http://www.nigrizia.it/

Lunedì 10 luglio 2017

 

Niente da festeggiare

di Bianca Saini

 

Il sesto anniversario dell’indipendenza del Sud Sudan fotografa l’inferno di un paese lacerato da tre anni e mezzo di una guerra civile combattuta sempre più su linee etniche e da un rapace governo centrale responsabile della profonda crisi economica, alimentare e sanitaria.

 

Il 9 luglio del 2011 il Sud Sudan era in tripudio, mentre il mondo salutava la nascita del 54esimo stato africano, dopo cinquant’anni di conflitti quasi ininterrotti con i diversi regimi sudanesi che si erano succeduti in Sudan.
Il 9 luglio del 2017, solo sei anni dopo, il governo sud sudanese ha cancellato le celebrazioni per la festa dell’indipendenza, ufficialmente per mancanza di fondi per la loro organizzazione. Un segno inequivocabile della crisi devastante in cui la guerra civile - scoppiata alla metà di dicembre del 2013 per un conflitto di potere tra il presidente Kiir e il vicepresidente Machar, presto scivolato su linee etniche - ha precipitato il paese.
Questo sesto anniversario è marcato da notizie molto preoccupanti in tutti i settori.

Economia al collasso 

L’unica risorsa sfruttata del paese, il petrolio, ha risentito fortemente prima della caduta del prezzo del greggio sul mercato internazionale e poi della guerra civile. Le poche risorse sono state indirizzate all’acquisto di armi per foraggiare il conflitto e ai conti bancari esteri di molti dei leader di un regime ormai definito da tutti gli analisti come una cleptocrazia. L’inflazione è in rapidissima crescita, con il risultato che chi può accedere a monete forti, e cioè un ristrettissimo circolo, si arricchisce mentre per tutti gli altri è impossibile accedere anche ai beni di primissima necessità. Ormai le casse dello stato non sono più in grado di pagare gli stipendi agli impiegati statali e neppure all’esercito e alle forze di sicurezza. Sono di questi giorni voci insistenti di possibili ammutinamenti. Ufficiali dell’esercito dicono apertamente, chiedendo l’anonimato, che i militari non accetteranno ulteriori dilazioni, dal momento che ormai la condizione è insostenibile.

La situazione è talmente grave che le banche regionali, come la Kenyan Commercial Bank e altre, che avevano aperto filiali in tutti i maggiori centri e di fatto garantivano l’espletamento delle operazioni finanziarie, hanno ora chiuso la maggioranza degli sportelli, e se la crisi continuerà ad aggravarsi, potrebbero decidere di ritirarsi del tutto dal paese. Già ora inviare fondi in Sud Sudan attraverso il sistema bancario è molto problematico. E una volta che i fondi sono arrivati, è difficilissimo servirsene, per le restrizioni nelle operazione bancarie. E questo non favorisce certo la trasparenza nell’uso delle risorse destinate al paese.

Crisi alimentare e sanitaria

Il conflitto ha devastato anche le regioni agricole più produttive, trasformando “il granaio del paese in un campo di morte”, come titola il suo ultimo rapporto sul paese Amnesty International, riferendosi alla regione dell’Equatoria. Come risultato, aumentano le persone sull’orlo della fame. Nell’ultimo bollettino dell’organizzazione dell’Onu per il coordinamento delle operazioni umanitarie (Ocha), pubblicato il 28 giugno, si dice che ormai sono 6 milioni i sud sudanesi che hanno urgente necessità di aiuti alimentari. Erano 5 milioni e mezzo all’inizio di giugno. Si aggravano anche altri indicatori: gli sfollati sono poco meno di 2 milioni, così come i rifugiati oltre confine. Di questi 4 milioni di profughi, più di 2 milioni sono minori, dice l’Unicef, e questo significa che un’intera generazione sta crescendo tra gli stenti e senza educazione, condizione che porrà enormi problemi anche allo sviluppo futuro del paese. L’Unhcr da tempo dice che la crisi sud sudanese è quella che si sta aggravando più rapidamente al mondo e gli aiuti finora hanno ottenuto solo circa il 50% delle necessità stimate all’inizio dell’anno.

Ad aggravare il quadro, le condizioni sanitarie: il colera è ormai endemico in numerose zone del paese: è scoppiato un anno fa e ci sono stati più di 11.000 casi di contagio, con 190 morti accertati ma, dice Ocha, le verifiche finora non hanno potuto essere accurate e dunque i dati sono destinati ad aggravarsi.

Solo la pace potrebbe portare un po’ di sollievo alla popolazione, ma purtroppo sembra ancora molto lontana. I combattimenti sul terreno sono quotidiani e investono ora una zona del paese, ora un’altra. In questi giorni gli scontri maggiori sono nell’Equatoria Orientale, attorno a Torit, mentre nel Nilo superiore pochi giorni fa 25 operatori umanitari hanno dovuto essere spostati per il crescere dei combattimenti nella zona di Pagak, la roccaforte dell’opposizione. Ma sta di nuovo crescendo la tensione, su base etnica dice lo stesso presidente Kiir, anche nel Jonglei.

Diplomazia bloccata

In fase di stallo l’iniziativa diplomatica internazionale, dopo che il governo di Juba ha rifiutato di rinegoziare l’accordo di pace dell’agosto 2015, pur dicendosi disposto ad attuarne le disposizioni che erano rimaste lettera morta. Impegno a cui è difficile prestar fede, sia perché la situazione sul campo è totalmente cambiata e gli attori del conflitto si sono moltiplicati, sia perché il controllo del territorio da parte del governo è sempre più frastagliato e debole. Poche speranze sono riposte anche nel processo di dialogo nazionale, partito tra le polemiche e che si sta svolgendo senza risorse e soprattutto senza una chiara direzione, mentre l’opposizione afferma che un dialogo sarà possibile solo dopo un effettivo cessate il fuoco, impossibile da discutere se i numerosi contendenti non si siederanno di nuovo attorno ad un tavolo negoziale.

Sembra che il governo pensi di poter vincere la partita militarmente e cerchi di prepararsi il terreno della governabilità futura con il dialogo nazionale. E’ una partita “sporca”, giocata sulla pelle della popolazione che, in questo conflitto, è sempre più una variabile del tutto insignificante, come denunciano innumerevoli rapporti delle organizzazioni internazionali competenti su terribili, segnalando ripetute e continuate violazioni dei diritti umani e delle disposizioni internazionali in materia di protezioni dei civili nei contesti di conflitto.

 

top