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26 September 2017

 

Gramsci e la rivoluzione d'ottobre

di Guido Liguori

 

Il saggio di Guido Liguori che pubblichiamo è tratto dall’ultimo numero della rivista Critica Marxista. Chi desideri acquistare la rivista o abbonarsi, può chiedere informazioni alle Edizioni Ediesse

 

La peculiare formazione di Gramsci gli fece scorgere nelle due rivoluzioni russe del 1917 l’inveramento delle sue concezioni soggettivistiche.

 

La successiva comprensione della differenza tra “Oriente” e “Occidente” lo portò a una rivoluzione del concetto di rivoluzione, senza fargli rinnegare l’importanza storica dell’Ottobre né la solidarietà di fondo con il primo Stato socialista della storia.

 

A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre e a ottant’anni dalla morte di Gramsci non è inutile tornare sulla lettura che nel 1917 l’allora ventiseienne socialista sardo diede dei fatti di Russia e anche su cosa poi rimase di tale interpretazione nel suo bagaglio teorico-politico più maturo. La rivoluzione guidata da Lenin, infatti, costituì per il giovane sardo trapiantato a Torino un punto di svolta politico, teorico ed esistenziale a partire dal quale iniziò la maturazione del suo pensiero e la sua vicenda di comunista. Per comprendere come Gramsci si rapportò alla Rivoluzione d’Ottobre occorre dunque partire in primo luogo dalla consapevolezza che Gramsci fu sempre, dagli anni torinesi alle opere del carcere, non solo un teorico della rivoluzione, ma un rivoluzionario.

 

È quanto ebbe a sottolineare Palmiro Togliatti, nell’ambito del primo dei convegni decennali dedicati al pensiero di Gramsci, che ebbe luogo a Roma nel gennaio 1958, affermando: «G. fu un teorico della politica, ma soprattutto fu un politico pratico, cioè un combattente [...]. Nella politica è da ricercarsi la unità della vita di A.G.: il punto di partenza e il punto di arrivo»1. 

 

Contro la passività

Politica come rivoluzione, nel caso di Gramsci, politica come lotta per la trasformazione del mondo. Inizialmente, nella vita del futuro dirigente comunista, politica come ribellione. Come Gramsci stesso ebbe a ricordare in una lettera alla moglie del 1924, ciò che lo aveva condotto a uno stato di ribellione rispetto alle condizioni sociali del suo tempo e del suo paese aveva avuto origine nelle dolorose esperienze personali risalenti agli anni dell’infanzia, quando – dopo l’arresto del padre – la famiglia era precipitata in miseria, fino a costringere il piccolo Nino, ancora bambino, a sospendere per diverso tempo la scuola, alla fine delle elementari, per andare a lavorare presso l’ufficio del catasto di Ghilarza. Ciò che allora lo aveva salvato «dal diventare completamente un cencio inamidato» – egli scriveva – era stato l’«istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso 10 in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti»2.

 

Già in Sardegna, però, Antonio aveva iniziato a leggere libri e riviste di quella cultura d’opposizione a Giolitti e al giolittismo che fu il terreno sul quale egli dapprima si formò politicamente e culturalmente: la stampa socialista, le idee soreliane, ma anche le “riviste fiorentine” come Il Leonardo e La Voce di Papini e Prezzolini, e filosofie come il neoidealismo e il pragmatismo.

 

Una cultura quasi tutta convergente in una rivalutazione del “soggetto” contro l’“oggettivismo” (epistemologico, storico, politico) di matrice positivistica, che influenzava profondamente le principali correnti del movimento operaio del tempo.

Nel 1911 Gramsci si trasferì a Torino per frequentarvi la facoltà di Lettere e filosofia, grazie a una borsa di studio appena sufficiente per la sopravvivenza3. A Torino aderì, già prima della Grande Guerra, al movimento socialista4. Ma il suo marxismo, la sua concezione del mondo, era allora molto particolare: per la sua formazione culturale, quello del giovane Gramsci fu un marxismo soggettivistico, antideterminista, antieconomicista, influenzato appunto dal neoidealismo e dal bergsonismo mediato da Sorel. Un marxismo originale, dunque, anche ingenuo, in qualche passaggio, imperniato come era sul primato assoluto e idealistico della volontà.

