, secondo cui, a questo punto, molti giovani del villaggio hanno un feroce desiderio di attaccare i militari.

 

Nessuna speranza nel futuro

Il dispiegamento di forze intorno a Sair ha risvegliato profondi sentimenti di frustrazione nel villaggio, dove la popolazione più giovane ha vissuto per anni i duri vincoli di un’economia paralizzata dai quasi 50 anni di occupazione militare israeliana.

Il sindaco Jaradat crede che circa 3 mila residenti del villaggio (un decimo della sua popolazione) oggi lavori in Israele, i più illegalmente, passando il muro di separazione (annessione, ndr) senza permessi, per trovare un lavoro sottopagato.

Il preside di una scuola locale dice che i giovani a Sair “non hanno opportunità lavorative, nessun lavoro, nessun permesso. Risentono delle pressioni da ogni fronte, sociale, economico, a tutti i livelli. Psicologicamente sono provati. Non vedono nessuna speranza nel futuro.”

Tra i quattro sepolti sabato c’erano tre cugini della famiglia Kawazba, Muhannad, Ahmad e Alaa, freddati dopo il presunto tentativo di ferire dei militari al bivio di Gush Etzion, a sud di Betlemme.

I parenti hanno raccontato all’agenzia Ma’an che Muhannad e Ahmad, entrambi 21enni, avevano abbandonato la scuola all’età di 15 anni per cercare un lavoro a Israele. Una decisione presa da molti altri a Sair.

Jaradat spiega che mentre le recenti misure di sicurezza dell’esercito israeliano hanno acceso un grande risentimento nel villaggio, hanno anche peggiorato la sua precaria situazione economica.

“Uomini d’affari, lavoratori, studenti, tutti sono costretti a fare avanti e indietro dalle zone rurali alla città (Hebron) quasi ogni giorno. L’assedio militare ha provocato una stagnazione economica a Sair”.

 

Il prezzo della libertà

Dopo il funerale di sabato un gruppo di palestinesi ha marciato verso il bivio di Beit Einun, scontrandosi con i militari presenti.

La protesta è stata dispersa velocemente, e dopo poco c’era solo una qualche dozzina di bambini che gettavano pietre da dietro gli edifici, accucciati tra i cumuli di macerie.

“I militari stavano giusto aspettando i bambini”, ha detto il preside locale. “Ragazzini di 15, 16 anni, che accorrevano con tutta la loro rabbia”.

Mentre molti residenti non credono, come Israele sostiene, che i più di quelli uccisi tentavano di portare a termine degli attentati contro i militari, rimane un certo rispetto per quelli che invece l’hanno veramente fatto.

Le loro fotografie adornano i muri del villaggio. “Grazie Dio per questi martiri, per coloro che hanno sacrificato le loro vite per la libertà, per Al-Aqsa, per la Palestina”, è intervenuto un abitante al funerale di sabato.

“Vivere liberamente ha un prezzo, e il prezzo che il popolo palestinese paga è il sangue”.

Un insegnante locale ammette che “questo genere di discorsi incoraggia i più giovani a seguire la via della resistenza”, ma aggiunge anche che “noi non siamo contro la resistenza”.

Lo stesso insegnante dice che molti ragazzi del villaggio stimano coloro che hanno perso la propria vita per combattere Israele, e che in molti “vorrebbero possedere delle armi” per attaccare essi stessi i militari.

Tre giorni dopo, martedì pomeriggio, altri due palestinesi sono stati freddati al bivio di Beit Einun, uno di loro era un 23enne di Sair, che secondo l’esercito israeliano aveva tentato di pugnalare un soldato.

Il suo corpo andrà a riempire la tomba vuota del cimitero. Dove il villaggio ne scaverà presto un’altra.

 

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