il Sole 24 ore

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21/03/2016

 

È sulle rotte dei migranti che si costruisce la nuova geopolitica dell’Europa, del Mediterraneo, e dell'Africa

di Alberto Negri

 

Definire i profughi un’emergenza va bene per i titoli a effetto dei giornali, ma in realtà loro fanno parte di una complessa questione politica, economica, militare e di sicurezza, di cui l’Europa finge di volersi interessare sotto la maschera deformante della guerra all’Isis.

 

È sulle rotte dei migranti che si costruisce la nuova geopolitica dell’Europa, del Mediterraneo, dell'Africa. Dove sono sprofondati i confini europei a Oriente lo abbiamo visto a Bruxelles dopo l’accordo stipulato con la Turchia dell’impresentabile Erdogan, ex amico di Bashar Assad. A Lampedusa, a Occidente, lo vedono da anni tutti i giorni. È una scelta precisa e forse obbligata che spinge questo presidente della Repubblica a puntare sulle piste africane del sottosviluppo e del terrorismo.

 

L’Europa si è invece infilata con i profughi siriani in un cul de sac. Tanto valeva trattare con Damasco per riprendersi i rifugiati, forse costava meno e gli europei partecipavano alla ricostruzione, parola che immediatamente evoca un inebriante profumo di business e mette tutti d’accordo. Sembra un paradosso, ma riportare a casa i siriani, anche in città distrutte come Homs o Aleppo, è meglio che farli rimbalzare tra l’Egeo e Gaziantep, in improbabili viaggi di andata e ritorno che ingrassano altri, non loro. Ma alla Turchia abbiamo dato la “patente” di Paese “sicuro” - quanto lo sia dopo queste ondate di attentati è assai dubbio - mentre cinque anni fa Assad era il regime dittatoriale da abbattere trasformando il Paese nel sanguinoso teatro di una guerra per procura. 

 

L’ipocrisia internazionale tocca livelli parossistici: il regime partecipa alle trattative di Ginevra ma non deve essere “legittimato”, ben sapendo che resterà lì perché al momento non c’è un’alternativa, mentre il veto della Turchia impedisce che siedano al tavolo i curdi siriani, la celebrata fanteria occidentale contro il Califfato ma anche uno dei nodi storici della regione, l’incubo di Ankara per la possibile saldatura con i curdi del Pkk e l’irredentismo dell’Anatolia del Sud-Est.

 

Definire i profughi un’emergenza va bene per i titoli a effetto dei giornali, ma in realtà loro fanno parte di una complessa questione politica, economica, militare e di sicurezza, di cui l’Europa finge di volersi interessare sotto la maschera deformante della guerra all’Isis. Oggi i migranti attraversano nel Levante e in Mesopotamia frontiere fittizie o contese: percorrono le macerie di un mondo in disfacimento.

 

Avviene in Medio Oriente, dove gli Stati Uniti si ostinano a non volere richiudere il vaso di Pandora iracheno malamente scoperchiato nel 2003, così come in Africa: «Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011 le frontiere europee - dice Mario Giro, vice ministro degli Esteri che ha accompagnato il presidente Sergio Mattarella nel suo viaggio africano - sono sprofondate nel Sahel e non vogliamo rendercene conto». Cosa che per altro ha detto molto prima degli attentati di Al Qaeda in Mali, Burkina Faso e Costa d'Avorio. Il prossimo bersaglio jihadista, già minacciato dai Boko Haram nigeriani, potrebbe essere il Niger, snodo delle rotte saheliane dei migranti.

 

L’Africa fugge dalla povertà ma anche dai conflitti. È in guerra, ma cerchiamo di ignorarlo: ci sono più di 13 conflitti, dal Mali alla Nigeria, dalla Somalia al Sudan, dal Congo al Centrafrica, dall’Egitto alla Libia, e la spesa militare ha superato in questa zona i 50 miliardi di dollari nel 2014. Maggiori fornitori? Usa, Russia, Cina, Germania, Francia, Italia. 