 

Non mancavano in questi anni tratti importanti di una visione antideterministica anche dei processi rivoluzionari. Nell’articolo Socialismo e cultura, ad esempio, Gramsci avanzava una definizione della cultura come conquista e valorizzazione del proprio io, e dunque crescita della soggettività5. Si faceva già strada l’idea dell’importanza – nei processi di cambiamento, e anche nelle grandi rivoluzioni – dell’acquisizione della consapevolezza, delle idee, dei valori.

 

Scriveva infatti Gramsci:

«ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee […] L’ultimo esempio, il più vicino a noi e perciò meno diverso dal nostro, è quello della Rivoluzione francese. Il periodo anteriore culturale, detto dell’illuminismo, tanto diffamato dai facili critici della ragione teoretica, non fu affatto, o almeno non fu […] solo un fenomeno di intellettualismo pedantesco ed arido simile a quello che vediamo dinanzi ai nostri occhi e che trova la sua maggiore esplicazione nelle Università popolari di infimo ordine. Fu una magnifica rivoluzione esso stesso, per la quale, come nota acutamente il De Sanctis nella Storia della letteratura italiana, si era formata in tutta l’Europa come una coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese sensibile in ogni sua parte ai dolori e alle disgrazie comuni e che era la preparazione migliore per la rivolta sanguinosa poi verificatasi nella Francia»6.

 

Questo soggettivismo antideterministico e l’importanza fondamentale della volontà si tramutavano in una spiccata propensione a prendere parte, ad attivarsi, a partecipare e lottare, a rifuggire dalla passività: questo significava il celebre grido «odio gli indifferenti»7, lanciato nel gennaio 1917, poche settimane prima della “rivoluzione di febbraio” in Russia.

 

Le due rivoluzioni russe

Fin dai primi commenti alla “rivoluzione di febbraio” Gramsci lesse gli avvenimenti di Russia come la riscossa dei socialisti che non avevano tradito lo spirito dell’Internazionale, e vide nei fatti di Pietrogrado una «rivoluzione proletaria»8. Non aveva del tutto torto, poiché all’origine della “prima rivoluzione” del 1917, quella di febbraio appunto, vi erano stati imponenti scioperi e manifestazioni a partire dalle fabbriche dell’allora capitale della Russia zarista, come era stato decisivo il passaggio dalla parte degli insorti di numerosi reparti di soldati (per lo più contadini in armi, stanchi della guerra, dello zarismo e dei rapporti sociali vigenti nelle campagne) che si unirono ai rivoltosi.

 

Quali per Gramsci i caratteri di fondo dell’evento?

La «rivoluzione russa» era per lui un «atto» proletario, soprattutto perché aveva «ignorato il giacobinismo», ovvero non aveva «dovuto conquistare la maggioranza con la violenza»9. Fino al 1921 – quando muterà giudizio sulla base dell’opera del grande storico francese Albert Mathiez, che sottolineerà positivamente le similitudini tra giacobini e bolscevichi10 – Gramsci fu decisamente antigiacobino. Ignorando le pagine controverse sull’argomento che si trovano in Marx o il deciso filogiacobinismo di Lenin11, egli era influenzato nei suoi anni giovanili soprattutto da Sorel, che aveva sostenuto esservi elementi di continuità autoritaria tra giacobinismo e ancien régime12.

 

Il giacobinismo, la rivoluzione giacobina, erano per il Gramsci del 1917 fenomeni borghesi, di una minoranza che «serviva degli interessi particolaristici, gli interessi della sua classe, e li serviva con la mentalità chiusa e gretta di tutti quelli che tendono a dei fini particolaristici »13. Invece i «rivoluzionari russi» non volevano sostituire dittatura a dittatura e – egli sosteneva – avrebbero avuto, attraverso il suffragio universale, l’appoggio della grandissima parte del «proletariato russo», se solo esso avesse potuto esprimersi liberamente, senza essere soggetto agli apparati repressivi dello Stato zarista.

È una visione del processo rivoluzionario non priva di qualche ingenuità, sia per quel che concerneva i fatti di Russia – in cui le forze della rivoluzione erano in realtà molto più composite e divise al loro interno di quanto il discorso gramsciano in un primo momento comprendesse e lasciasse intendere –, sia per l’idea che il suffragio universale bastasse a garantire l’affermarsi della reale volontà del proletariato, che il socialista rivoluzionario Gramsci intendeva nei termini di un «passaggio a una nuova forma di società»14, una società socialista. Gramsci prescindeva qui – al contrario di quanto farà con grande acutezza negli scritti maturi del carcere, ma anche, in parte, nel periodo consiliarista della rivista L’Ordine Nuovo e del “biennio rosso” – dai prerequisiti della democrazia, dagli elementi tendenzialmente egualitari (in termini di cultura, informazione, consapevolezza, libertà dal bisogno) che un corpo elettorale dovrebbe avere per esprimersi senza «fini particolaristici».

