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08 apr 2016

 

Una risoluzione sulle colonie in un assordante silenzio sulla questione palestinese

di Chiara Cruciati

 

L’Anp annuncia una bozza di risoluzione che condanni l’espansione coloniale israeliana. Immediata la reazione negativa di Israele. Sullo sfondo l’ipocrisia della comunità internazionale

 

Gerusalemme, 8 aprile 2016, Nena News –

 

L’Autorità Palestinese ci riprova: ieri la missione diplomatica palestinese alle Nazioni Unite ha consegnato ai paesi arabi una bozza di risoluzione per condannare l’espansione coloniale israeliana, definendola un ostacolo alla pace.

L’obiettivo è farla arrivare in Consiglio di Sicurezza il 22 aprile prossimo, quando oltre 130 paesi parteciperanno alla cerimonia sull’accordo per il clima siglato a Parigi a dicembre. Era accaduto già cinque anni fa, nel febbraio 2011, quando una risoluzione in merito alle colonie illegali nei Territori Occupati Palestinesi fu votata al Palazzo di Vetro, ma finì per essere bocciata: 14 sì e un veto, quello statunitense, sufficiente ad affossare la richiesta.

Eppure da anni ormai Unione Europea e singoli Stati membri e le amministrazioni che si succedono a Washington ribadiscono il dovere di Israele di porre fine alla costruzione di colonie nei Territori. Alla base delle richieste sta l’intenzione di realizzare la soluzione a due Stati, in cui quello di Palestina sia contiguo e libero da insediamenti illegali.

Quando, però, si aprono le porte delle Nazioni Unite le parole lasciano lo spazio ai fatti. Che nel caso Usa si traduce nel veto. Di risoluzioni che condannano l’espansione coloniale, più o meno direttamente, ne sono state adottate sette, tra il 1979 e il 2008. Che vengano poi realmente attuate è un altro paio di maniche: Tel Aviv non è stata mai fatto oggetto di pressioni reali o sanzioni che la costringessero ad adeguarsi al diritto internazionale. E le colonie si ampliano a ritmi inimmaginabili, a Gerusalemme come in Cisgiordania, rendendo nella pratica un’utopia l’idea di creare uno Stato palestinese nel 22% della Palestina storica.

Quel 22% (Gerusalemme Est, Gaza e Cisgiordania) è stato già largamente mangiato dall’occupazione militare. A Gerusalemme Est vivono 200mila coloni in dodici insediamenti solo per ebrei (che occupano il 35% della zona orientale della città) e altri duemila vivono in case occupate all’interno di quartieri palestinesi [dati Ocha,2012]. In Cisgiordania, dove il 60% del territorio è stato classificato con gli Accordi di Oslo Area C (sotto il controllo militare e civile israeliano) vivono 450mila coloni in circa 130 insediamenti che separano i villaggi palestinesi e occupano aree coltivabili. Infine, Gaza: se nel 2005 l’allora premier Sharon ritirò i coloni per ridistribuirli in Cisgiordania, la Striscia ha visto ridurre ulteriormente il proprio territorio con l’imposizione unilaterale da parte israeliana di una buffer zone, zona cuscinetto, lungo tutto il suo confine orientale. La buffer zone rappresenta il 44% del territorio totale di Gaza e, da sempre utilizzata a fini agricoli, è oggi quasi del tutto impraticabile a causa del controllo israeliano.

Di quale Stato la comunità internazionale parli è ancora difficile da capire, soprattutto a fronte dell’assenza totale di pressioni sul governo israeliano. Improbabile che la bozza di risoluzione venga adottata o che anche solo arrivi sul tavolo del Consiglio di Sicurezza: basta comunque al premier Netanyahu per alzare la voce e accusare il presidente palestinese Abbas “di compiere un passo che allontana il negoziato”. Stessa musica dall’ambasciatore israeliano all’Onu, Danny Danon: il dialogo può partire solo se i palestinesi “condanneranno il terrorismo e smetteranno di incitarlo”.

All’inizio dell’anno era stato l’ambasciatore palestinese all’Onu a parlare, proponendo un piano più ampio di una semplice risoluzione: una conferenza internazionale di pace che crei un gruppo internazionale di supporto e il dispiegamento di osservatori nei luoghi più caldi.

Ma con il Medio Oriente in fiamme l’attenzione verso la questione palestinese non fa che calare, sebbene sia il cuore del colonialismo europeo nella regione e la prima fonte della sua instabilità. Viene però relegato da anni in un angolo. A ricordarlo sono stati negli ultimi mesi i giovani palestinesi, spinti spesso dalla disperazione per una vita intera passata sotto occupazione. Il risultato: oltre 200 palestinesi e 24 israeliani uccisi, un territorio ancora preda dell’espansionismo coloniale, ordini di demolizione di case che aumentano invece che terminare.

Si torna alle parole del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon: “La frustrazione palestinese cresce sotto il peso di un occupazione lunga mezzo secolo e la paralisi del processo di pace – aveva detto il a gennaio, ricevendo come risposta israeliana l’accusa di sostenere il terrorismo – Come i popoli oppressi hanno dimostrato nella storia, è proprio della natura umana reagire all’occupazione, che spesso è un potente incubatore di odio e estremismo. Le continue attività coloniali sono un affronto per il popolo palestinese e la comunità internazionale e solleva dubbi sul reale impegno israeliano alla soluzione a due Stati”. Nena News

 

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