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27 gennaio 2017

 

La rivoluzione, un secolo dopo l’Ottobre

di Raúl Zibechi

Traduzione di Daniela Cavallo

 

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre offre un’occasione importante per riprendere una riflessione sulla rivoluzione e i suo esiti. Arriva mentre infuriano i venti minacciosi di una tormenta nella quale facciamo sempre più fatica a resistere cercando nel caos una rotta verso cui indirizzare il timone. Eppure le grandi rivoluzioni del Novecento ci dicono, per esempio, che sconfiggere le classi dominanti è possibile. Molto più arduo è però costruire una società diversa.   nazionale. Non era facile trasferire il potere dalle mani di uomini armati e apparati dello Stato ai lavoratori o ai contadini. Ma perché straordinarie esperienze di potere dal basso come quelle dei Soviet, delle Comuni cinesi o del potere popolare di Cuba sono state accantonate o sconfitte in così poco tempo? A segnarne il destino è stato l’impatto con lo Stato, finito nelle mani di burocazie operaie o di nuove borghesie cresciute al suo interno? Non sono molti i movimenti che hanno saputo trarre conclusioni feconde dal rapporto delle rivoluzioni con il potere ma ci sono eccezioni importanti come i movimenti femministi e quelli indigeni. E poi ci sono gli zapatisti del Chiapas che, a 23 anni dall’insurrezione, non sembrano affatto logorati dall’autogoverno e dal comandare obbedendo. Un’esperienza impossibile da comprendere leggendo i comunicati ma testimoniata con entusiasmo dalle migliaia di persone che hanno potuto condividere con loro le difficoltà e le speranze di ogni giorno.

 

Menzionare la tormenta è diventato quasi una routine. Perfino il presidente cinese, Xi Jinping, ha aperto il Foro Economico Mondiale di Davos dicendo che nel mondo c’è una tormenta anche se, ha aggiunto, “c’è anche luce”. È molto probabile che Xi si riferisca al mondo imprenditoriale che lo ha accolto con un’ovazione, perché quello è il tipo di alleanze che corteggiano i dirigenti della potenza emergente.

Di certo pochi ormai dubitano che stiamo attraversando una situazione caotica, sebbene il capitale finanziario e buona parte dei politici progressisti insistano nell’attribuirla a Donald Trump, che è invece solo ciò che emerge e non la causa dei problemi attuali. La tormenta sta dimostrando che, in mezzo alla burrasca, la capacità di comprensione diventa via via minore. Compreso, ovviamente, per chi firma queste righe.

Consolazione di poco conto è il fatto che anche le classi dominanti patiscono dosi importanti di smarrimento, cosa che si può constatare nella profonda divisione tra quelli che stanno in alto, iniziando dalla superpotenza, dove, per fare solo un esempio, non riescono a mettersi d’accordo se il nemico principale sia la Russia o la Cina.

Quando le urgenze sono tante e riusciamo a malapena a rispondere alle più pressanti, cercando di non deviare dal cammino dell’emancipazione, ritorna necessario cercare dei segni che ci aiutino a non perdere la bussola. A un secolo dalla prima rivoluzione socialista vittoriosa, propongo di trarre alcune conclusioni nella prospettiva della tormenta che inizia a scuoterci.

Uno: constatare che è possibile sconfiggere le classi dominanti. E’ stato fatto in quasi mezzo mondo, dalla Russia alla Cina fino a Cuba, Algeria e Vietnam. La sconfitta passa in modo inesorabile per sottrarre alle classi dominanti il potere politico e recuperare i mezzi di produzione e di scambio (terre, fabbriche e banche, tra i più importanti) affinché siano gestiti direttamente dai lavoratori.

Due: è molto difficile costruire una società di nuovo tipo, molto più che sconfiggere il nemico, come si vede in ognuno dei processi menzionati. L’impressione è che le forze rivoluzionarie non hanno tratto dal fallimento le conclusioni necessarie per la costruzione di un mondo nuovo. Per farlo, si dovrebbe passare attraverso un serio bilancio dello stalinismo, nelle sue diverse varianti nazionali, dal maoismo ai processi di liberazione nazionale. Se sul primo punto ci può essere un accordo più o meno generale, sul secondo la divergenza di analisi è la cosa più frequente.