 

Un altro elemento piuttosto ingenuo appare, inoltre, la convinzione gramsciana per la quale la rivoluzione – che egli legge idealisticamente in primo luogo come fatto spirituale – avesse dovuto provocare immediatamente un mutamento di costumi e di indole, persino tra i «malfattori», pronti a divenire istantaneamente, per effetto taumaturgico dell’evento rivoluzionario, una nuova esemplificazioni della «morale assoluta» kantiana15.

 

Scrive Gramsci:

«In un reclusorio i condannati per reati comuni all’annunzio che erano liberi, risposero di non sentirsi in diritto di accettare la libertà perché dovevano espiare le loro colpe. A Odessa essi si radunarono nel cortile della prigione, e volontariamente giurarono di diventare onesti e di far proposito di vivere del loro lavoro»16.

 

Al di là della veridicità molto parziale degli episodi citati17, notevole è in questo contesto l’affermazione gramsciana per cui «la libertà fa gli uomini liberi»18. Parole nelle quali sembra sottolineata la possibilità e il valore dell’autoeducazione alla libertà, in condizioni sociali e culturali liberate dalle antiche servitù e dai vecchi modi di pensare. Una visione antropologica ottimistica, di stampo rousseauiano, verrebbe da dire, riscontrabile accanto al forte influsso kantiano esplicitamente richiamato19.

 

Scrive infatti Gramsci nel suo articolo:

«La libertà fa gli uomini liberi, allarga l’orizzonte morale, del peggiore malfattore in regime autoritario, fa un martire del dovere»20, ove è la fine del regime autoritario, la fine della società data, a causare, o a rendere possibile, il mutamento morale.

Inizierà dopo qualche mese, da parte del giovane socialista, l’analisi delle distinzioni interne al grande evento rivoluzionario che aveva archiviato il potere zarista, ma non la guerra. L’attenzione gramsciana venne spostandosi, sia pure non senza qualche oscillazione21, comprensibile vista la scarsità e difficoltà delle informazioni, verso la componente bolscevica (termine che allora veniva tradotto in Italia con «massimalista», per usare una categoria nota del panorama politico italiano del tempo), individuata come la forza che non accettava che la rivoluzione si fermasse al suo stadio democratico-borghese, ma che pretendeva che essa andasse avanti fino alla conquista di una società socialista: «Lenin […] e i suoi compagni bolsceviki – scriveva Gramsci – sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo. Sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti»22.

 

Dove è palese la polemica contro l’evoluzionismo kautskiano dominante nella cultura della Seconda Internazionale (per di più rappresentato in Italia dal socialismo molto moderato dei Treves e dei Turati), in nome di quel soggettivismo rivoluzionario che contraddistingueva Gramsci: in Russia – egli aggiungeva – «la rivoluzione continua», perché gli uomini, tutti gli uomini siano «gli artefici del loro destino».

Il 25 ottobre secondo il calendario russo (il 7 novembre secondo quello occidentale) vi fu la presa del Palazzo d’Inverno, l’assunzione del potere da parte dei Soviet egemonizzati dai bolscevichi. Celeberrimo è il commento gramsciano, scritto a fine novembre23: si trattava, per il socialista sardo, di una «rivoluzione contro Il Capitale», il libro di Marx, contro chi aveva dato di quel libro e del marxismo una lettura economicistica e deterministica, “stadiale”, per la quale non sarebbe stata possibile alcuna rivoluzione socialista nella Russia arretrata prima di un adeguato sviluppo dello “stadio capitalistico”, dell’industria e dunque della classe operaia russe24.

 

Ora invece, scriveva Gramsci:

«i massimalisti […] si sono impadroniti del potere, hanno stabilito la loro dittatura, e stanno elaborando le forme socialiste in cui la rivoluzione dovrà finalmente adagiarsi, per continuare a svilupparsi armonicamente, senza troppo grandi urti, partendo dalle grandi conquiste realizzate oramai»25.