 

La sfida più grande naturalmente è la crescente concentrazione di povertà nel Sahel, un’area estesa due volte e mezzo l’Europa, con confini segnati sulla sabbia, stati corrotti o inesistenti, sempre agli ultimi posti nelle classifiche dello sviluppo umano, dove c’è stata una proliferazione delle sigle jihadiste.

I migranti vengono da terre dove si sono moltiplicati, con le alleanze tra milizie, bande locali e nomadi, i corridoi di tutti i traffici: armi, droga, essere umani. Gran parte della cocaina sudamericana passa da qui: un giro d’affari da 1,3 miliardi di dollari l’anno secondo l’Onu.

 

L’immigrazione clandestina ha una regola ferrea: la chiusura di una frontiera - oggi quella orientale - provoca un cambiamento quasi immediato delle rotte. In Albania le reti criminali fiutano l’affare e l’Italia teme gli arrivi dal Nordafrica e dalla Libia: le stime di Federica Mogherini, alto rappresentante della politica europea, dicono che sono in 500mila sulla sponda Sud ad aspettare per il grande salto. Possiamo dire di conoscerli già. I tempi dei profughi sono diversi dai nostri e nell’attesa vagano per anni tra i deserti del Sahel e le città africane: una clandestinità cronica. 

 

Ecco secondo alcuni un buon motivo per sbarcare con i soldati in Libia, dove l’economia del migrante, la tratta di essere umani, rende quanto il petrolio. In un servizio di Sky tv si scopre che il clan che protegge gli impianti dell’Eni fa anche buoni affari con i migranti. Stringiamo le mani a leader e ministri - una pletora per tre governi, uno in pectore a Tunisi, uno a Tripoli e l’altro a Tobruk - che nuotano agilmente in questa nuova economia libica: un intervento militare, se ci sarà, dovrà tenere conto delle complicità e degli intrecci di interessi con i nuovi padroni del territorio libico e delle sue sponde.

 

La guerra all’Isis in Libia è anche questa, forse soprattutto questa.

 

L’Europa per i migranti comincia sempre qui, sul molo di Lampedusa, dove sbarcano centinaia di profughi dalle motovedette della guardia costiera. Ogni alba appare uguale all’altra, simile a quella del 3 ottobre 2013 quando ne morirono 366 nel naufragio di un barcone salpato da Misurata. 

 

Fuocoammare non è solo il titolo di un film premiato ai festival. «Abbiamo visto dei fuochi all’orizzonte, sembravano torce - racconta Costantino Baratta, muratore 58 anni - e siamo usciti con la barca: galleggiavano teste nere e occhi sgranati gridando “help me, help me!”. Li abbiamo afferrati ma scivolavano via come saponette, i corpi erano sporchi del gasolio usato per lanciare segnali incendiari con gli stracci. La barca era piccola, cinque metri, ne abbiamo trascinati a bordo 12 e già si vedevano galleggiare cadaveri ovunque. Anche quello di una donna incinta, sembrava morta ma respirava ancora: l’abbiamo salvata. Era eritrea come molti altri: dopo tre anni ci sentiamo sempre, mi ha telefonato anche l’altro giorno dalla Svezia, sta bene».

 

È in questo avamposto dell’umanità perduta che arriva la risacca di un intero continente. L’Italia è in prima linea, punta a una politica dei rimpatri, assai difficile da attuare, ma anche alla cooperazione per dare un’accelerazione allo sviluppo africano. Ma se si confrontano gli 1,8 miliardi stanziati dall’Europa per il “Fondo di fiducia” ai “tre più tre” offerti alla Turchia è evidente che c’è un problema. Ci dovrebbe essere una risposta veloce, flessibile, collettiva, all’instabilità dell’Africa per affrontare le cause profonde delle migrazioni.

 

Ma l’Europa risponde con frasi di circostanza: «Non si coopera per buonismo - sostiene Giro - ma per stare al mondo in maniera intelligente». Forse tra qualche tempo non avremo neppure questa scelta.

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