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09/10/2017

 

Basta ipocrisie. Oggi il Che avrebbe appoggiato la rivoluzione bolivariana in Venezuela

Alessandro Bianchi e Fabrizio Verde intervistano Geraldina Colotti

 

Intervista dell'AntiDiplomatico all'esperta di America Latina: "La resistenza di Cuba, i suoi ideali che si rinnovano in Venezuela: nella lotta dei popoli per una seconda indipendenza dal colonialismo e per il socialismo, seppure cercato per vie diverse da quelle di Guevara."

 

A 50 anni dalla morte, la figura di Che Guevara riesce ancora a rappresentare un esempio per milioni di persone in tutto il mondo. Da cosa dipende?

Partendo per il Congo e poi per la Bolivia, dopo aver ricoperto vari ruoli di governo, Guevara lascia per la seconda volta la valigetta del medico per quella dei proiettili. In Bolivia, ricercato da tutte le polizie del mondo, viene ucciso dai militari al soldo della Cia. E rimane impresso per lo “scandalo etico” della rinuncia al potere istituito, per il sacrificio senza contropartita, per la tenacia con la quale ha perseguito i suoi ideali rivoluzionari, fino all'ultimo: disposto a essere inflessibile, ma “senza perdere la tenerezza”. Valori comunque duri a morire. Anche in questi tempi di filisteismo dilagante.

 

Sul cinquantennale si sono però esercitati un po' tutti, anche quelli che agiscono in senso contrario ai principi che ha seguito lui. In che modo e con quali strumenti è stato recepito il mito del Che?

 

La storia è storia di lotte di classe e il modo in cui la si racconta dipende dai rapporti di forza, dall'egemonia esercitata da una classe sull'altra. La borghesia, quando vince, si dedica con ogni mezzo a cancellare la memoria storica del proletariato, per scongiurare la paura provata con le vittorie del movimento operaio. E così, del secolo di Lenin e delle rivoluzioni, ci ha tramandato un racconto di complotti, massacri e dittature. La figura del Che è stata progressivamente disincarnata. Il suo mito varia, nella percezione e nelle ragioni, nel corso degli anni e in relazione al contesto. Inizia subito dopo la morte, un anno prima del '68, che infiammerà le piazze e le coscienze. Negli anni ’70 raggiunge quello di altri rivoluzionari che lottano e muoiono, come Newton delle Pantere Nere negli Stati uniti o Ho Chi Minh in Vietnam: creare due, tre, molti Vietnam, diceva Guevara. Lo spirito di sacrificio, la lotta per la presa del potere, erano elementi comuni allora, che alimentavano anche le guerriglie comuniste in Europa. Hanno alimentato anche quella delle Brigate rosse in Italia e il movimento del '77.

 

Quale l'esempio del Che in queste lotte?

 

L'esempio che proveniva dal Che era chiaro: aveva rinunciato al potere ottenuto, all'esercizio del potere gestionario per estendere la rivoluzione nel mondo o, se vogliamo, per educare altre masse a prendere il potere e a farlo attraverso una rivoluzione, dunque con le armi, in un contesto in cui le classi subalterne premevano per trasformare radicalmente le cose. Finita quella fase, prende avvio un progressivo processo di anestetizzazione e santificazione del mito: di mediatizzazione dell'aspetto donchisciottesco, disincarnato da quello giacobino.

 

Oggi abbiamo un Che ridotto a Sindone...

 

Infatti. Arriviamo proprio al Che ridotto a Sindone, sulle magliette di chi, negli anni del disimpegno, magari va in Messico ma indossando quella Sindone vuole dire che forse non si sente a suo agio in questo mondo. Ma è negli anni ’90 che la trasformazione del mito in una falsificazione unidimensionale dilaga: Guevara diventa l’emblema della rinuncia al potere, magari da affiancare a Marcos, l’eroe-immagine più telematico di tutti. I tratti della sua coerenza etica non si spiegano più in base a una motivazione totalizzante che derivava dalla fede nella necessità storica del comunismo e in quella dell’azione soggettiva. Il Che diventa persino un’icona pacifista, corredo afasico anche di quanti sputano a quattro ganasce su quell’etica del sacrificio che ha fatto di lui uno splendido fanatico dello stackanovismo consensuale. E intanto si passa dal militante al volontario e, nel dilagare della “ongizzazione” del mondo, la prospettiva del comunismo viene derubricata a quella della “riduzione del danno”. Si cerca persino di giocare Guevara contro Fidel Castro facendo dell’uno un Donchisciotte stralunato e dell’altro un bieco caudillo totalitario. In seguito, persino quel Che disincarnato e addomesticato diventa imbarazzante per quanti, a sinistra, pretendono un atteggiamento “ragionevole” da parte dei settori popolari e cercano di conciliare ipocritamente dominanti e dominati. Nel generale capovolgimento di senso, quello del Che diventa un mito innocuo per tutte le stagioni: buono persino per i centri sociali di destra...

 

E in America Latina, cosa resta dell'eredità del Che?

 

La resistenza di Cuba, i suoi ideali che si rinnovano in Venezuela: nella lotta dei popoli per una seconda indipendenza dal colonialismo e per il socialismo, seppure cercato per vie diverse da quelle di Guevara. La bandiera del riscatto e della dignità. La costruzione dell'uomo nuovo (e della donna). Le molte domande aperte lasciate dal comunismo novecentesco che lui non aveva eluso. La critica radicale all'economia borghese. La necessità di far fronte ai molteplici attacchi dell'imperialismo, ora più subdoli, e di agire con destrezza ma a viso aperto. Come ha detto il presidente della Bolivia, Evo Morales, oggi il Che avrebbe appoggiato la rivoluzione bolivariana in Venezuela. D'altronde, prima di andare in Bolivia, aveva pensato di andare in Venezuela, dov'era scoppiata la prima lotta armata del continente dopo la vittoria della rivoluzione cubana: non contro una dittatura, ma contro una “democrazia camuffata” - quella del patto di Punto Fijo – gradita agli Usa e all'Europa. Che una certa sinistra italiana celebri il mito del Che e al contempo appoggi i golpisti venezuelani farebbe rivoltare nella tomba il rivoluzionario argentino.

 

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