Il marxismo dei bolscevichi era “costruito” da Gramsci a immagine e somiglianza delle sue idee del periodo: un marxismo liberato dalle scorie del positivismo.

 

È ancora una volta la volontà che trionfa, nella visione di Gramsci:

«sono gli essere umani associati che possono comprendere i fatti economici e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace»26.

 

Una lezione ancora attuale: le leggi presunte oggettive (secondo l’ideologia liberista e neoliberista) dell’economia e del mercato possono essere comprese e “domate”, cambiate, sono prodotto degli esseri umani e possono essere da essi poste in revoca.

Al di là dell’attacco giornalistico a effetto (la «rivoluzione contro Il Capitale» di Marx), in realtà l’articolo coglieva alcune motivazioni profonde che avevano reso possibile l’Ottobre russo: solo la guerra aveva permesso un evento inaudito e per i più inaspettato. Marx aveva «preveduto il prevedibile», non aveva potuto prevedere la Prima guerra mondiale, il suo carattere senza precedenti, che «avrebbe suscitato in Russia la volontà collettiva popolare» in tempi molto più rapidi della norma.

 

Affermava Gramsci:

«perché, normalmente i canoni di critica storica del marxismo colgono la realtà» 27. In quanto «in Russia la guerra ha servito a spoltrire le volontà. Esse, attraverso le sofferenze accumulate in tre anni, si sono trovate all’unisono molto rapidamente. La carestia era immanente, la fame, la morte per fame poteva cogliere tutti, maciullare d’un colpo decine di milioni di uomini. Le volontà si sono messe all’unisono» 28.

 

La Russia aveva avuto la sua rivoluzione perché Lenin aveva saputo leggere la “congiuntura”, diremmo oggi, aveva saputo fare «l’analisi concreta della situazione concreta» (come amava dire il dirigente bolscevico). Gli eventi storici sono sempre individuali, la politica e la storia sono per Gramsci discipline idiografiche: ogni generalizzazione è errata.

 

Il Gramsci maturo riformulerà la sua visione del processo rivoluzionario, arrivando a definirlo come un momento di equilibrio e di influenza reciproca tra “rapporti di forze” e iniziativa rivoluzionaria. Iniziano infatti a essere presenti in Gramsci, dalla Rivoluzione russa in avanti, sulla scorta di Lenin, considerazioni e argomentazioni più coerenti con la tradizione marxista.

 

La visione del Gramsci maturo non perderà il dato dell’importanza della volontà e della soggettività, ma la realtà storico-sociale sarà nei Quaderni un “campo di possibilità” che le condizioni oggettive offrono al soggetto, all’interno del quale si determinerà un certo esito piuttosto che un altro a seconda dell’azione e delle capacità del soggetto stesso. Il forte soggettivismo giovanile sarà superato proprio a partire dalla situazione nuova che l’Ottobre aveva creato e che ricollocava anche la visione gramsciana su un terreno inedito e più concreto. Fu proprio a partire dalla adesione di Gramsci al movimento politico internazionale che nasceva con la “seconda rivoluzione” russa che il suo marxismo iniziò a liberarsi dalle incrostazioni idealistiche e spiritualistiche che lo condizionavano.

 

Da Oriente a Occidente

Gramsci passa negli anni successivi per esperienze difficili e cruciali. In primo luogo il “biennio rosso” 1919-1920, quando egli divenne uno dei più importanti e originali rappresentanti nel pensiero consiliarista europeo, assumendo di fatto la guida del movimento dei Consigli di fabbrica torinese e sviluppando una concezione dell’autogoverno delle classi lavoratrici originale e anche parzialmente diversa rispetto al modello soviettista russo. I Consigli di Gramsci, molto più dei Soviet, affondano le proprie radici direttamente nell’articolazione del mondo produttivo, nella fabbrica, e da lì si espandano (nella elaborazione teorica del rivoluzionario sardo) al resto della società, sempre seguendo la organizzazione e la articolazione del lavoro e dei lavori29.

 

Si tratta, per il Gramsci di questo periodo, di riunificare concretamente il citoyen e il bourgeois di cui parla Marx in Sulla questione ebraica, si tratta di ricomporre la scissione tra società civile e società politica che il grande rivoluzionario tedesco aveva individuato come tipica della società borghese, ponendo il Consiglio a un tempo come il collettivo a cui è affidata la gestione della produzione e come cellula di base dello Stato proletario e socialista.