Tre: la sconfitta delle classi dominanti è stata resa possibile, in tutti i casi, dal dispiegarsi di guerre inter-statali o di guerre di liberazione nazionale, o da una combinazione di entrambe, come in Cina. In ogni caso, essendo le rivoluzioni figlie delle guerre, il successo ribelle comporta il fatto che il potere che ne risulta si poggia sul predominio di uomini armati, che si trovano alla guida delle forze rivoluzionarie e al contempo dell’apparato statale. Questa disposizione di forze, come ha sottolineato trent’anni fa lo spagnolo Eugenio del Río, è un ostacolo nel procedere verso una società di nuovo tipo, dove il potere sia nelle mani dei contadini e dei lavoratori.

Quattro: le intenzioni di Lenin – chiaramente riflesse nei suoi scritti e nel libro di John Reed I dieci giorni che sconvolsero il mondo – erano che il Partito Bolscevico rovesciasse il governo provvisorio per consegnare il potere ai soviet, la creazione più rilevante dei soldati, dei contadini e degli operai russi, sorti durante la rivoluzione del 1905 e rinnovati e ampliati dal febbraio 1917.

Su questo punto conviene fare alcune precisazioni. Perché il potere dei soviet che ha realmente funzionato nel 1917, è stato eroso e annullato a favore di una nuova generazione di dirigenti aggrappati allo Stato? Ci sono analisi di diverso tipo, alcune molto convincenti. Perché il potere delle comuni cinesi è stato eroso e annullato malgrado i tentativi di rimuovere una nuova borghesia che si era impadronita dello Stato? Perché gli organismi del potere popolare a Cuba sono stati erosi e annullati dal potere del partito e dello Stato? Insomma, perché il potere de abajo è stato così effimero?

C’è qualcosa in comune in tutte le esperienze che, seguendo il copione della rivoluzione russa, dovrebbe essere motivo di riflessione. Le pratiche concrete per cambiare il mondo si infrangono nella scogliera del potere statale, che esso sia nelle mani di una burocrazia operaia (come segnalarono Mandel e i trotskisti) o nelle mani di una nuova borghesia nata nell’ambito dello Stato (come rilevò l’analisi di Bettelheim e Mao). Sarà utile rilevare, en passant, il bassissimo livello della discussione sugli altri processi, salvo i primi anni della rivoluzione cubana, che impedisce di approfondire le cause delle deviazioni post-rivoluzionarie.

È molto penoso constatare che dagli anni ‘60 non abbiamo avuto dibattiti alla profondità necessaria e, soprattutto, osservare la scarsa attenzione che meritano i movimenti che hanno tratto conclusioni dai crimini commessi in nome del socialismo. Nel nostro continente, i movimenti indigeni e femministi sembrano i più valenti nel rimuovere la lapide dello stalinismo, presente in quasi tutti i processi.

Ancora più degno di nota è constatare come lo zapatismo sia riuscito a superare alcuni dei più potenti limiti delle rivoluzioni precedenti. Ventitré anni dopo lo ¡Ya Basta!, le giunte di buongoverno sono quelle che prendono le decisioni e impartiscono giustizia, funzionando come veri organi di potere. Nel 1940 o nel 1972, nell’Unione Sovietica e nella Repubblica Popolare Cinese si era consolidato un potere controrivoluzionario, malgrado i tentativi della rivoluzione culturale e dello stesso Mao per cambiare rotta.

Al di là delle considerazioni di ciascuno rispetto alla rivoluzione zapatista, essa dovrebbe esser presa molto sul serio, poiché è riuscita ad andare ben oltre quelle che l’hanno preceduta. Cosa impossibile da comprendere leggendo i comunicati, perché per farlo bisogna convivere con le basi d’appoggio.

 

 

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