 

La sconfitta del movimento operaio torinese fece comprendere meglio la complessità e varietà della società italiana, il fatto che non tutta l’Italia era Torino, ovvero “occidente”, moderna società industriale massificata e caratterizzata dalle concentrazione di masse operaie della grande fabbrica, tendenzialmente unitarie sotto il profilo della mentalità, degli interessi e della disciplina; ma fece comprendere anche i limiti del Partito socialista italiano, rivoluzionario a parole ma immobilista, diviso e confusionario nei fatti. Dalla consapevolezza di tali limiti nasceva la spinta a formare subito un partito comunista anche in Italia, accettando la leadership di Amadeo Bordiga, da cui Gramsci era pure per tanti versi distante. E dalla sconfitta del movimento operaio e socialista nel “biennio rosso” nacque anche la drammatica fase della reazione fascista e la sconfitta storica che subì il movimento operaio italiano.

 

La qual cosa provocò un ripensamento profondo in Gramsci e lo predispose a fare proprio l’insegnamento dell’ultimo Lenin sulla possibilità di una rivoluzione immediata in Occidente con le stesse modalità della Rivoluzione d’Ottobre.

 

Dal suo partito Gramsci era stato infatti inviato nel giugno 1922 a Mosca, come rappresentate italiano presso l’Internazionale comunista. Nel “Paese dei Soviet” risiedette fino alla fine del 1923, per poi spostarsi a Vienna e fare ritorno in Italia nel maggio 1924. Iniziò a Mosca una fase di conoscenza più profonda del pensiero di Lenin e del gruppo dirigente bolscevico, allora – finita la guerra civile – impegnato nel tentativo di edificazione di una inedita società socialista negli anni della riscoperta di una certa gradualità: la Nep, la Nuova politica economica, che cercava di recuperare un rapporto di alleanza coi contadini, fortemente compromesso negli anni della guerra civile e del “comunismo di guerra”.

 

Venuta meno la speranza di una subitanea rivoluzione in Occidente, e maturata la convinzione di una capacità di resistenza del capitalismo ben superiore alle prime ingenue speranze e previsioni, Lenin rilanciò la politica del “fronte unico”, ovvero dell’alleanza coi socialisti contro le forze borghesi. La lezione che veniva dall’ultimo Lenin era quella di una crisi capitalistica che non necessariamente avrebbe assunto dimensioni “catastrofiche”, dando inizio a un vittorioso processo rivoluzionario.

 

Fu a partire da Lenin che Gramsci maturò la convinzione che in Occidente non si potesse “fare come in Russia”, poiché (scriveva da Vienna ai compagni a lui più vicini, in gran parte gli stessi dell’Ordine Nuovo, con cui su incarico del Comintern si proponeva di creare un nuovo gruppo dirigente del partito, fuori dalle secche dell’estremismo bordighiano) la determinazione, che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all’assalto rivoluzionario, nell’Europa centrale ed occidentale si complica per tutte queste superstrutture politiche, create dal più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e più prudente l’azione delle masse e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più complesse e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il marzo e il novembre 191730.

 

Già nel 1924 Gramsci aveva maturato in nuce alcuni dei temi (guerra di posizione, egemonia) che sarebbero stati centrali nei Quaderni31. Iniziò sotto la guida di Gramsci (e grazie all’autorità indiscussa dell’Internazionale, che lo appoggiava) un vero e proprio periodo di rifondazione gramsciana del Partito comunista d’Italia, che culminò nel suo III Congresso, svoltosi a Lione nel gennaio 192632.

 

La “rivoluzione del concetto di rivoluzione”

Passando per tutte queste vicende storiche drammatiche, negli anni che vanno dal 1917 e poi dal 1921 fino al 1926, anno in cui viene arrestato, Gramsci giunse certo a un ripensamento complessivo del suo bagaglio teorico giovanile. Alcuni fili del quale, e non secondari, sono riscontrabili anche nella trama delle opere del carcere, ma inseriti in un quadro d’insieme per molti aspetti diverso. Alla volontà rivoluzionaria, nel Gramsci maturo si affianca la conoscenza della situazione il più possibile oggettiva, l’analisi minuziosa, storica e sociale, del terreno (soprattutto nazionale) su cui si svolge la lotta. Questa analisi, applicata alla realtà italiana prima e all’Occidente capitalistico poi, portava alla conclusione della non ripetibilità di una rivoluzione di tipo sovietico.

 

Gramsci in carcere, in altre parole, giunge a mettere a fuoco la differenza morfologica tra Oriente e Occidente, e di conseguenza tra guerra di movimento e guerra di posizione33. E giunge ad affermare che la Rivoluzione russa è l’ultima rivoluzione di stampo ottocentesco, l’ultima rivoluzione-insurrezione, almeno in Europa o nel mondo avanzato.

La formulazione di questo fondamentale passaggio avviene nel Quaderno 7, in una nota intitolata proprio Guerra di movimento e guerra di posizione, databile34 nel novembre-dicembre 1930:

«Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente, dove, come osserva Krasnov, in breve spazio gli eserciti potevano accumulare sterminate quantità di munizioni, dove i quadri sociali erano di per sé ancora capaci di diventare trincee munitissime. Questo mi pare significare la formula del «fronte unico» che corrisponde alla concezione di un solo fronte dell’Intesa sotto il comando unico di Foch. Solo che Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile ecc.»

 

In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte35.

 

In Occidente, la moderna struttura della società di massa, la compenetrazione nuova tra Stato e società civile, il peso e l’importanza degli apparati della formazione del consenso sono tutti fattori che portano il rivoluzionario sardo a rivoluzionare profondamente il concetto di rivoluzione, non solo rispetto alla visione soggettivistica e idealistica che dello stesso egli aveva avuto nel suo periodo giovanile, ma anche rispetto alla concezione classica, e a volte stereotipata, della tradizione marxista e leninista. Non perché Gramsci fuoriesca dal marxismo o dalla tradizione rivoluzionaria, con un approdo classicamente riformista – come pure a volte è stato sostenuto.

 

La volontà (rivoluzionaria), la volontà collettiva indispensabile per la trasformazione sociale e politica, non viene meno, ma essa ora parte dall’assunto della necessità della conoscenza del nuovo terreno in cui si è chiamati a operare e si fa banditrice di quella che Gramsci chiama una «riforma intellettuale e morale».

 

La volontà di cambiamento non perde comunque il suo ancoraggio di classe, il suo cuore nel mondo economico e dei rapporti sociali. La domanda fondamentale che Gramsci si fa nei Quaderni è infatti la seguente: «come nasce il movimento storico sulla base della struttura»36. Sulla base della struttura, scrive Gramsci, che affonda la sua teoria della rivoluzione ben salda nel terreno dei rapporti economico-sociali, ma ne indaga soprattutto gli aspetti “sovrastrutturali” e la loro “autonomia relativa”, poiché vede tutta la complessità dell’azione politica, tanto più nell’epoca moderna: rifiuta le concezioni economicistiche fondate sul binomio crisi economica-rivoluzione (che erano state alla base del marxismo della Seconda Internazionale, ma che anche la Terza Internazionale aveva fatto proprie); individua come fondamentali gli apparati pubblici e privati che formano il senso comune diffuso; sottolinea l’importanza delle trasformazioni molecolari; e ritiene decisivo lanciare la sfida della conquista del consenso. Sottolinea cioè l’importanza decisiva di una elaborazione culturale e ideologica che sappia offrire una nuova e persuasiva «concezione del mondo», che sappia formare un nuovo senso comune di massa – sempre però a partire da quella lettura della società divisa in classi che aveva appreso da Marx e a partire dalla necessità di quella capacità di iniziativa politica che aveva imparato da Lenin.

È una concezione che, mettendo in rilievo l’importanza decisiva del consenso, della elaborazione culturale, del senso comune diffuso, del «progresso intellettuale di massa», pone le premesse per una lotta politica democratica, compatibile con la strategia della conquista dell’egemonia.

 

1926

Nel 1926 si era intanto avuto, alla vigilia dell’arresto di Gramsci a Roma, il famoso scambio epistolare con Togliatti a Mosca37. In esso, nella sua prima lettera38, Gramsci dichiarava di aderire alla linea della maggioranza del Partito comunista russo (di Stalin e Bucharin), a cui il partito italiano era più vicino perché essa continuava a sostenere per il momento39 la politica leninista di alleanza con i contadini; ma metteva in guardia contro le modalità con cui veniva condotta la lotta contro la minoranza di Trockij, Zinov’ev, ecc., modalità che – unitamente alla rottura dell’unità della “vecchia guardia” leninista – minavano la credibilità di tutto il gruppo dirigente comunista mondiale. Gramsci esprimeva in sostanza preoccupazione per il fatto che le masse non avrebbero capito i termini di un conflitto tanto violento, e preoccupazione per il futuro stesso del movimento comunista internazionale.

 

Un decennio era trascorso dalla Rivoluzione d’Ottobre e dagli entusiastici commenti gramsciani del 1917. Gramsci non avrebbe mai rinnegato il suo schierarsi dalla parte del Paese nato dalla prima rivoluzione socialista della storia, ma aveva compreso come le finalità allora agognate stessero irrimediabilmente cambiando, per il venir meno della prospettiva della rivoluzione mondiale, e per il conseguente e decisivo processo di identificazione del movimento comunista con lo Stato sovietico. La Rivoluzione d’Ottobre, istituzionalizzandosi e rattrappendosi in un territorio determinato, aveva trovato i propri limiti storici.


* Questo scritto è lo sviluppo di una riflessione maturata in più tappe nel corso di quest’anno. Tra le più recenti ricordo il convegno internazionale organizzato dall’Università di Cagliari sul tema Un secolo di rivoluzioni. Percorsi gramsciani nel mondo (Cagliari, 27-28 aprile 2017); il seminario su Gramsci e la rivoluzione, promosso da Futura Umanità. Associazione per la storia e la memoria del Pci e dalla International Gramsci Society Italia (Roma, 14 giugno 2017); e la Scuola estiva di alta formazione in Filosofia di Roccella Jonica (20-25 luglio 2017). Alle amiche e agli amici che hanno promosso tali eventi e in generale a tutte e tutti coloro che hanno discusso con me i temi che qui affronto vanno i miei più vivi ringraziamenti.


Note

1 P. Togliatti, Il leninismo nel pensiero e nell’azione di A. Gramsci [1958], ora in Id., Scritti su Gramsci, a cura di G. Liguori, Roma, Editori Riuniti university press, 2013, p. 224.

2 A. Gramsci, Lettere 1908-1926, a cura di A.A. Santucci, Torino, Einaudi, 1992, p. 271 (lettera a Giulia, 6 marzo 1924).

3 Cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di A.A. Santucci, Palermo, Sellerio, 1996, p. 117 (lettera a Carlo, 12 settembre 1927).

4 Sul Gramsci del periodo torinese cfr. L. Paggi. Gramsci e il moderno Principe, Roma, Editori Riuniti, 1970; L. Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919), Roma, Carocci, 2011; e A. d’Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Milano, Feltrinelli, 2017.

5 Cfr. A. Gramsci, Socialismo e cultura, in Il Grido del Popolo, 29 gennaio 1916, ora in Id., Masse e partito. Antologia 1910-1926, a cura di G. Liguori, Roma, Editori Riuniti, 2016, p. 57.

6 Ibidem.

8 A. Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, in Il Grido del Popolo, 29 aprile 1917, ora in Id., Come alla volontà piace. Scritti sulla Rivoluzione russa, a cura di G. Liguori, Roma, Castelvecchi, 2017, p. 34.

9 Ivi, p. 35.

10 Cfr. su questo R. Medici, Giacobinismo, in F. Frosini, G. Liguori (a cura di), Le parole di Gramsci, Roma, Carocci, 2004, pp. 113 ss.

11 Cfr. M. L. Salvadori, Il giacobinismo nel pensiero marxista, in Id., Europa America Marxismo, Torino, Einaudi, 1990.

12 Cfr. G. Sorel, Considerazioni sulla violenza [1908], Bari, Laterza, 1974, pp. 149-158.

13 A. Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, cit., p. 35.

14 Ibidem.

15 Ivi, p. 37.

16 Ivi, p. 36.

17 Si vedano in proposito le informazioni fornite dall’utilissimo apparato critico degli scritti gramsciani di questo periodo, riediti nell’ambito della Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci: A.Gramsci, Scritti (1910-1926), vol. 2: 1917, a cura di L. Rapone, con la collaborazione di L. Righi e il contributo di B. Garzarelli, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2015, pp. 258-259.

18 A. Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, cit., p. 36.

19 «L’uomo malfattore comune è diventato, nella rivoluzione russa, l’uomo quale Emanuele Kant, il teorizzatore della morale assoluta, aveva predicato, l’uomo che dice: l’immensità del cielo fuori di me, l’imperativo della mia coscienza dentro di me» (A. Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, cit., p. 37).

20 Ivi, p. 36.

21 La più clamorosa è quella che ancora a fine settembre 1917 fa ipotizzare a Gramsci che l’alternativa a Kerensky sia non più Lenin ma il socialrivoluzionario C ernov. Il fatto si spiega con la presenza in Italia del compagno di partito di C ernov, Suchomlin, che coi suoi scritti sull’Avanti!, dove si firmava “Junior”, influenzava evidentemente gli orientamenti di parte dei socialisti italiani.

22 A. Gramsci, I massimalisti russi, in Il Grido del Popolo, 28 luglio 1917, ora in Id., Come alla volontà piace…, cit., p. 39.

23 La rivoluzione contro «Il Capitale», l’articolo di Gramsci cui si fa riferimento, vide la luce solo il 24 dicembre sull’Avanti! Vari tentativi di pubblicazione, tuttavia, erano già stati tentati ma erano andati a vuoto per colpa della censura vigente durante la guerra, il primo sul Grido del Popolo del 1° dicembre 1917. Dunque l’articolo fu scritto da Gramsci tre settimane circa dopo i fatti di Pietrogrado (nel resto del Paese e nella stessa Mosca i combattimenti, del resto tenui, durarono qualche giorno di più), non un mese e mezzo dopo: un particolare non insignificante. Si veda in proposito il già menzionato apparato critico del volume di A. Gramsci, Scritti (1910-1926), vol. 2: 1917, cit., pp. XXXI e 617.

24 In realtà il problema era stato affrontato in modo antideterministico e non “stadiale” anche da Marx, sulla scorta delle sollecitazioni della rivoluzionaria russa Vera Zasulic. Cfr. da ultimo M. Musto, L’ultimo Marx 1881-1883, Roma, Donzelli, pp. 49 ss.

25 A. Gramsci, La rivoluzione contro «Il Capitale», in Il Grido del Popolo, 1° dicembre 1917, ora in Id., Come alla volontà piace…, cit., p. 50.

26 Ivi, p. 51.

27 Ibidem.

28 Ivi, p. 52.

29 Mi si consenta su questo il rinvio alla mia Introduzione ad A.Gramsci, Masse e partito, cit., e agli scritti gramsciani ivi indicati.

30 A. Gramsci, Lettere 1908-1926, cit., p. 233 (lettera a Palmi, Urbani, ecc. del 9 febbraio 1924). La lettera fa parte del carteggio pubblicato da Togliatti col titolo: La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, prima, nel 1960, negli Annali dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli e poi, nel 1962, come volume per i tipi degli Editori Riuniti.

31 Mi si consenta di rinviare su ciò al mio Teoria e politica nel marxismo di Antonio Gramsci, in S. Petrucciani (a cura di), Storia del marxismo. Vol. 1: Socialdemocrazia, revisionismo, rivoluzione, Carocci, Roma, 2015.

32 Cfr. ivi, pp. 249 ss.

33 Per quel che concerne le principali categorie gramsciane a cui qui si fa cenno, rinvio a G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario gramsciano 1926-1937, Roma, Carocci, 2009. Vi si veda in particolare di L. La Porta il lemma Rivoluzione, sub voce.

34 Cfr. G. Francioni, Nota introduttiva, in A. Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, Roma-Cagliari, Biblioteca Treccano e L’Unione sarda, vol. 10, 2009, p. 4.

35 A. Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, p. 845 (Quaderno 7, § 16).

36 Ivi, p. 1422 (Quaderno 11, § 22).

37 Lo si veda ora in A. Gramsci, Come alla volontà piace…, cit., pp.109-124. Sulle valenze dello scambio e sulle posizioni di Gramsci e Togliatti mi permetto di rinviare alla mia Introduzione, ivi, pp. 19-21.

38 Lettera di Gramsci al Comitato centrale del Partito comunista russo, 14 novembre 1926, firmata «L’Ufficio politico del PCI», ivi, pp.109 ss.

39 Sconfitto e liquidato Trockij, e sbarazzatosi di Bucharin (il vero teorico in quegli anni della alleanza operai-contadini, e punto di riferimento dei comunisti italiani nel gruppo dirigente bolscevico), Stalin fece propria in sostanza la proposta politica di Trockij stesso, procedendo a tappe forzate nella industrializzazione del paese, politica della quale furono proprio i contadini a pagare i prezzi maggiori. 

 

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